Dedalus

 

 

 

James Joyce

 

 

DEDALUS

 

 

 

 

Traduzione di Bruno Oddera

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“Et ignotas animum dimittit in artes”

(Ovidio, Metamorfosi, 8, 188).

 


CAPITOLO PRIMO

 

 

 

C’era una volta tanto tanto tempo fa una muuuuucca che veniva avanti lungo la strada, e questa muuuuucca che camminava sulla strada incontrò un simpatico ragazzino a nome confettino... Questa favola gliela raccontava suo padre; suo padre lo guardava attraverso il vetro del monocolo: aveva una faccia pelosa. Era lui confettino. La muuuuucca veniva avanti lungo la strada dove abitava Betty Byrne; Betty vendeva zucchero filato al limone.

 

Oh, le roselline selvatiche

Sul praticello verde.

 

Cantava questa canzone. Era la sua canzone.

Oh, le loselline veldi.

 

Quando fai la pipì a letto, prima è calda, poi diventa fredda. Sua madre metteva la tela cerata. Che aveva quell’odore strano. Sua madre aveva un buon odore, più del babbo. Suonava al pianoforte la danza del marinaio, quella con le cornamuse, per farlo ballare. Lui ballava:

 

Trallalà lallà

Trallalà trallalera.

Trallalà lallà

Trallalà lallà.

 

Lo zio Carlo e Dante battevano il ritmo con le mani. Erano più anziani del babbo e della mamma, ma lo zio Carlo era più anziano di Dante.

Dante aveva due spazzole nell’armadio. La spazzola rivestita di velluto marrone era per Michael Davitt e la spazzola rivestita di velluto verde era per Parnell. Dante gli dava una caramella ogni volta che lui le portava un foglio di carta velina.

I Vance abitavano al numero sette. Avevano un altro padre e un’altra madre. Il babbo e la mamma di Eileen. Non appena fosse diventato grande, lui avrebbe sposato Eileen. Si nascondeva sotto il tavolo. Sua madre diceva:

“Oh, Stefano domanderà scusa”.

Dante diceva:

“Oh, se non domanda scusa vengono le aquile e gli strappano gli occhi”.

 

O scusa domandare,

O gli occhi farti cavare,

O gli occhi farti cavare,

O scusa domandare.

 

O gli occhi farti cavare,

O scusa domandare,

O scusa domandare,

O gli occhi farti cavare.

 

L’ampio cortile della ricreazione era gremito di ragazzi. Gridavano tutti, e i prefetti li incitavano a gran voce. L’aria della sera era scialba e gelida e dopo ogni carica e ogni sordo scalpicciare dei giocatori di pallovale, il melmoso pallone di cuoio volava come un greve uccello nella luce grigia. Lui si teneva all’estremità della linea, senza farsi scorgere dal prefetto, fuori portata dei piedi violenti, fingendo di correre di tanto in tanto. Sentiva il proprio corpo minuto e gracile nel pigia pigia dei giocatori e aveva gli occhi miopi e lacrimosi. Rody Kickham non era così: sarebbe diventato il capitano del terzo corso, lo dicevano tutti.

Rody Kickham era un bravo ragazzo, ma Nasty Roche era un fetente. Rody Kickham aveva i parastinchi nell’armadietto e nel refettorio un cestino. Nasty Roche aveva grosse mani. Il “pudding” del venerdì lo chiamava “cane-nella-coperta». E un giorno gli aveva domandato:

“Come ti chiami?».

“Stefano Dedalus” era stata la risposta di Stefano. Allora Nasty Roche aveva detto:

“Che razza di nome è questo?» E non essendo Stefano riuscito a trovare una risposta, Nasty Roche aveva domandato:

“Che cos’è tuo padre?”

Stefano aveva risposto:

“Un gentiluomo”.

Allora Nasty Roche aveva domandato:

“È un magistrato per caso?”. Si spostava furtivo di pochi passi all’estremità della linea, facendo corse brevi di tanto in tanto. Ma aveva le mani azzurrognole per il gran freddo. Le teneva nelle tasche laterali del vestito grigio con la cintola.