Si rizzò sul letto e, passandosi la mano sulla fronte sudata, balbettò: “Ho russato?… Dio mio, ho russato?”

Con un salto, fu nei corridoio, e bussò piano alla porta delle sorelle. “Che vuoi?… Chi è?…” dissero quelle, spaventate.

“Mi avete sentito russare?”

“Come?… Russare?… Ma no!”

L’indomani notte, volle che, vicino alla porta della sua camera, dormisse la serva, su un materassino steso in terra, per sentire se egli russava. Invece, russò la vecchia, ed egli non riuscì a chiudere occhio.

Indossava sempre una veste da camera giapponese e un fazzoletto di seta, e, a tavola, si specchiava perfino nelle bottiglie di vino. Lo sbiasciare di Barbara gli dava ai nervi, e quando lo schiocco delle labbra era più forte, egli si fermava con la forchetta a mezz’aria, guardando in giù.

“Che hai?” diceva Barbara. “Nulla!”

“Io non capisco!” mormorava fra sé la zitella, asciugandosi il mento. “Ma che hai?” gli domandò una volta a voce più alta.

“Ho che mangi male!”

La povera donna ebbe un singulto, e non poté aggiungere nulla. Rosa le si fece vicina e, sotto la tavola, le strinse teneramente una mano. Nessuno dei quattro arrivò alla frutta.

“Io gli dico il fatto suo” minacciò una notte Lucia, svegliandosi di soprassalto.

E l’indomani glielo disse: “Sei un povero sciagurato, un pazzo, non ragioni più, sei diventato una cosa, una cosa, che non riuscirebbe a sopportarti nemmeno nostra madre, buon’anima!”

“Bene!” gridò Giovanni. “E’ proprio così! Non ci sopportiamo a vicenda! Anch’io non ne posso più di voi! Di questa casa mal pulita, piena di caraffe vecchie e di scatole mangiate dai topi. Perché di qui non si getta via nemmeno una boccetta!… Cotesta è economia! Così fate l’economia: conservando il vetro sporco e i cenci fetidi!” E passeggiava a gran passi. “Poi, Dio santo, quello che mi fa vomitare è l’odore degli asciugamani!”

“Che hanno gli asciugamani?”

“Puzzano di petrolio! Vi lavate la testa con cose più sporche della stessa sporcizia!… E le mani!…”

“Che hanno le mani?” fece Rosa. “Sono nere di carbone!”

Tutte e tre le donne si guardarono le mani, pensando quante cose avevano fatto con quelle povere dita; poi se le nascosero sotto il grembiule.

“Così, che vuoi fare?” domandò Lucia, resa calma dal dolore.

“Me ne vado, me ne vado!… Vi manderò il denaro come al solito, puntualmente, ogni fin di mese, ma vivrò in una casa per conto mio! Ho quarant’anni, e voglio sentire l’odore e la puzza che mi piacciono, non quelli che mi fanno vomitare!”

Le donne scoppiarono in pianto. Ed egli uscì sbattendo la porta.

“Mai, mai, mai!” ripeté a Muscarà, che era andato a trovarlo in albergo. “Non ne voglio più sentire! Non metterò più piede in quella casa! Tutto è brutto! L’androne è brutto, la scalaccia è brutta, la luce è brutta (anzi, nel corridoio, non ce n’è affatto!); la serva, Dio ce ne liberi, è una capra vecchia; la piazza su cui danno i balconi è una fogna, la strada su cui dà la finestra è una concimaia! Anche loro, poverette,” aggiunse a bassa voce, e con una certa pietà, “sono bruttine!… E io non voglio più vedere cose brutte intorno a me! Ne ho abbastanza! Da quarant’anni non vedo cose belle! Voglio una casa in cui pure i topi siano belli!”

“Sei un pazzo da legare!” disse Muscarà.

“E anche tu, anche tu! Mi sembri una blatta! Hai l’anima di fango! Parli come un facchino di porto!… Anche tu mi devi lasciar perdere!”

“Subito!” fece Muscarà, alzandosi, rannuvolato, dai piedi del letto. E nell’uscire, disse: “Babbeo di Viagrande!”

“Va bene!” fece Giovanni, voltandosi sul letto. “Va bene! Ma non ti voglio vedere nemmeno scritto sul muro!”

E, acceso un sigaro, se lo guardò con tale ira fumare tra le dita, che il cameriere, venuto a comunicargli che il signor Muscarà lo aspettava fuori per rompergli, lo diceva il signor Muscarà, le corna, si allontanò indietro senza far rumore.

6.

Giovanni si ritirò in un sobborgo di Catania, Cibali, che era composto di un centinaio di case con giardinetto, legate alla città da un vecchio tram sconquassato, il cui arrivo faceva scappare le colombe dal tetto della chiesa.

“Che succede?” domandava il forestiero inginocchiato presso l’altare maggiore, al tremendo fracasso che rimbombava nelle navate. “Arriva il tram!” mormorava Il vicino inginocchiato anche lui. “E adesso, che succede?” incalzava, poco dopo, il forestiero, udendo un sibilo lamentoso e altissimo perforare il lucernario. “E’ il tram che svolta la cantonata!” rispondeva il vicino, sempre inginocchiato, e con la fronte dentro le mani congiunte.

Ma, tolte queste poche interruzioni di fracasso infernale, la vita del sobborgo scorreva quieta e gentile, col vento del mare, che, saltata la città troppo infossata, veniva a dondolare le foglie nei giardini, e la luce dello stesso mare che, lasciando, col medesimo salto del vento, in penombra Catania, veniva a illuminare le persiane verdi e i vetri delle finestre.

Giovanni aveva preso in affitto una villetta di sei stanze, con la cucina, il bagno di mattonelle, il giardino, una terrazza, una seconda terrazza, tre balconi, una legnaia, una terza e quarta terrazza e infine, su quest’ultima, una torretta che, con una piccola quinta terrazza, era in grado di tenere una persona quasi al livello del campanile, e dentro il fumo del sottostante comignolo.

Giovanni prese con sé un cameriere, un brav’uomo, nato a Catania, che aveva prestato cinque anni di servizio a bordo di una nave da battaglia, e portato il caffè perfino all’ammiraglio, che gli aveva preso la tazza dal vassoio senza stornare gli occhi dalle cartine stese sul tavolo.

Parve costui a Giovanni un servitore “messo su con tutti i sacramenti”; gli piacque il nome, Paolo; e gli piacque anche di più l’aria d’obbedienza che gli scorreva su metà del viso da un occhio la cui palpebra non poteva alzarsi interamente.

Il proprietario della nuova casa di Cibali, con infinita cortesia, gli regalò un delizioso gattino d’Angora.

Le cose andarono bene, nei primi giorni. Paolo serviva a tavola coi guanti di tela e la giacchetta bianca, e rispondeva al telefono così garbatamente che Giovanni pregò molti amici di chiamarlo al mattino, in modo ch’egli potesse godersi, dal letto, le frasi gravi ed eleganti con cui il cameriere evitava di rispondere che il suo padrone era a letto, senza però promettere che egli verrebbe subito all’apparecchio. “E’ meraviglioso!” mormorava Giovanni, agitandosi, per la contentezza, sul materasso.

Ma, come fu e come non fu (in tal modo s’iniziano tristi racconti a Catania), quest’uomo meraviglioso divenne a un tratto…

Ecco cosa divenne: una subitanea stanchezza e poltroneria s’impadronirono di lui; dimenticò di parlare in lingua, e si diede al più sguaiato dialetto, chiamando perfino il suo padrone “u carannuluni”, cioè a dire uccello stracco e privo di meta, e domandandogli, al mattino, quando gli vedeva la faccia ammaccata, se non fosse “tuccatu du cufinu”; lasciò che le dita uscissero dai guanti laceri; si riempi di macchie gialle, marrone e cenerognole che, solo dopo una settimana, perdevano il cattivo odore delle salse da cui provenivano. E tutto questo sarebbe stato nulla, se la sua anima fosse rimasta intatta. Invece, anche da questa parte, la figura del servitore si guastò: una collera insospettata affiorò nel suo occhio spalancato, e una rassegnazione amara in quello socchiuso. Non che fosse cattivo: nella somma dei suoi affetti risultava buono; ma era soggetto a lunghi accessi d’ira; e se prendeva qualcosa nel filo della sua antipatia, non lo mollava finché non ne assistesse alla fine. Uno dopo l’altro, in quell’antipatia capitarono gli utensili da cucina: una pignatta, due padelle, il rubinetto della vasca, un paiolo, le impannate della finestra, la teiera; poi vi capitò anche la brocca; e quindi il secchio per l’immondizia. L’antipatia crebbe velocemente, e si mutò in odio. Egli parlava fra sé di questi utensili, masticandone, e quasi mordendone, i nomi. Giovanni sentiva spesso insultare la brocca con parolacce da trivio; poi c’era una pausa; e veniva la volta della teiera. Chiuso in cucina insieme con gli oggetti del suo odio, era difficile cavarlo fuori con suoni di campanello, di gong, o urlandone il nome: Paolo veniva raramente alla presenza del suo padrone. Col tempo, non si riuscì a fargli portare l’odiata teiera o la brocca, dicendogli: “Portami la teiera!… Portami la brocca!” Così, egli non capiva.