Bisognava indicare quegli ogni con le ingiurie con cui egli li nominava. “Portami la ruffianaccia!… Portami la sgualdrina!” e allora, egli correva subito in cucina, mordendosi le labbra per l’odio rinfocolato.

Né la decadenza del cameriere si fermò a questo punto.

Giovanni voleva bene al gattino d’Angora, ch’era fornito d’ogni grazia, e sembrava una mirabile piuma in cui la natura avesse ispirato una tenera vita per farla salire sui letti e correre ai richiami. Questo gattino dormiva su una sedia, ma senza dubbio soffrendone, perché aveva bisogno di mescolare il proprio calore con quello di un uomo. Fra la spalla e il collo di una persona, avrebbe dormito una settimana senza svegliarsi, sul velluto inanimato, smaniava e riapriva gli occhi ogni momento.

Nel primo mese, il bel gatto entrava, al mattino, lavato e spolverato, insieme con l’elegante cameriere, e saltava sul letto di Giovanni, trovando presto un rifugio dentro l’arco delle gambe. Ma, spirato quel mese, entrò sporco di cenere e umido di non si sa che, e lasciò la sua traccia nera sulle coperte. Che accadeva? Anch’esso era incappato nell’odio del servitore, che ormai lo chiamava “il polipetto”. Poco o nulla comprendendo dei sentimenti umani, il gatto si arrampicava, all’alba, sulle ginocchia di Paolo, con gli occhi teneramente fissi nell’occhio, bieco e pieno d’odio di lui. Giunto in cima alle ginocchia, veniva preso per le zampe posteriori come un coniglio e calato due o tre volte nel secchio dell’acqua sporca o ficcato nel fornello.

Giovanni non diceva nulla: ormai aveva dato fondo al suo potere di risentirsi e di litigare. Invece, si era ingrandita la sua capacità di non vedere le cose che gli stavano intorno. In questo lo favoriva la solitudine, lo favoriva il silenzio, e lo favoriva anche il fatto che nessuno apparisse quand’egli suonava il campanello o chiamava. Del resto, quegli esseri, che ora si presentavano a lui imbruttiti dalla sporcizia, il servitore e il gatto, erano stati belli poco tempo avanti, e conservavano tuttavia qualche segno della loro nobile origine.

Egli andava a Catania ogni mattina, per immergersi un attimo nello sguardo di Ninetta (proposito che raramente falliva), e subito tornava a casa di galoppo, come una spia, che, avendo fotografato un’immagine preziosa, corre a chiudersi nella camera buia, e vi passa l’intero giorno fra imprecazioni e gridi d’esultanza. Lo sguardo di Ninetta, una volta raggiunto il viso di lui, vi rimaneva sino all’alba dei domani, evaporando in mille delizie. Ma, all’alba, si era già consumato! Giovanni, spaventato di non ricordarla più, tornava a Catania, e sbatteva qua e là per le strade come un uccello in cerca di cibo. Finalmente, ecco la sua veste azzurra, ecco il lampo dei suoi occhi!

“Dai suoi occhi,” diceva a se stesso, sdraiato nel giardinetto, su una sedia lunga, mentre un ramo avvicinato dal vento gi riempiva il colletto di formiche, “pare che guardino le più gentili donne del mondo nel momento in cui hanno amato di più, sofferto e avuto pietà!”

Era preso dal sentimento dell’universale. Egli, che nel passato aveva appena riempito lo spazio di un uomo, ora occupava quello di tutti gli uomini. L’acacia del suo giardino, il pino selvatico e le due palme lo videro, al lume della luna, afferrarsi e tirarsi i capelli, e perfino darsi pugni sulle tempie, per la troppa dolcezza dei sentimenti. Quando sognava che Ninetta sarebbe, quella notte, venuta da lui, egli udiva distintamente tutti i piccoli rumori di battenti socchiusi adagio, di scarpine appena poggiate al suolo, che, nel corso di secoli, le donne avevano mandato recandosi cautamente da un uomo. Le sue fantasie si fermavano rispettosamente al bacio. E come poteva andare più oltre, se già a questo punto il cuore gli batteva fin dentro il muro a cui poggiava la testa?

Talvolta però tutto il suo sangue era preso da un’avidità indistinta e furiosissima, come se da infiniti punti della sua persona si bramasse una cosa sola; ed egli si rotolava e torceva sulla ghiaia umida, dietro le siepi da cui fuggivano gli scriccioli. Il suo cervello produceva, milioni di volte in un minuto, il nome di Ninetta! Per quanto egli si ficcasse le dita nelle palpebre chiuse, cercando di profondare gli occhi nel sonno o comunque nella tenebra, o nascondesse la testa fra i cuscini, e magari, inginocchiato ai piedi dei letto, fra un materasso e l’altro; per quanto sbattesse sul letto, ferendosi le ginocchia contro la parete contigua, o camminasse per la stanza in pantofole, e sulla ghiaia del giardino a piedi nudi, non riusciva a fermare quel cervello impazzito. Parve, una notte, che la vita di questo gentiluomo di trentanove anni, il quale, per giunta, era stato nominato da un giorno cavaliere della Corona d’Italia, dovesse svenarsi e totalmente versarsi al di fuori con quelle tre povere sillabe: “Ninetta”. L’alba, per fortuna, con un impreveduto abbassamento di temperatura, raffreddò il suo cervello, e vi portò la calma.

La notizia che egli era stato onorato dal Governo del Re con quel titolo, gli fu recata sino a Cibali dal cavaliere di Malta, Panarini, suo nuovo amico. Perché Giovanni aveva cambiato amici, sebbene questo riesca difficile nell’età in cui allontaniamo il libro per leggerlo meglio.

Ma gli antichi amici, coi loro discorsi volgari sulla donna, non facevano più per lui! E poi, bisogna pure dirlo a loro discolpa, non era agevole camminare al fianco di Giovanni. Al pari di tutti i catanesi innamorati, quando vedeva profilarsi a distanza la figura di Ninetta o un’amica di lei o un segno qualunque che ne annunziasse la prossima apparizione, egli veniva preso da una paura collerica, come il comandante della vecchia fortezza, sorpreso dal nemico mentre le porte sono spalancate e il bucato è steso sulle bocche dei cannoni. Nulla era al suo posto per Giovanni, specie nell’attitudine e nel vestito dell’amico, quand’ella appariva: “Voltati!” gridava egli, con la voce strozzata. “Non guardare!… Nascondi il giornale!… Mettiti il cappello!… Non parlare!” E talvolta rigirava l’amico brutalmente, ponendolo quasi con la testa al muro. Temeva sempre che un qualche segnale desse alla ragazza il sospetto che egli avesse pregato una seconda persona di guardare per lui. Leggerezza, questa, considerata abbominevole dagli innamorati di Catania; quasi altrettanto abbominevole che quella di mostrare all’intorno, sotto gli occhi della donna che passa, di essere innamorati di questa bella passante. Perciò il baronello Licalzi, che era anche lui tutto preso di Ninetta, passeggiava, portando quel timore agli estremi, nei punti più lontani dai luoghi frequentati da lei, e spesso partiva, e rimaneva lontano, con l’effetto che la ragazza ignorava perfino l’esistenza di un uomo così squisito.

Ora, per tornare al nostro discorso, i vecchi amici non erano tanto pazienti né tanto ingentiliti dalla passione, da sopportare e comprendere le bizze di Giovanni. Nessuno era in grado di comportarsi come il cavaliere di Malta Panarini, che, afferrato dal cavalier Percolla, e costretto a voltarsi, ad abbottonarsi, a calcarsi il cappello sugli occhi, a nascondere il giornale, a non ridere, a non parlare, sospirava semplicemente un: “Capisco! Capisco!” Giovanni si licenziò dai vecchi amici e cercò i nuovi fra gl’innamorati di Catania.