E innamorati non di fresca data o discontinui, ma antichi e fedeli innamorati.

Come fece a trovarli? Eh, un occhio esperto li distingue subito in mezzo alla folla comune! Basta a dichiararli quell’aria di chiuso e stantio che emana dalla loro persona, ove, da venti o trent’anni, abita un amore, inconfessato. I loro modi sono garbati e fini, ma il loro occhio, abituato a far strisciare lo sguardo, fra spalle e cappelli, o fra alberi e case, fino a lei che non guarda, manda una luce di vecchio faro adibito a un mare deserto. Come s’innamorarono? In maniera molto semplice: videro e s’innamorarono. Di chi? Quasi sempre di una Inna rara o per censo o per sangue o per gloria.

Entrando, verso le undici, nella dolceria principale, Giovanni aveva sempre visto, appoggiato allo stipite, il cavaliere di Malta Panarini Galed. Una sciarpa di seta gli avvolgeva il collo, e un cappello di feltro, con le falde abbassate, gli copriva metà del viso. Vent’anni fa, la figlia del principe Carosio, oggi duchessa di Parlova e dama di palazzo in Romania, sorrideva dal balcone stemmato a questo giovane sottile. Poi ella sorrise sempre di meno, e in ultimo sposò un vecchio duca. Vent’anni continui di amore hanno privato la vita di Panarini di molti episodi. Un uomo non può, nello stesso tempo, agire e ricordare: Panarini ha preferito ricordare, e il solco più profondo, che abbia finora lasciato il suo passaggio sulla terra, lo si trova nel sofà.

Poco dopo, sull’unico gradino della medesima dolceria, Giovanni vedeva salire un personaggio dal cappotto di pelo che, avvicinando allo specchio il lato destro del viso, cercava di ricacciare entro il cappello la ciocca bianca che gli pendeva sull’orecchio. Era il signor Laurenti, che amava, da trent’anni, la più ricca signorina della provincia. Incapace dì compiere un atto o dire una parola per richiamare l’attenzione su di sé; pronto, nelle sere di scirocco, a confondersi con la nebbia e a lasciare al sentimento degli autisti la decisione di ucciderlo o meno, Laurenti aveva tuttavia collocato il suo cuore nel palazzo più lussuoso della città. Perché? E’ difficile rispondere: ma forse, per quella stessa naturalezza e mancanza di ogni secondo fine per cui la rondine decide di fare il nido entro Il prezioso lampadario di una chiesa invece che sotto una tegola.

Giovanni aveva infine notato alcuni clienti dì caffè, che sedevano solitari, con in mano una margherita o una ciocca di gelsomino d’Arabia (il primo fiore spuntava sempre fra il loro pollice e indice). Chi erano, Dio degli Angeli? Gl’innamorati delle grandi cantanti. A questi l’amore è arrivato sul la e il si. Tutti quanti si sono innamorati nel momento in cui il soprano prendeva l’acuto. Certo, a ripensarci, la fatica di sostenere un acuto deforma il viso, e non è proprio quando il collo si gonfia, la bocca va a destra, il palato biancheggia, il petto trascina in su la veste, che una donna possa legare l’uomo con un nodo eterno. Ma questi innamorati non si accorgono mai dei particolari fisici, specie se momentanei, di una donna: tanto è vero che, per vederla, essi non guardano il punto in cui ella si trova. Sia come sia, molte famose cantanti hanno a Catania i loro fedeli e antichi innamorati, e, quando in una recita, trasmessa per l’etere, i loro acuti fanno tremare la volta del teatro e le lampade di tutte le stanze in cui è aperto un apparecchio radio, nessuno di tali tremiti è paragonabile a quello di certi cuori solitari di Catania che, da venti o trent’anni, adorano in silenzio.

Giovanni non aveva mai dato soverchia importanza a questi personaggi, ma un giorno, urtando col gomito nel gomito di Panarini, sentì quel confuso calore che sente un cavallo se, attraversando, nel buio della notte, un armento che gli struscia sui fianchi ora le corna ora il pelo rappreso, urta improvvisamente in un altro cavallo: le due bestie si fermano, si mettono a vicenda il collo sul collo, si accarezzano i garetti con la zampa e infine si nitriscono nell’orecchio. Così, Giovanni Percolla e Alberto Panarini si fermarono, si sorrisero, si strinsero la mano, confessarono di aver trascorso la vita dicendo ciascuno della faccia dell’altro: “Questa faccia non mi è nuova, e mi è molto simpatica!”

L’amicizia di Panarini fu il filo d’Arianna che condusse Giovanni nel labirinto degl’innamorati di Catania: uno dopo l’altro, egli li conobbe tutti. Voci nuove e pacate gli diedero del tu, ed egli si trovò a rispondere tu a persone di cui spesso dimenticava il nome.

Comunque, fra questa gente, si respirava un’aria diversa. La dolcezza, il silenzio, il garbo, l’amore per la musica e per taluni poeti non lasciavano mai alla volgarità il governo di questi animi. Altro che spintoni: Laurenti pesava quanto un passero, e di Panarini, sebbene fosse alto, non si riusciva mai a trovare il braccio tra le pieghe della manica.

Tuttavia anche qui Giovanni dovette assistere a scene di violenza che aumentarono la sua insonnia. Ma fortunatamente era la più decorosa delle violenze, o almeno la più conforme a una società così gentile: era la violenza subìta.

Gl’innamorati di Catania temevano sempre qualcheduno: “i miei nemici”, come dicevano essi, storcendo gli occhi. La loro vita solitaria era insidiata da grida di sconosciuti, che pronunciavano il loro nome in alto, quasi fra i tetti, e da terribili urtoni di gente che correva a testa bassa. A tali paure, Panarini aggiungeva quella, veramente folle, del proprio padre. Mentre la sua immagine, rimembrata con amore dalla duchessa di Parlova, stava forse, in quel momento, a pochi passi dal trono di Romania, egli batteva i denti e tremava come una foglia se, trovandosi nei pressi del palazzo Carosio, un amico veniva di corsa ad avvertirlo: “Tuo padre!”

Ubbidendo al suo primo impulso, Giovanni aveva deciso di alzare le mani in difesa dei nuovi amici: e litigò, infatti, con alcune comitive…

Gli animi s’erano esacerbati, e le cose stavano per prendere una brutta piega, quando, sugli alberi del giardino pubblico, scintillò la prima fetta di luna.

Questa luna di agosto sarà ricordata, a Catania, per molti anni: essa portò un’infinita, sebbene assai breve (non durò più di un mese), dolcezza nei costumi, e spinse l’amore così lontano che anche Monosola impallidì, si liquefece, disimparò i volgari rumori, per cui era famoso tra gli amici e coi quali accompagnava I gravi passi di Laurenti nella notte. In parecchi, il termine dell’amore fu unico: Maria Antonietta dei Marconella. Ma questo non irritava troppo Giovanni, che non riuscì a sentire rancore contro persone che non dormivano, non mangiavano, e non avevan mai rivolto la parola all’oggetto dei loro sogni.

Anzi, una profonda simpatia lo legò a queste persone che, nel vestire sempre meglio, indossavano abiti sempre più stretti.

7.

Quando il cielo di Catania è fosco di scirocco, la luna vi si stempera come un’arancia disfatta; una polvere appena appena luminosa avvolge gli uomini e gli edifici, e l’intero universo sembra disegnato su un vetro sporco. Allora, se in una terrazza si svolge un ballo di gala, non c’è abito né gioiello che riesca a scintillare, e i visi cerei delle ragazze sono coperti di sonno.

Bandiera di questa città, che non sa più combattere la noia e la sonnolenza, e si arrende alle mosche e alle zanzare, per scacciare le quali nessuno ha la forza di levare una mano, ecco un lenzuolo bianco, che pende floscio da un alto torrino, ove, il giorno avanti, fu steso ad asciugare. Ma quando il vento del settentrione, carico dei freschi odori della montagna, fuga e spazza le nebbie notturne, oh, allora, la luna estiva di Catania è più forte che non sia il sole di Germania nel pieno mezzogiorno.

Una luce purissima fa scintillare tutto quanto si muove, dallo specchio, che viaggia sopra un carro, al più piccolo verme che striscia nel fondo della polvere.