Sulle imposte chiuse, colui che dorme vede appiccarsi un fuoco bianco, capace di fondere la pietra sebbene così silenzioso e privo di calore, e fin nella sotterranea dispensa, ove non è mai scesa altra luce che quella di una candela, il formaggio muffito e l’uva passa si affacciano piano piano alla vista in un leggerissimo albore di argento filtrato dalle mura e dai pavimenti. Anche le mosche, uscendo dalla finestra, brillano nell’aria, non più nere, ma bianche come perle.
Se, in una di queste notti, si svolge un ballo modesto entro un cortile, fra povera gente che ha messo fuori dell’uscio le panchette, gli occhi delle ragazze paiono fatti di una materia incorruttibile e destinati a scintillare nei secoli; le galline, accovacciate sulle scale a pioli, somigliano ai pavoni; le colombe, sulle tegole, ai cigni; il fango del cortile al velluto, e le vesti di scatarzo a veli preziosi. Il mondo cambia di qualità; il pregio delle cose sale a dismisura; e il passante, battendo con la punta del bastone un vecchio muro, può farne rotolare un sassolino che starebbe a meraviglia anche nel triregno di un papa.
Come il contadino, che da tanti anni accumula il suo denaro per acquistare un bel cavallo, giunto ad una fiera, e vedendo i più bei cavalli del mondo, decide che il suo denaro lo spenderà tutto qui, così gli uomini di Catania, che da tanti anni non fanno nulla e non godono nulla, confortati dal pensiero che essi risparmino le piccole occasioni per una migliore, giunti a una notte di luna di tale splendore, gridano, in cuor loro, che questa è la volta di spendere, senza rimorsi, tutta la propria vita! Ma come, dove, in che? Ed errano, scintillando dai bottoni, nel fulgore lunare, mai paghi di camminare alla ricerca di un minimo pretesto per commettere una follia. Gli scapoli caparbi, che hanno rifiutato la mano di ricche e nobili Eleonore ed Elene, sposerebbero, questa notte, la prima Agatina che trasparisse dai vetri di una casa a pianterreno. Gli avari, che hanno conservato nel corpo le pietre più dolorose, per non pagare il chirurgo, ora spenderebbero mille lire per vedere un ubriaco saltare su un solo piede o una guardia municipale affacciarsi in mutande al balcone.
Coloro che hanno paura dei viaggi, e la cui unica valigia è ormai trasformata in un’angoliera, che non si può sottrarre al salotto senza farne cadere uno specchio e spegnere la luce, ora entrerebbero, sguazzando coi piedi, in un’arca, che, pur facendo acqua, li portasse in Egitto.
Quello che succede agl’innamorati in una notte simile, rimane un mistero, perché la tacita luna insegna ad essi soli un silenzio profondo come quello in cui naviga da millenni; ma chi guarda la loro mano, al mattino, vi trova, ancora rossa, la traccia dei denti (parecchie volte durante la notte, per non gridare di delizia e di sconforto, essi si sono morsi).
Giovanni Percolla ebbe in sorte questa luna in un momento tanto delicato della vita. Naturalmente, le sue smanie crebbero. E crebbero a tal punto che l’occhio bieco del servitore si storceva, al mattino, davanti al viso, marcio d’insonnia, del padrone; si storceva e contorceva, quasi volendo accogliere la pietà. Giovanni non dormiva un solo istante durante la notte; egli riposava due o tre minuti ogni mezz’ora, seduto e anche in piedi, abbassando le palpebre come un cavallo al sole.
Si confidò con Panarini, ma nemmeno costui riusciva a dormire. Era tornata dalla Romania la duchessa di Parlova, e il più alto balcone del palazzo Carosio, riaperte le imposte, riluceva debolmente attraverso le tende. Come si può dormire, quando in alto, vicino al cielo, veglia una luce simile? Laurenti, che assisteva al dialogo, sospirò: “Io!…” E si fermò.
“Tu?…” fece Giovanni.
“Io, ogni sera, inghiotto una palla nera che mi porta giù nel sonno come in fondo al mare. Ma verso le due del mattino…” Verso le due del mattino, il fratello minore, che, al contrario di lui, era grosso, famelico, sanguigno, veniva preso da una fame lupigna che lo sradicava dal sonno e lo cacciava fuori del letto. Masticando a vuoto, si aggirava per la casa, apriva sportelli e scatole, accendeva il gas, e vi metteva a friggere una bistecca. Il fumo acre della frittura invadeva la casa, ed entrava nella camera del più magro dei Laurenti, richiamandolo a un’insonnia che non era più riparabile.
Gl’innamorati di Ninetta, e fra questi Monosola che, camminando su una gamba posticcia, riempiva di un sordo rumore di legno la strada dove abitavano i Marconella, sbadigliavano la sera miseramente come cani alla catena. Monosola disse la verità a Giovanni: “Io m’attacco alla bottiglia del Serenol, prima di andare a letto, e lo bevo come se fosse acqua!”
“E riesci a dormire?” “Nelle prime ore, sì…
Dopo questa confidenza, Giovanni acquistò una boccetta di Serenol, vi lesse per tutta la sera la scritta: “Vagotonia, simpaticotonia e anfotonia. Come calmante, come ipnotico”; ne bevve un bicchierino, e andò a letto. Subito, entrò nel sonno, e vi rimase quattro ore, svegliandosi poi con un tale desiderio di consumare nel pensiero di Ninetta le poche forze guadagnate che uscì seminudo nel giardino.
Era l’alba. La luna tramontava In una luce che non era più sua. Il mare lontano, nei punti in cui cadevano le ombre delle nubi, pareva vuoto. Poi disparve la luna, e un sole rosso vinaccia si alzò tumido dal mare, gettando in terra una luce che pareva il sugo stesso dei molti pomodori, ciliegie e fichidindia, che affollavano i campi, diventato a un tratto luminoso.
Giovanni si ritirò nella propria camera, e, facendo di Ninetta quello che si fa di una persona cara, perduta la notte innanzi, quando sorge il sole che ella non vede, si nascose in un angolo della propria camera, e cominciò a dire di lei le cose più dolci.
La chiamò palombetta, zucchero mio, campanellina, e infine con parole che non significavano nulla: nacanaca, pilipili, zuzu, lapina!
La notte seguente, nonostante avesse raddoppiato la dose del Serenol, non dormì che mezz’ora. E l’altra notte, non chiuse occhio.
“Ma tu devi conoscerla!” gli disse Panarini. “Ti presento io! Questa sera, andremo a un ballo in un caffè di Ognina, e poi ai bagni…”
Ma quella sera il caffè di Ognina, pieno di tutti gl’innamorati di Ninetta, che stavano accovacciati fra le palme, coi visi tristi e gli occhi bianchi dei negri, ora tirandosi le maniche fino al gomito, ora rimboccandosi i pantaloni, in una smania e irrequietezza da non si dire, non vide Ninetta.
Giovanni tornò a casa, camminando innanzi a tutti, con le mani sul dorso.
Da quella sera, egli entrò nella vita mondana. Con una giacchetta color pistacchio, frequentò il ballo notturno di Ognina: partecipò così alle gimcane, e percorse le terrazze legato per un piede a una signorina, poi, voltandosi bruscamente, spense la candela della signorina, e infine rispose prontamente al verso “Perché hai tanto dolore?” proposto dalla signorina, col verso “Disperato per amore!” Finalmente, fu presentato a Ninetta dei Marconella. Panarini gli era al fianco, e, fingendo di appoggiarsi al braccio di lui, in verità lo sorreggeva. Giovanni disse poche parole, e abbastanza serenamente. La sua conversazione con Ninetta fu delle più comuni, e talvolta delle più glaciali; ma il sorriso melato di lei, l’indistinto fulgore in cui si fondevano i suoi capelli, gli occhi e l’ovale del viso tremolante come la luna nell’acqua, portarono la mente di Giovanni ad abitare nei cieli come in casa propria.
Egli si sentiva sempre a un’altezza vertiginosa; e la notte, mentre gli amici parlavano fra loro, i suoi occhi erravano da Sirio a Giove, e dall’Orsa Maggiore ad Algol. Tutti gli sguardi, che aveva gettato alla volta celeste nel corso della sua vita, non erano un decimo di quelli che vi rivolgeva adesso tra le otto di sera e le tre del mattino. Il suo sentimento dell’universale si approfondì: amava Ninetta da mille anni: ella era stata tutte le donne più belle, ed egli tutti gli uomini più famosi. Una notte che egli era Giulio Cesare, e andava da Ninetta Cleopatra, entrò sbadatamente in una casa dalle imposte chiuse con catene; e scelse, fatto singolare, la ragazza più brutta. Da quando amava la bella toscana, si vergognava di apparite nudo e con gli occhi torbidi davanti alla Bellezza, quasi che lo sguardo di Ninetta luccicasse nello sguardo di tutte le donne che non fossero brutte. Per soddisfare certi bisogni, che del resto lo assalivano raramente, egli andava in cerca di un sesso estraneo a lui e a Ninetta, e ch’era quello delle donne sgraziate.
“Anch’io!” confessò Panarini.
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