“Anch’io!”

Ma non disse altro. E come poteva confessare che, quasi ogni notte, egli s’introduceva in una stanza bassa e affumicata, ove una donnaccia, nemmeno ben lavata, abbassava il lume al suo arrivo? La duchessa di Parlova scintillava, al balcone del proprio palazzo, come nel punto più alto dell’universo, e Panarini, che, per i suoi deboli nervi, era anche molto desideroso, andava a fissarsi nel punto più basso e lontano dal balcone di lei. “Che hai?” gli diceva la donna; ed egli, che aveva giurato la sera innanzi: “Muoia mia zia Caterina se entrerò ancora in quell’uscio!” girava in silenzio, per le pareti coperte di ragnatele, i suoi occhi pieni di lutto. Col tempo, i giuramenti si fecero più terribili: “Muoia mia sorella!” “Che io perda la vista degli occhi!” “Che mi si tiri una fucilata al buio!” E i suoi occhi si posarono sempre più disperati su quelle ragnatele…

“Ah, anche tu?” disse Giovanni. “Com’è strana la natura!”

Ma la natura si mostrò addirittura odiosa, quando, nel cuore di una notte in cui gli pareva che la luce lunare strisciasse sulle cose come un archetto su infinite corde di violino, cavandone suoni ineffabili, egli si accorse, da un fastidioso prurito, che in una parte del proprio corpo abitavano immondi animali.

“Ah, questo no! Questo no!” si mise a gridare, saltando per la stanza come un sorcio a cui sia stato appiccato il fuoco.

Decuplicò le dosi degli unguenti prescritti per il suo male, si rosolò la carne sino a coprirsi di sangue e di croste; ma, in un giorno, gli immondi insetti furono scacciati dal suo corpo d’innamorato.

Così poteva recarsi al lido ove Ninetta prendeva i bagni.

Egli non osava avvicinarla, e stampava della sua pancia e dei suoi ginocchi alcuni punti della rena a duecento metri dalla cabina di lei. Alla medesima distanza, altri innamorati, né magri né agili, strisciavano sulla sabbia, scavandola come aratri.

Queste tracce di uomini contemplativi, capaci di rimanere supini al sole per cinque ore di continuo, sarebbero poi cancellate dal vento che in autunno infuriava e dal mare che vi cacciava le sue molte lingue; ma, sino a tutto settembre, rimanevano forti e incolmabili, conservando perfino durante la notte il calore di quei corpi arsi dal sole e dalla febbre. Di sera, alla luce scialba delle stelle, il lido sembrava tutto affossato di sepolcri vuoti.

Giovanni, la prima volta che andò al mare, capitò, nel tram, con Muscarà il quale tentava Invano di far vedere il suo inchino profondo a una ragazza dal naso schiacciato che stava presso una porta.

“Ma perché,” gli disse Giovanni, cercando di tornare al suo linguaggio spregiudicato, “ti consumi la testa per quella blatta?”

“Ha un seno durissmo!” gli sussurrò, strizzando un occhio, Muscarà. “Ci si possono schiacciare noccioli: l’ho sentito ballando!”

Questa battuta, che lo richiamava a un modo di vivere che oggi gli pareva di un altro, suscitò tutte le ripugnanze di Giovanni. “No, Muscarà è insopportabile!” si disse, voltando le spalle all’amico di una volta.

Al mare, incontrò Monosola che arrancava, tirandosi dietro la gamba rigida, verso un punto della spiaggia dal quale la macchiolina azzurra, in cui la distanza aveva ridotto Ninetta, avrebbe forse mostrato qualcosa di umano. “Ci siamo tutti!”, esclamò Monosola.

“Eh, ci siamo tutti,” consentì Giovanni.

Anche i giovinastri trattavano il cavaliere Percolla con una simpatia rispettosa. Uno di costoro, nero e coi capelli a spazzola, chiamato a voce alta Tarzan, e a voce bassa Il Bagnino, ma tanto più simile al nome che non gli era mai arrivato all’orecchio; Tarzan o il Bagnino, dunque, salutava l’arrivo di Giovanni alla spiaggia con la sua voce cavernosa: “Cavaleri, ‘u mari è vacanti!” Cavaliere, il mare è vuoto: il che voleva dire che Ninetta non era ancora venuta. Oppure: “Cavaleri, s’allinchu ‘u mari!” Cavaliere, il mare s’è riempito: il che voleva dire la cosa opposta…

“Dio mio, Dio mio!” fece un giorno Panarini. “La ragazza dice che sei un orso, che non l’avvicini, e non la saluti nemmeno!”

Giovanni tremò. Ma l’indomani navigava, coi piedi nell’acqua, taciturno, grosso, nero, immobile, come un forzato condotto ai bagni, sul “moscone” dei Marconella.

E così fece ogni mattina, senza spiccicare mai una parola, all’infuori di alcuni “Prego, grazie, buon giorno, sì, no”. Erano i momenti migliori della sua vita (questo egli lo sapeva), ed erano momenti orribili. Quando una mano gli si posava sulla spalla, e dall’alto, quasi dalla cavità dei cieli, gli giungeva: “Permettete?” ed egli, senza muovere il capo, senza storcere un occhio, vedeva ch’erano la mano e la voce di lei già in piedi sul sedile per spiccare il tuffo, tutto il mare gli si vuotava e il moscone pareva scendere in silenzio verso il fondo della terra.

Una sera, giunse a Cibali Panarini, grave in volto come se dovesse comunicare la morte di qualcheduno. “Cosa c’è?” fece Giovanni, pieno d’apprensione.

Panarini non rispose subito; poi mormorò lentamente: “Tu devi dirle qualche cosa!… Eh, insomma!”

“Ahi!” esclamò Giovanni, colpito al cuore dai nuovi terribili e deliziosi doveri che il progresso del tempo e delle circostanze gli imponeva.

“Parla, aprila codesta bocca! Dio ci ha dato la parola!”

“Parlerò, sì!” mugolò Giovanni, nel fondo del petto. Ma il domani fu uno dei giorni più taciturni della sua vita: tutto quanto si trova nell’aspetto degli stupidi e nelle fotografie mal riuscite, egli lo ebbe in viso per il tempo che rimase in barca con Ninetta.

Solo quando scoppiò la bomba di mezzogiorno, egli si scosse e sillabò: “Grazie… di quello!…”

“Che cosa, quello, signor Giovanni?”

“…Niente!”

La ragazza aspettò ch’egli continuasse, ma visto che taceva, si mise a remare riportando a riva quell’uomo che da lontano, e anche da vicino, pareva un sasso.

Il giorno dopo, e tutti gli altri giorni, le cose non andarono meglio.

Giovanni, viaggiando verso Cibali, insieme a quel se stesso che non aveva spiccicato una parola, come insieme a uno sciagurato bambino che non si è potuto bastonare in pubblico, e si ha fretta di riportare a casa, si diceva intanto a bassa voce gl’insulti più duri. Giunto a casa, si dava finalmente quelle bastonate che si era promesso, sbattendosi la testa contro le porte e mordendosi le mani. Cera, dentro di lui, un Giovanni ch’egli odiava, un Giovanni allocco, un Giovanni paneperso, un Giovanni paralitico. Costui gli faceva perdere la testa a tal punto che, pur conservando immacolata l’adorazione per la propria madre, gli gridava come un ossesso: “Figlio di!…”

No, in verità, nemmeno con le tenaglie si sarebbe strappato una parola dalla bocca, alla presenza di lei! E fra poco la stagione dei bagni si chiudeva!…

Fortunatamente giunse a Catania un Parco di Divertimenti, che piantò le tende nel piazzale del giardino pubblico. Alcune trombe argentine, squillando fra i salici e gli alberi di pepe, fecero alzare il viso ai pigri cittadini.

Le occasioni di vedere Ninetta raddoppiarono.

8.

L’ingresso del giardino pubblico scintillò di lampade colorate. Questa luce, disseminata sugli alberi, partoriva ogni minuto serpenti, fontane, farfalle, mosche grandi come le aquile, aquile minute come le mosche, grinte di uomini celebri, parole gentili verso il popolo di Catania, e infine, quasi a ricordare il chiodo, la réclame del Serenol: “Prendete il Serenol e dormirete!” (Fin dal terrazzino di Cibali, nella sedia con la quale aveva cambiato l’inutile letto, Giovanni vedeva, entro il cielo di Catania, quella scritta luminosa.)

Nel piazzale del giardino, fra musiche e stridori di carrucole, una decina di palchi e stecconate invitavano i cittadini a salire come palle verso il cielo, a correre a zig-zag, a capovolgersi, a sparare, ad aver paura, a silurare le navi, a ridere, a vomitare, e, se potessero, a profittare di un momento di buio con la donna amata.

La prima sera, la folla sfilò, sospettosa e ammutolita, davanti alle ringhiere di legno e ai banconi, borbottando gli uomini alle donne che quasi si nascondevano dietro di loro: “Non è cosa per signore!” Ma la seconda sera, essendo il principe di Roccella montato su una macchinetta da corsa, impegnando una gara, tra faville, scoppiettii e parole francesi, con la figlia, montata su un’altra macchinetta, la folla ruppe le righe con un grido di giubilo, e i vari giochi si riempirono di pallidissime facce e disperate invocazioni alla Madre di Gesù.

Volarono le vesti: dall’alto di una pertica giunse il lampo di due gambe di ragazza, Se questo lampo fosse stato accompagnato dal più fragoroso dei tuoni, non avrebbe potuto far tremare di più. Era l’annunzio, dato al pubblico dal fondo dei cieli, che gli occhi avrebbero visto gl’incarnati più misteriosi della donna. Subito la folla raddoppiò, triplicò, decuplicò; e coloro che venivano a sedere, da vent’anni, alla stessa ora, sui sedili di ferro, ai limiti del piazzale, dovettero rannicchiarsi e ritirare i piedi, per non dire ogni momento: “Ahi, botta di veleno!” ovvero: “Ahi, morte subitanea!” ovvero anche: “Botta di sangue a te e a quel caprone di tuo padre!”

Ma sia per effetto della luna, sia per effetto di un leggerissimo gas esilarante che, quell’agosto, si era sparso nell’aria, le signore e le signorine affollarono ugualmente il Parco dei Divertimenti; e i mariti inghiottivano, quasi in silenzio, le loro brave bestemmie, quando le mogli salivano in aria fra i mugolii della folla maschile.

“Pare che siamo a Milano!” esclamò la signora Badile, salendo per le montagne russe con uno slittino, mentre il marito di un’amica le stringeva i fianchi per sorreggerla. “Già,” rispondeva, fra la saliva, il suo compito cavaliere, avventandole entro il corpetto, col solo occhio sinistro, un’occhiata di falco.

“Ci sono tutte! Vieni anche tu!” disse Panarini a Giovanni.

“C’è anche lei?”

“Ma ci sarà anche lei!”

La sera, Giovanni e Panarini si confusero con la folla dei soldati e dei borghesi, respirando qui odore di capro, qui profumi di mughetto, qui un misto e confuso fortore di dispensa ove ammuffisse qualcosa. Intorno al Palco delle Trottole a zig-zag, ove i carrelli, aperti davanti, roteavano sbattendo una volta a destra una volta a sinistra, si accalcava più densa la folla.

“Guarda! Guarda!” diceva un giovanotto dagli occhi velocissimi. “La figlia del generale si stringe!”

“Eh, si stringe ch’è una bellezza!” diceva un altro. “Uh, uh, uh! E dove l’ha cacciata, la mano?” faceva un terzo.

“Chi?” domandava un quarto.

“Già, già, già! Madonna santissima! E che è, senza mano?” “Ma quale mano?”

“La destra, orbo della malora!” “Vero è! Vero è! Sono morto!”

“Sono cadavere secco entro il vestito!” La giostra rallentava, e quindi si fermava.

“Me ne vado!” disse colui che aveva parlato per primo.

“No, aspetta! Quest’altra partita è più bella! Ora sale la Marzacane! E che vuoi perdere, la Marzacane?”

La Marzacane, difatti, prendeva posto in un carrello, tenendosi, con una mano, il lembo della veste.

“Hai voglia di tenere!” borbottò un soldato. “Sangue devi buttare, dal naso! Le cose di Dio, devi mostrarle!”

La giostra si mosse con uno strappo, e la Marzacane, come tutte le altre, portò una mano alla bocca per non gridare, lasciando le vesti al vento della corsa a zig-zag che s’infilava come un serpente.

“E chi se ne va di qui?” “Manco morto!”

“Turi!” gridava una voce più lontani.