“Turi, vieni qui: questo è il punto! Turi, Tuuri!” continuava poi, come in preda a un dolore mortale. “Tuuuuri!…”
Giovanni e Panarini si allontanarono col naso in su, le mani sul dorso, e le labbra atteggiate a disgusto. Ma, intorno agli altri palchetti, le esclamazioni e i gemiti, se erano meno alti, non avevano un tono diverso: c’era sempre, nella bocca degli uomini, come un flauto roco di saliva.
“Tutte ci sono, tutte!” mormorava Panarini “Ma lei no!” giungeva fra sé.
“E lei no!” echeggiava, anch’egli mentalmente, Giovanni. Errarono lungamente, fra gomitate, calcagnate e urla di giubilo che li trafiggevano più di un coltello, coprendosi di coriandoli, sputi, polvere da sparo e polvere di terra, odore di gas e di acetilene, e impronte nere di mani sulla giacca bianca, fitte come quelle dei piedi sulla sabbia del lido. Finalmente Giovanni disse: “Andiamo!”
E andarono.
“Non ci verrò mai più!” dichiarò Panarini. “Ah mai!” fece eco Giovanni.
E invece vi tornarono ogni sera: dalle trombe argentine fra gli alberi, si partiva una voce troppo simile a quella della speranza. C’erano tutte: perché, quella sera, non avrebbe dovuto esserci anche lei?
E intanto avevano trovato qualcosa che favoriva i loro sottili legami e, lavorando sulle cime degli alberi, al disopra dei fari, laddove le foglie possono dormire nella tenebra indisturbata, univa fili quasi invisibili fra i balconi lontani e il piazzale del giardino.
Infatti, dal punto più alto in cui lo slittino delle montagne russe giungeva dopo un tortuoso cammino, un attimo prima di sprofondare nel vuoto, si vedeva, piccola per la distanza, la terrazza interna dei Carosio, con un balcone quasi sempre socchiuso. Panarini, sebbene soffrisse acerbamente il mal di mare, entrava ogni momento nel recinto delle montagne russe, occupava, tutto solo, una slitta, e saliva nell’aria. Giovanni, da basso, lo vedeva seguire una spirale fra corde, catene e pertiche, e poi scorrere su un piano in declivio che lentamente pareva portarlo fin sopra le nubi. Quivi la slitta inciampava e sostava un attimo: di qui Panarini lanciava verso la terrazza dei Carosio un fulmineo sguardo che lo riempiva di gioia. E subito dopo era la volta delle cose sgradevoli: lo stomaco gli si vuotava, gli spalancava l’abisso, ed egli, calcandosi il cappello fin sugli orecchi e chiudendo gli occhi, precipitava, con un fragore di tuono, fra le braccia di Giovanni che lo accoglieva sul petto, dicendogli: “Non ci andare più! Sei tutto tremolo!”
L’altro spiccicava due o tre volte le labbra, come se avesse mangiato veleno: e non rispondeva nulla.
Laurenti, invece, seguendo la propria natura, che lo portava al riposo e al godimento, guidato dai lunghi sogni su un viaggio a Venezia insieme con la ricca ereditiera Merlo, pagava una lira, ed entrava nel baraccone “A Venezia in gondola”. Qui sembrava davvero di trovarsi nella laguna. L’illusione era perfetta: sei gondole giravano lentamente, diguazzando in un po’ d’acqua scura nella quale le donne immergevano le mani; Venezia, dipinta entro una cupola, girava con le gondole; e nell’aria volava un motivo nostalgico. Laurenti poggiava la nuca sulla poppa della gondola, guardando il pupazzo che, ritto a prua con un remo in mano, lo precedeva nella penombra; e a poco a poco s’appisolava. Poiché sceglieva sempre la stessa gondola col lampioncino più grosso, la sua testa addormentata, nel riflesso della luce turchina, era visibile a distanza; e subito le inconsulte grida, che lo avevan sempre seguito, gli si avventavano da ogni parte, ripetendo, questa volta con un’ombra di ragione: “Va’ a letto!”
Giovanni ingannava il tempo tirando a bersagli fissi che non riusciva mai a colpire. Una sera che se ne stava a mirare col fu elle ad aria compressa, dicendo fra i denti: “Cornuti! Qui ci dev’essere il falso inganno!” Panarini gli mise il mento sulla spalla, e sillabò: “E’ qui!” Il fucile di Giovanni sparò quasi da solo, e colpì il bottoncino: un lampo di magnesio investì i due amici, e una voce disse: “Bravo! Siete stato fotografato!”
Giovanni pagò subito, e si mise ad errare per la folla, seguito a stento da Panarini. Quella sera, il Parco dei Divertimenti si era accresciuto di un nuovo baraccone: la Casa degli Spettri.
Si prendeva posto, di solito in due, uomo e donna, nello stesso carrello che, scorrendo sopra un binario, entrava nella casa misteriosa: la porta si richiudeva, come per un colpo di vento, dietro al vagoncino, e la coppia faceva un lungo giro nel buio, fra spaventi d’ogni sorta. Dopo alcuni minuti, un’altra porta si spalancava, con un fracasso di ferraglia, e il carrello precipitava fuori. I due viaggiatori avevano un volto strano: pareva volessero conservare il segreto su ciò che avevano veduto; e non davano a capire se si fossero divertiti, spaventati, annoiati… Insomma, la sapevano lunga.
Questo baraccone segnò una data nella storia del costume, rivelando che i mariti di Catania hanno poco da invidiare ai mariti di Milano o di Parigi: nulla di male, intendevano forse dire col loro sporgere le labbra, che la moglie salga insieme a un amico, fidato naturalmente, nel carrello, e faccia in questa compagnia il suo viaggio al buio! Essi aspettavano pazientemente fuori, con la borsetta di lei sotto l’ascella, e mostrando una faccia quasi sorridente all’occhio scrutatore e malevolo delle ciurme di scapoli. Quando, dalla Casa degli Spettri, si levava un lamento fra di trombetta e di gatto malato, e ch’era il grido della strega, i mariti respiravano: poco dopo si spalancava la porta, e la moglie usciva, un po’ pallida e un po’ troppo rassettata.
“Com’è, cara?”
“Mah… non so!”
Giovanni capitò nel gruppo di Ninetta e amici, proprio davanti alla Casa degli Spettri.
“Ci andiamo?” dicevano alcune voci femminili. I giovanotti tossivano, per non far capire che “avevano interesse” a sollecitare la cosa.
“Oh!” fece Ninetta, con la sua voce di miele. “C’è il signor Giovanni Percolla!” E mettendogli il braccio nel braccio: “Mi accompagnerà lui! Andiamo!”
Panarini, nell’attimo che impiegò per dargli uno spintone, infilò nell’orecchio di Giovanni alcune parole, dette nel più basso e corto modo possibile: “Audacia, trattasi tua felicità”.
Giovanni non rispose nulla. Salendo i tre gradini della Casa degli Spettri, rabbioso, cupo, deciso, come non era stato mai, si ripeteva fra i denti: “Questa volta, me la mangio!”
Prese posto nel carrello, vicino a Ninetta, di cui sentiva così forte l’odore che gli pareva di averla già mangiata e tenerla tutta dentro il sangue.
“Ohé, Giovanni!” disse la voce di Panarini. “Ecco la fotografia del tiro a segno!” Giovanni ricevette, dalle mani di un ragazzo scamiciato, un cartoncino in cui vedeva se stesso, con un viso di annegato che cerchi di non bere acqua, e il fucile in braccio.
“Si può?” disse Ninetta, poggiando un dito sul rettangolo di cartone.
Ma in quel momento i campanelli del soffitto intonano la Marcia Reale, si apre una porta, e il vagoncino vi entra. Si richiude la porta, e si scivola tortuosamente nel buio. Non esiste più nulla per Giovanni; la storia del mondo è una bugia, ed egli l’ha già dimenticata; cose ben più grosse han preso il posto dei numerosi popoli e degli ampi teatri in cui hanno operato il male e il bene; e sono, a seconda degli urti, la mano, il ginocchio, la spalla i capelli di lei. D’un tratto, il carrello si ferma; e la Casa degli Spettri manda un sordo rumore di macchina inceppata: le porte sbattono; le catene stridono; lo scheletro s’illumina a metà; e il carrello riceve colpi secchi che lo fanno sobbalzare senza riuscire a smuoverlo.
“Dio mio!” fa Ninetta. “La macchina s’è guastata!”
Fuori i mariti levano la voce: “Come va questa faccenda, don Gaetano?” “Si potrebbe fare più presto? Non ne avete mani?”
“Alziamoli i piedi! Tacchiamo!”
Le ciurme degli scapoli cominciano a parlarsi nell’orecchio: “A quest’ora!… Eh, eh!… Le fanno uscire il sugo!… E lui si tocca la testa!… Nascondi quel fazzoletto rosso, compare!… Fra nove mesi si vedrà, coraggio!… Se ne rompono pezzi di seta, in questo momento!… Chi ha fretta non aspetta!…. Eh, quella cosa non sente ragione.
Frattanto, nella Camera dello Spettro, è avvenuto un fatto smisurato, come se la pagina in cui erano stampate le cose ordinarie, il cielo della notte, il sole, la luna, i piccoli animali domestici e i feroci, gli alberi e i fiori, le abitudini secolari del mangiare, bere, dormire, la noia, la paura e la stanchezza, fosse stata voltata, e una nuova pagina scintillasse sotto gli occhi, ancora non letta. Il fatto è questo: probabilmente, la mano di Giovanni è dentro le mani di Ninetta!
Ma di ciò, Giovanni non è sicuro.
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