Anzi, può trattarsi di qualcosa totalmente diverso: che la mano di Ninetta si trovi fra le sue. Domandategli poi se è la destra o la sinistra, se il carrello si muove o sta fermo: egli non sa nulla! Unicamente sa che la battaglia contro il proprio silenzio e timidezza è finalmente terminata, e le radici della sua vita profondano in un mare di latte tiepido. Il suo passato, come la crosta della terra che, dopo la notte, rientra a poco a poco nel sole, è diventato così visibile nei minimi fatti ch’egli può dire di trovarsi ancora in tutti i luoghi dai quali è passato, e di non essere né più giovane né più vecchio di tutte le età che gli è toccato di avere prima di giungere ai quarant’anni. Ecco i bei ciottoli di via Roma, e le scorze di mellone; ed ecco, sulle gambe, la fresca seta della vesticciola! Ecco il calamaio del banco di scuola, e il sapore d’inchiostro che arriva in bocca dalla punta delle dita!… Santo cielo, quante graziose parolacce!… E’ il padre che parla: tornano in fila tutti i discorsi del padre, perfino il primo, che Giovanni non aveva ricordato, e forse mai sentito distintamente:

“Questo bambino non somiglia né a te né a me. E’ una testa di rapa. Non siamo stati mai così brutti né tu né io!”

“E allora perché gli vuoi bene?”

“Il diavolo lo sa! E’ una cosa del diavolo!” “Ma vedrai che si farà bellino!”

“Da che parte, deve farsi bellino? Se non c’è nulla da pigliare, maledetto Giuda!” “Smettila di baciarlo così! Gli porti via gli occhiuzzi!…”

Il caffè coi tavolini di ferro arrugginito, nel piccolo paese di montagna. Un solo tavolino è occupato: vi seggono i più grossi personaggi, il sindaco, il medico condotto, Il segretario, l’ingegnere, il barone, e il commendatore Percolla. Sugli altri tavolini, un cameriere, vestito di un gabbano logoro, passa lo strofinaccio. “Eccolo, eccolo, eccolo!” dicono tutti i personaggi, mentre il minuscolo Giovanni s’avanza per la piazza che non finisce mai. “Vostro figlio! Il figlio!… Il maggiore!… Pallido! E’ pallido… Brutto colorito! Iniezioni! Ferro per bocca! Sport…”

“Amico mio,” dice finalmente il padre, quando egli è a trenta passi di distanza. “Che abbiamo fatto, oggi? La solita storia?” E gettando fiamme dagli occhi, chiude il pugno e fa nell’aria il gesto di chi tiri una corda di campana. Giovanni scappa a gambe levate, fino alle porte del caffè opposto e rivale, nei cui vetri tintinna la risata dei lontani grossi signori…

Camera da letto, porta aperta e, nel fondo, un’altra camera coll’immagine della Sacra Famiglia sul letto a due, dalla cui spalletta si vede ogni tanto emergere, coperta di uno zucchetto bianco, la testa del padre che sbuffa e rimuove i cuscini:

“E’ il mio unico figlio maschio, è la pupilla dei miei occhi, mi piace tutto quello che fa; è simpatico, sa parlare, sa muoversi, sa stare zitto; è un re davanti agli altri, ha l’aria di un re, gli possono leccare i piedi, gli altri; me ne fotto dei loro figli; non portano che scimmie per mano, io invece ho un bel ragazzo, un vero maschio; se qualcuno gli fa tanto di male, gli ficco questo dito negli occhi!…”

“Ma zitto! Chi deve fargli del male?”

“Eh, il mondo è pieno di cornuti! Che ne sai tu del mondo?…”

Un portone socchiuso, e i cavaliere Muzzopappa vestito di nero. Il vecchio Percolla gli mette una mano sulla spalla: “Anima mia, vi comprendo! Non vi dico nulla! Che vi dico, di non piangere? Avreste ragione di darmi un colpo in testa con quel bastone! Piangete, tiratevi i capelli, ammazzate la gente per le strade, buttatevi dal balcone: avete il diritto di fare quello che volete. Quello che volete! Un padre non deve veder morire il figlio! Che me ne faccio degli occhi, io, se quelli di mio figlio sono chiusi? Me li appendo, con rispetto parlando…”

Di prima sera. Egli esce a far prendere un po’ d’aria a un piccolo cane nero legato al guinzaglio. Torna, dieci minuti dopo, col guinzaglio attorcigliato fra le mani, e i denti che gli battono; la povera bestia è stata uccisa da un’automobile. Le mani gli odorano ancora del pelo caldo di lei. La notte, sente qualcosa saltargli alle gambe e leccarlo leggermente. E’ l’ombra del cane? Meditazioni sulla morte, in fondo a una poltrona, con una guancia dentro la spalla, mentre alcuni carri, carichi di travi, col loro allegro rumore di ferraglia, fanno “ridere” i vetri del balcone. Giunto egli nell’altro mondo, uno spettro di cane, che lo attende da molti anni, si leva da uno spettro di cespuglio, e gli fa un’interminabile e silenziosa festa…

“Ma insomma, sciocchezze!” dice Muscarà.

Migliaia, centinaia di migliaia di discorsi sulla donna gli tornano all’orecchio. “Lei, uh, ah, lui, così no, la mano, la gamba, la coscia, il coso, la cosa, ahi ahi!…” Occhi fuori delle orbite, musi in fuori. “Signora, vi presento il mio amico Scannapieco!”

Scannapieco sorride, e non dice una parola. Quando la signora s’allontana, Scannapieco si butta sull’amico, per far sentire in quale orribile stato si trova, a causa di quel pezzo di signora…

Il vecchio barone Belmonte, che brav’uomo! Solo che, quando vedeva una donna, anche a un miglio di distanza, anche dipinta in un manifesto, cominciava a mugolare fra i baffi: “Bella, zucchero mio, gioia mia, vieni qui!” Egli andò a finire sotto una ruota, e vi perdette una gamba, per guardarne un’altra, di donna, dentro la carrozza…

Ma l’odore della guazza, come si sentiva, uscendo dalle chiese, al tempo della guerra, forse non tornerà più. E tutto il pane dei fornai di tutto il mondo, sciorinato, mentre è caldo, sullo stesso bancone, non manderà l’odore di una piccola ciambella che, al principio del secolo, gli bruciava il fianco dalla tasca del grembiule…

“Noi così, questa notte, vedremo il cielo!” E tossiva piano piano dentro la salvietta.

In quella casa, erano tutti magri e sottili: il figlio, che già dormiva con un visino di candela spenta; la moglie, che sparecchiava con le dita che parevano fili di paglia; e lui, l’astronomo, che si copriva il petto di giornali, e poi di lana,, e, tossendo, diceva: “Bisogna che si faccia l’una per vederlo bene!”

Gli occhietti di quell’uomo, umidi di cielo notturno, mettevano un brivido di freddo. “Andiamo: è l’ora!”

S’arrampicano dietro di lui, per una scala che puzza di topi e di tarli, e finalmente escono a lato di una cupola. “Ecco Marte!” dice il piccolo uomo, tossendo, e rigirando, nella cavità del cielo, la canna nera del telescopio. Pare che le stelle brusiscano come il mare pieno di schiume…

Ma cos’è, in fondo, il petto delle donne? Perché tante ore di discorsi su come è fatto, il suo colore, il suo tepore, duro, molle?… Ore che, sommate, formano giorni, mesi, e forse anni! Che razza di destino quello di dover parlare tanto di due ciottoli o ciambelline!… E quante volte il sangue è stato chiamato ad arrossare di sé immagini di donne nude!…

D’un tratto, un gesto molto delicato e leggero, come il colpo miracoloso di un’ala d’angelo su una parte malata, strappa Giovanni da queste immagini calde e rosse, ed egli rimane a guardarle, come un vecchio pino guarda, lontano da sé, le proprie radici disseppellite e tagliate. Una pace infinita s’è fatta fra lui e la donna, e un profumo sottile e morbido se ne spande vicino alla sua bocca, colpita dal respiro frequente di Ninetta.

Cos’è accaduto di nuovo?

Un colpo, come di clava, sbalza il carrello; e, con un grido selvaggio dei campanelli che, spremuti dalla velocità della macchina, emettono in due sole note tutto il motivo di “Un bel dì vedremo”, Giovanni e Ninetta escono per la porta spalancata.

“Dio mio, che hai?” gli dice Panarini.

Giovanni, asciugandosi sul mento una lagrima fredda, che gli è scivolata dall’occhio che non piange, risponde: “Sono felice!”

“Quanto è fesso!…” esclama un giovanotto, che forse ha sentito. Il cavaliere Percolla si volta con un terribile: “Chi?” negli occhi.

“…Il tempo!” conclude il giovanotto; e alza il viso come per dire: “Sono padrone o no d’insultare il tempo?”

“Ma cosa è accaduto?” domanda ancora Panarini.

Già: cosa è accaduto? Giovanni non lo sa bene. “Hai uno specchietto?” dice all’amico.