“Uno specchio?”
Giovanni vorrebbe guardarsi in viso per scoprire se Ninetta lo ha baciato veramente.
“Ho del rossetto?” dice a bassa voce. “Rossetto?” fa l’amico, trasecolato. “E dove?” “Sulla guancia, forse!”
Panarini gli poggia un dito sul mento e, arrovesciando il capo, lo osserva attentamente con gli occhi in giù, come un medico: “Non c’è nulla!”
“Dio mio, che abbia sognato?” pensa Giovanni.
Ma Ninetta lo chiama: egli si stacca dall’amico e si reca da lei. “Giovanni,” gli mormora la ragazza, mettendogli una mano sul braccio, “cosa pensi?”
“Tu!…” Egli spinge Ninetta sotto la palma vicina, e, non credendo alla propria bocca, sentendosi mille volte morire e mille volte resuscitare, ripete quella parola che a lui sembra d’infinite sillabe: “Tu…”
9.
Fidanzati, dunque. Il padre di Ninetta era orribile quanto lei bella. Il giorno in cui il grosso marchese lo abbracciò e baciò sulla fronte, Giovanni sentì l’odore agro della bruttezza, e rimase con l’espressione di chi ha dei peli entro la bocca, e non riesce a scacciarli.
Ma le sere, in casa del suocero, erano straordinariamente piacevoli. Vicino alla finestra di marmo, con la lampada spenta. e il cielo zeppo di stelle, Ninetta gli alzava la grossa mano, e dava un nome a ogni dito. Il nome delle sue libertà. “Tu non sarai come gli sciocchi di qui. Non mi farai il geloso! Voglio essere leale con te: io non avrò mai, mai un amante, ma desidero le mie libertà perché sono nata e cresciuta libera!”
Ed ecco! Pollice: libertà di uscir sola; indice: libertà di andare in montagna con gli sci; medio: libertà di fare un viaggio ogni anno; anulare: libertà di andare a cavallo; mignolo: libertà di disporre i mobili della casa secondo il proprio gusto, perché la regina della casa è la donna.
A Giovanni pareva che, con queste parole, la ragazza gli ficcasse in ogni dito, proprio sotto l’unghia, uno spillo con una bandierina. Ma non sentiva dolore: anzi il fatto che la sua mano si trovasse veramente fra quelle di lei, morbide e calde come le piume di un uccello, gli sapeva di miracolo. Dopo avergli nominato in tal modo le dita, Ninetta gliele stringeva forte, e se le poneva sotto mento e sotto la bocca. Giovanni guardava davanti a sé la propria grossa mano e il viso mirabile di lei mescolati insieme in una immagine che pareva incarnare la perfetta Felicità.
Questo gioco della mano appassionava tanto Ninetta che talvolta, per la strada, gli prendeva il medio o l’indice, e, levandolo sino all’altezza degli occhi di lui, sussurrava: “E questo?”
Nei primi tempi, Giovanni non si mostrò molto bravo: confondeva la libertà del medio con quella del pollice, e non ricordava la libertà del mignolo. Ma in seguito, non sbagliò più. Medio? Libertà di fare un viaggio ogni anno.
Una sera, Ninetta si fece aspettare a lungo. Nella camera buia, poggiato il gomito sul davanzale di marmo, Giovanni conversava col suocero che riempiva la tenebra della sua enorme bruttezza.
Parlavano degli uomini in generale. “Ladri!” diceva il marchese. “Tutti ladri! Mi credi che non ho mai incontrato un galantuomo?”
“Io, per esempio, non ho rubato mai nulla!” faceva Giovanni.
“Non lo so!… Perdonami, caro: ma la vecchiaia mi rende così. Non credo più a nulla! Non hai rubato, tu dici… Ebbene, lo so io? Nessuno ti ha mai accusato, questo è certo! Ma lo so veramente se hai rubato? Ho avuto gli occhi nella punta delle tue dita?”
“Mi potete credere!”
“Non credo a nessuno, nemmeno a Nostro Signore!”
D’un tratto, arrivò Ninetta: era inquieta, agitata, parlava con tono di stizza, e volle subito che s’accendesse la lampada. “Cosa c’è?” fece Giovanni. “Nulla, mio caro!”
“Ma come? Non posso nemmeno sapere se sei scontenta a causa mia?”
“Caro!” disse ella, interrompendo, con un bel sorriso, la sua stizza. “Dammi la mano!… Non la destra: l’altra!” E abbassò la voce: “Pollice della sinistra: libertà di essere scontenta!… Me lo concedi?”
“Sì, ma con molto dispiacere, perché desidero che tu non sia mai scontenta!” A cena, Ninetta non disse una parola, e toccò appena i cibi.
Finalmente sul tardi, mentre erano poggiati al davanzale di marmo, e le stelle correvano verso il nord, sulle terrazze, da una ringhiera all’altra, Ninetta spiegò le ragioni del suo malumore. Aveva incontrato l’amica Luisa Carnevale, che non vedeva da tre anni, dal giorno in cui s’era sposata. Dio, che viso! Quei tre anni se l’erano rosicchiata come i topi. Lei milanese, lui palermitano!… In verità, avevano anch’essi, durante il fidanzamento, scritto una carta con dieci libertà per lei. Il numero uno le permetteva di andare a teatro sola, quand’egli era assente da Catania; e il numero dieci di accettare da un amico comune l’aperitivo nella dolceria principale (“non certo in un caffè fuori mano”). C’erano anche per Luisa le libertà di andare a cavallo e di correre sulla neve… Egli s’era mostrato un angelo durante il fidanzamento, e aveva firmato tante volte quel foglio che le dieci convenzioni apparivano in mezzo a una nuvola di nomi, date e cuori attraversati da una freccia. Ma dopo il matrimonio, un’espressione sguaiata e cattiva si collocò sul viso di lui: cominciò a imporre le sue leggi di antico siciliano; le più nere e terribili. La chiuse a chiave.
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