Essi si recavano presso la famiglia Luciano.
Per la strada, Saretto Scannapieco lamentava che il marito della figlia più giovane non dicesse una parola durante la loro visita, e guardasse tutti come un fanciullo in procinto di piangere.
“Dio mio, potrebbe avere più fiducia in noi!” disse, una volta, Muscarà.
Davanti la porta, però, prima di suonare il campanello, aspettarono che Scannapieco terminasse il racconto di un sogno, assai strano, che aveva avuto la notte avanti: in quel sogno, la più giovane delle Luciano era stesa sul tavolo della sala da pranzo, in vestaglia rosa, immobile, e loro tre, insieme con uno sconosciuto in mutande di lana, attorno al tavolo come chirurghi… Poco dopo, la ragazza sognata apparve sulla soglia, e proprio con la vestaglia rosa. I tre amici arrossirono come bambini, incespicarono portando dentro lo stoino, e Giovanni Percolla, nella confusione, posò il cappello di feltro sul mezzobusto dell’ingegnere Luciano morto.
Nel ’27, tutti e tre si recarono a Roma, per parlare con un grossista di “cachemir”. Ma, giunti nella capitale, dimenticarono totalmente gli affari e il motivo per cui erano venuti. Lo stesso Ispettore generale, Eccellenza Cacciola, zio di Muscarà e personaggio di peso, dal quale speravano un forte aiuto per il buon andamento delle loro importazioni dal Portogallo, smise presto di parlare di commercio con l’estero, ed esclamò: “Avete visto che donne?”
I tre amici lasciarono l’attitudine compunta, la posizione di attenti e il pallore della noia, e scoppiarono in una risata cordiale: “Santo cielo!” Poco dopo, erano alla finestra, fra le tende di velluto, e Sua Eccellenza indicava, col dito peloso e carico di anelli, certe ragazzone bionde che uscivano dal Ministero dirimpetto: “Mi fanno morire, vi assicuro, mi fanno morire!”
“Oh, lo capisco, Eccellenza!” mormorò Scannapieco. “Uno al posto vostro, con le occasioni che ha, dovrebbe desiderare solamente di esser fatto di ferro!”
L’Ispettore non negò che avrebbe gradito un po’ di ferro nel suo fragile corpo d’uomo e, lusingato dal complimento, entrò in maggiori confidenze coi propri compaesani… Insomma, dopo aver detto fra i denti: “E’ che sono un uomo serio! Non voglio profittare della carica! Uno deve sapersi frenare!” li nascose dietro una portiera, per farli assistere all’udienza ch’egli concedeva a una bellissima ragazza, la quale, naturalmente, se lui non fosse stato così serio…
I tre amici, avvolti nel velluto, masticando polvere e sfilacciature, s’illividivano i fianchi con forti gomitate per indicarsi in silenzio Il lampo di un po’ di carne fra le vesti della ragazza, o il modo con cui ella accavallava le gambe, e, poggiando i gomiti sul tavolo, sporgeva il petto. In un punto del colloquio, la loro emozione fu così forte che riempirono di saliva lo spazio di tenda che oscillava davanti la loro bocca.
Dopo quella visita, che, almeno nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto influire sul corso dei loro affari, i tre catanesi non si occuparono più di “cachemir”, di prezzi e di noleggi.
Passavano un’ora del mattino e una del pomeriggio in piazza Fiume, sotto la pensilina per gli autobus, guardando salire le ragazze. Le anche rompevano le vesti, nel difficile passo. “Ma quante ce n’è! Ma quante ce n’è! Ma quante ce n’è!” mormorava Scannapieco. “E tutte belle!”
Per belle, intendevano grasse, più alte di loro, e di passo veloce.
“Madruccia!” rispondeva Percolla. “Guarda questa!… L’altra, guarda, bestione!… Laggiù, laggiù, maledetto!”
Soffrivano, gemevano, si ficcavano l’un l’altro i gomiti nei fianchi. Ecco un autobus che rimane fermo per tre minuti, a causa di due carrette che si erano impigliate le ruote. Sul predellino, una sedicenne alta, bruna, si accarezza il collo con la mano destra e getta nella strada uno sguardo sfavillante. I tre amici si mettono subito nel punto della strada in cui cade lo sguardo della ragazza, come si fa con certi ritratti; e, godendo quivi di una scialba e falsa attenzione da parte di lei, sprofondano i loro occhi nei suoi, sorridono, si grattano la fronte, fan cenni con la bocca e con gli orecchi. Già l’amano, la chiamano a bassa voce con un vezzeggiativo, in un baleno vivono tutta una vita con lei: viaggi, notti insonni, amabili litigi, serate estive in terrazzo, bagni di mare con lanci di sabbia e spruzzi d’acqua. La loro fantasia non dimentica nulla: essi sentono il terribile e soave lamento con cui ella, nella camera accanto, li rende padri di un bimbo perfetto…
Ma le carrette hanno sciolto le loro ruote, e l’autobus riprende il viaggio, portando con sé la ragazza che, dopo un’intera vita vissuta, abbastanza felicemente, con ciascuno di essi, non lascia nemmeno per un istante gli occhi su di loro, e continua a guardare tutto quello che le capita davanti.
Del resto, ogni volta che una donna graziosa usciva dal loro sguardo, essi si sentivano traditi e abbandonati. Un che di vedovile era sempre nel loro cuore, per le vie di Roma.
Spesso, la sera, dovendo recarsi in pensione all’ora stabilita, perdevano la cena perché la donna, dietro la quale s’eran messi a trottare, e che sembrava facesse la loro strada, li portava lontano, e un’altra, di ritorno, li portava nel punto opposto della città.
Nel cuore della notte, stanchissimi, mentre contavano gli spiccioli per vedere se non fosse il caso di prendere un tassì e raggiungere il letto al più presto, due fianchi poderosi, passandoli d’un tratto, li rimettevano in corsa. Negli specchi esterni dei negozi, essi vedevano, per un attimo, le loro facce disfatte.
Veramente, non avevano soverchia fortuna: anzi, non ne avevano affatto. E come avrebbero potuto averne? Un rigurgito alla gola, un tremito alla schiena, li rendeva cadaverici nel momento in cui, lasciando bruscamente un discorso sulla spiaggia e il costo dei biglietti ferroviari, decidevan di dire alla signora ch’era bella, bella, bella. “Se avessi una casa qui,” riuscì a gemere, con gli occhi fuori delle orbite, Scannapieco, ballando con una bolognese, nel salotto della pensione, “verreste a casa mia?”
“Ma che vi piglia?” gridò la signora, preoccupata per il colorito del suo cavaliere. Sembrava davvero che a Scannapieco stesse per “pigliare un colpo”.
Dopo il tramonto, sedevano in un caffè di via Veneto. Sceglievano, con cura meticolosa, il tavolo meglio adatto, per covare con gli occhi le più belle vedute; e non avevano mai pace, e passavano da un tavolo all’altro, perché, alzandosi un gruppo e arrivandone un altro, la Bellezza cambiava sempre di posto.
Avrebbero potuto trascorrere degli anni, guardando un profilo o addirittura una mano. Mai la loro vita era così varia come quando lo spettacolo, che si offriva ai loro occhi, era sempre lo stesso. Oh, si trova di più negli occhi di una ragazza che in tutto il continente africano; quante peripezie, incontri, fortune e sfortune!
Giovanni Percolla, una sera, fu ravvisato da un vecchio amico di Catania, Luciano Taglietta, uno scrittore assai noto in Italia, un bravo giovane, un umorista. “Vieni domattina da Aragno!” gli disse costui: “Mi troverai in un gruppo di scrittori!”
Giovanni cominciò a frequentare Aragno. “Questi scrittori mi piacciono!” diceva la sera agli amici, dicendo apertamente la menzogna. Egli trascorreva lunghe ore noiosissime seduto vicino al gruppo degli scrittori, sul marciapiede del corso. Le impiegate dei Ministeri passavano strisciando i fianchi sul tavoli, ma gli scrittori non le guardavano nemmeno. Essi erano straordinariamente applicati ad appioppare nomignoli alla povera gente: chiamavano le persone lo Svaccato, il Tagliacarte, la Monaca di Pezza, il Suonatore di trombe infuocate. Quando passava costui, ch’era un gentiluomo di mezza età, altissimo e con un buco nella bocca, gli scrittori si dicevano sussultando: “Eccolo! Eccolo!” e poi si torcevano dal ridere sulle sedie. Solo Luciano Taglietta, quando s’avanzava una ragazza ben piantata, alzava il mento al disopra della testa degli amici, e strizzava l’occhio a Giovanni.
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