Del resto, anch’egli, come Giovanni, aspettava con impazienza il momento in cui gli scrittori se ne andassero, per sedere, lui e Giovanni, stretti allo stesso tavolo, e parlare dei tram di Catania, e dei piaceri che vi si trovano nel giorni di folla.

Ma Luciano Taglietta dovette recarsi a Venezia; e Giovanni tornò interamente ai suoi amici.

Li si vide tutti e tre in ogni punto di Roma ove non fossero quadri e monumenti, e invece fossero donne. Entrarono, una volta, gesticolando, nella Galleria del Vaticano, ma per seguire una tedesca. “Che bellezza! Che meraviglia!” si dissero per tutto il resto della giornata: parlavano della donna.

Una notte piazza del Popolo deserta risuonò delle parole: col dito, la gamba, un petto così, mi spogliai… Si trovava a Roma, di passaggio, l’architetto Lamberti, che, appena li vide, gridò con le mani alzate: - Questa notte andremo a spasso insieme!” E infatti andarono insieme dal Colosseo fino a piazza del Popolo. Quivi sostarono a lungo. L’architetto amava le storie scollacciate, ma era un po’ sordo e diceva ogni momento: “Come?” Sicché gli amici dovettero alzare la voce proprio nei punti del racconto in cui l’avrebbero volentieri ridotta a un soffio.

L’architetto partì la stessa notte; e i tre rimasero soli per una seconda volta.

Nella sala da pranzo, in pensione, avevan conosciuto molti giovani del Nord, ma era stato impossibile stringere amicizia. “Non facciamo pane insieme! E’ inutile!” diceva Scannapieco. In verità, come si poteva voler bene a uno che non rideva quando essi ridevano, e rideva quando nessuno dei tre riusciva a sorridere? E poi? di che era fatto? di legno? La vedeva, certa grazia di Dio?…

Una sera, mentre sedevano in via Veneto, guardando una principessa ungherese, ferma e dritta come una palma a pochi passi da loro, un faccione rosso entrò, da un tavolo accanto, fra la spalla di Muscarà e quella di Scannapieco; e disse: “Come la mettereste voi quella lì?…” Era Monosola, un vecchio amico siciliano. Egli annunziò che tutto un gruppo di Catania, i Leoni di cancellata, il Re, il Gigante di cartone, il Sorcio martoglio e il Lucertolone, era arrivato un’ora avanti, e avrebbe dormito nella stessa pensione di Muscarà e Scannapieco. “Io vado a raggiungerli!” aggiunse Monosola. “Ma cerchiamo d’incontrarci prima di rincasare! Perché domani ripartiamo per Bologna. Qui a Roma non si attacca poi tanto! Ma a Bologna faremo un macello!”

I tre cercarono il gruppo dei nuovi arrivati per tutta la notte; infine si avviarono verso casa, e da certe chiazze umide, sparse nel mezzo della via Po, compresero che gli amici di Catania eran già passati e li avevan preceduti in pensione.

Non si videro nemmeno, perché, dopo aver russato per quattro ore, i catanesi si levarono all’alba, con scarpe cricchianti, e partirono, salutando Percolla, Scannapieco e Muscarà di dietro la porta.

“Dio santo!” disse Percolla, l’indomani. “Che faremo oggi?”

Quel giorno, dormirono molto, e così il domani, e l’altro domani. Finalmente i telegrammi degli zii e dei padri ebbero il loro effetto. “Tornate non concludendo nulla,” dicevano i telegrammi: “Non continuate spendere denaro inutilmente tornate”. “Sappiamo che grossista lasciato Roma senza avervi visto tornate.”

Ed essi tornarono.

3.

Ma il verme dei viaggi era entrato nei loro cervelli, e non smetteva di roderli. Giovanni trovò, nelle vecchie abitudini di Catania, quell’odore sgradevole che dopo due o tre anni si trova in un abito di fatica. Le passeggiate per il corso, i discorsi con gli amici, mio Dio, di nuovo?… Anche il piacere di restare a letto, dopo essersi svegliati dal sonno pomeridiano, e di profondare gli occhi nel buio, ignorando se si guardi lontano o vicino, era guastato dal pensiero che, in quel preciso momento, i caffè di via Veneto si riempivano di donne.

Giovanni ebbe l’idea di cenare, con i due amici, nel ristorante della stazione. “Lì,” diceva, “mi pare di trovarmi in un’altra città!”

E per otto sere andarono a collocarsi sotto una lampada schiccherata dalle mosche, e cenarono vicino al banco di marmo di quel vecchio e affumicato locale. 1 fischi dei treni vibravano nei bicchieri, e ogni tanto la sala si riempiva di un fumo denso e pungente, che essi però respiravano a pieni polmoni come la nebbia delle montagne, odorosa di funghi. “SI sta bene qui!” diceva Scannapieco.

Ma poi si accorsero che spendevano troppo. “E’ caro!” osservò Muscarà. “E non possiamo venire qui anche in inverno! Mi pare che i vetri, alle imposte, non ci siano tutti!”

Nel crocchi numerosi, smettevano bruscamente di seguire la conversazione comune, per dirsi due o tre parole allusive a qualcosa di grosso che era accaduto a Roma… una notte… due donne… che ridere! Ma tu, perché?… Oh, io! E tu allora?…

Gli altri li guardavano a bocca aperta, incuriositi e pieni di rispetto. Le loro tre memorie fiorirono insieme di episodi molto strani e piacevoli: sebbene non si fossero intesi prima, eran sempre d’accordo nel ricordare i minimi particolari di un fatto che, in verità, non era mai accaduto.

Mentre sedeva dietro il banco, ad ascoltare il rendiconto del cassiere, Giovanni si voltava a sinistra e, con un profondo sospiro, mormorava all’orecchio del cugino: “Sentirti dire: ‘Giovanni, in amore, tu sei un Dio!’”

Se poi s’interrogava Muscarà intorno a quella frase di Giovanni, Muscarà era in grado di raccontare come fu e quando fu e dove fu che una donna disse a Giovanni quelle parole deliziose.

Dopo quell’anno, al cominciare dell’estate, essi lasciarono sempre Catania, talvolta insieme, talvolta ciascuno per conto proprio.

Giovanni andò a passare lunghe ore silenziose a Viareggio, a Riccione, a Cortina. Lo guidava, in tali viaggi, una notizia sulle donne, magari ascoltata in un caffè, a un tavolo accanto. Una cartolina con le semplici parole: “Caffè di Trieste donne ottanta uomini dieci” lo mandò nella Venezia Giulia. La frase di un capitano di lungo corso, che parlava dalla strada a un amico affacciato al balcone: “Lo so che le gambe nude si vedono anche alla Plaia! Ma vederle nella pineta di Viareggio, gonfie così, per lo sforzo di pedalare, è un altro affare!” lo mandò a Viareggio.

“Che Viareggio!” scriveva intanto Scannapieco da Abbazia. “Nel mondo, non c’è che Abbazia! Abbazia! Voglio essere sepolto qui, nel lungomare, in modo che mi passino sopra le più belle donne del mondo!”

Tornato a Catania, Scannapieco riempì tutto un inverno di sospiri per Abbazia: ne parlava con amici, conoscenti e sconosciuti; si calcava il cappello con un pugno di finta rabbia e follia, quando esclamava: “Non c’è che l’acqua del Quarnaro!”

Un’estate, furono molti i giovani di Catania che partirono quasi di nascosto, e arrivarono ad Abbazia prima di Scannapieco.

Anche Percolla volle dare all’amico una lieta sorpresa facendosi trovare mezzo addormentato a un tavolino da caffè.

Giovanni, quell’estate, era più torpido che mai; in tutto, somigliava a un bravo e pulito bue di campagna, tranne che negli occhi ove talvolta si accendeva una tal frenesia che, non uno sguardo, ma un uomo in carne ed ossa pareva andare in giro velocemente, a baciare le donne, rapirle, litigare con esse, e abbandonarle. Talvolta, invece, il suo sguardo era passivo, ma non meno vasto e grandioso anche in questo. Il suo sguardo inghiottiva folle intere di donne, non lasciando fuori nemmeno una fibbia di scarpina. E che cosa non fece con gli occhi? Che cosa non vide ad Abbazia?

Le donne eran tutte tedesche e slave.