Alcune eran venute con la sola compagnia di un’unica valigetta: vedove, amanti licenziate, campionesse di nuoto, ex ballerine, invitavano con gli occhi i giovani di Catania, o gettavano sui loro volti, bianchi come un lenzuolo, fumo di sigaretta e risate benevole. In verità, com’era facile!… Dio, com’era facile! C’era solo da lamentare che queste donne non fossero poi tanto belle, e nemmeno tanto giovani.

Le giovani e belle erano venute in compagnia dei loro uomini: si trattava di grandi ragazze dagli occhi chiari che acquistavano lo sguardo solo nei momenti In cui si posava sull’uomo che le accompagnava: pesanti, serie, gravi, di mattina, sdraiate nelle terrazze degli stabilimenti, ne bastava una per togliere il sole a cinque catanesi stesi lì accanto; di sera, nelle terrazze degli alberghi, riempivano l’aria di oscure minacce apocalittiche. Giovanni ricordò di aver visto qualcosa di simile nella cappella Sistina, e fu la sola volta che la pittura gli parve un’arte ammirevole. Le grosse belle donne, più dei grossi uomini, han la capacità di avvertire, con un’alzata di gamba, un volgere di ciglia, un poggiare il mento sul pugno chiuso, che l’avvenire non promette nulla di buono. Così a Giovanni, che s’era avvicinato, coi primi accordi di un valzer, a una di queste enormi, belle, innamorate, fedeli tedesche, raccomandandosi alla Madonna e a sant’Agata, la ragazza invitata rispose, non solo col non vederlo, ma annunciando dal sopraccigli che la guerra scoppierebbe presto e l’Europa sarebbe distrutta dai fulmini. Da uno dei quali come incenerito, egli tornò al suo posto. “Non c’è che fare!” mormorava fra sé. “Non c’è che fare!”

I tre catanesi lasciarono Abbazia, coi primi tuoni di settembre. L’estate seguente, Giovanni si recò a Cavalese con Muscarà.

Avevano qualche filo bianco nei. capelli, e, la sera, vi passavano sopra un pennellino. Trovandosi quel fili nella ciocca che saltava ogni minuto fuori del berretto, e che essi ricacciavano dentro con la punta delle dita, l’orlo delle loro unghie era sempre scuro. “Che brutte unghie!” disse una ragazza. “Mi taglierei la mano piuttosto che vedermi unghie così”’

Tre anni avanti, in un treno, stavano per venire alle mani con un signore anziano e robusto che, cedendo alla collera, aveva smesso di parlare nell’orecchio di un amico, e detto a voce alta: “Non mi fa antipatia questa o quella: mi fa antipatia la donna, il suo modo di parlare, di guardare, di muoversi, di respirare!” Il viaggiatore faceva il verso alla donna: “Ah, ah! Uh, uh!… Con quella voce, quegli occhi!… Puf!” E faceva l’atto di sputare. “Com’è cretina! Com’è brutta! puah…”

“Idiota!” aveva borbottato piano Giovanni, ma non così piano che l’altro non l’udisse. N’era seguito un alterco, e i piccoli specchi delle pareti, fra le copie della Gioconda e della Primavera, s’erano riempiti di grosse mani levate…

Ora, invece, comprendevano l’amico Ardizzone, che, talune notti, si chiudeva a chiave nella propria camera, e quando vedeva la maniglia della porta girare a destra e poi a sinistra, e poi di nuovo a destra, tratteneva il fiato e pensava beatamente: “Non riuscirai ad entrare, piccola sanguisuga”.

Giovanni diventava sempre più entusiasta del piacere che dà la donna, e l’offerta che faceva per ottenerlo, nei discorsi serali, si elevava continuamente (“Darei dieci anni della mia vita!… Mi farei pestare come un tappeto… Leccherei la pianta dei piedi al padre che la mise al mondo!… Berrei questo e berrei quello!…-), ma delle donne in particolare cominciava ad avere una bassa opinione.

“Dio ha affidato in custodia a delle stupide la cosa più bella che esista al mondo!” diceva. “E che uso ne fanno? Balordo!… Io mi mordo le mani quando vedo la signora Leotta, quel pezzo di donna che fa fermare gli orologi, portare il corpo divino che Dio le ha dito, puntualmente ogni pomeriggio alle cinque, in via Lincoln, a quell’imbecille di Gallodindia!”

Non riusciva mai a trovare una buona qualità nell’uomo che aveva avuto fortuna presso una bella donna. Si trattava sempre di uno sciocco e il suo aspetto era sempre “dilavato”.

D’altronde, se la loro esperienza del piacere era enorme, quella delle donne era poverissima. Spogliato delle bugie, di quello che essi narravano come accaduto e che era invece un puro desiderio, o era accaduto a un qualche altro, il loro passato di don Giovanni si poteva raccontarlo in dieci minuti.

Dobbiamo dirlo chiaramente? Giovanni Percolla, a trentasei anni, non aveva baciato una signorina per bene, né aveva mai sentito freddo aspettando di notte, dietro il cancello, una ragazza che, un minuto dopo lo spegnersi della lampada nella camera del padre, si avvicinasse fra gli alberi tenebrosi del giardino incespicando nella lunga camicia bianca. Non aveva scritto né ricevuto una lettera d’amore, e il ricevitore del telefono non gli aveva mai accarezzato l’orecchio con le parole “amor mio”.

Con le signore poi… Ecco, con le signore era andata così! Una vicina, quarantenne, vedova e graziosa, aspettando nel salotto le sorelle di Giovanni, uscite per delle compere, aveva iniziato col padrone di casa una conversazione talmente gradita che le risate di lei si sentivano dalla strada. Poi, in verità, non si era sentito più nulla. Ma i rapporti si erano fermati a quel punto e a quella volta, perché la vedova aveva confidato a Giovanni che potevano incontrarsi “soltanto alle quattro del pomeriggio”, ora in cui Giovanni soleva dormire. “Eh, no! Io devo dormire!”

Dopo quella signora, nessun’altra signora.

La sua vita era, Invece, piena di cameriere d’albergo e di donne facili. Ma anche qui, piaceri brevi e intensi, preceduti da lunghi discorsi fra sé e con gli amici. Più di un’ora con una donna, Giovanni non era mai stato; le sue scarpe non lo avevano atteso a lungo ai piedi di un letto a due piazze. Ed egli non sapeva come una giovane si svegli all’alba, aprendo gli occhi sorridenti sugli occhi che la guardano da vicino.

“Sposati!” gli diceva qualche zio.

Egli, fra le coltri, mugolava come un gatto disturbato nella cenere calda: “Mamma mia!… Lasciatemi stare un altro anno!”

Il pensiero di dover dormire, tutte le notti, con una donna, gli dava le caldane, come quello del servizio militare a un cinquantenne che non ha mai fatto il soldato. Gli pareva che la moglie dovesse scoprirlo, mentre fuori gelava, tirandosi le coperte sulla testa o rotolando bruscamente verso la sponda del letto. E come grattarsi, nervosamente e piacevolmente, l’orecchio durante il sonno? E sotto la testa, avrebbe potuto ammonticchiare tre cuscini? Poi, perché non dirlo? egli non aveva uno stomaco di ferro.

Quest’uomo, che sveniva alla vista di una caviglia, pensava con paura che un ginocchio freddo potesse sfiorarlo durante il sonno, o la porta socchiudersi, nel pomeriggio, e una testa affacciarsi dicendo: “Tu dormi troppo, Giovanni!” Nelle lunghe ore in cui non avrebbe detto una parola nemmeno per avvertire che la casa bruciava, e si crogiolava nel proprio silenzio, e sentiva ogni momento il piacere di non essere costretto a parlare, la sua fantasia faceva un salto verso le cose più orribili, e fra queste trovava una battuta, pronunciata piano piano da una voce femminile imbronciata: “Perché non dici nulla, Giovanni, alla tua mogliettina?”

Era fatto così.

4.

Naturalmente, alle sorelle questo non dispiaceva. Avrebbero preferito un nipotino sulle ginocchia piuttosto che il gatto; ma se il Signore voleva spaventarle, bastava che mandasse a ciascuna il sogno di una cognata che si alzava dopo di loro, e chiedeva il caffè a voce alta, dal letto ingombro di giornali e libri.

Si facevano un dovere di ricordare a Giovanni che l’uomo deve ammogliarsi; ma uno sprazzo, rosso e lucente, di gioia e di orgoglio si stampava nel loro viso, quand’egli rispondeva: “Dove la trovo una donna come voi?”

“Del resto,” diceva Barbara, “c’è ancora tempo! A quarant’anni, un uomo è ragazzo!” Il ragazzo si guardava le unghie, in cui era rimasta la tintura nera dei capelli, e borbottava: “Be’, be’… lasciamo andare!”

“Tu hai bisogno di una donna seria!” incalzava Rosa. “Una donna come te! E purtroppo, di questi tempi, in città…”

“Dovresti cercarla in un paese della provincia!” diceva Lucia, sapendo che il fratello non avrebbe mai intrapreso un viaggio così breve e così scomodo.

“Sì, qualche volta, andrò a passare due giorni in un paese!”

“Bisogna che ci vada in occasione di un ballo al municipio! Altrimenti come farai a vedere le signorine?”

“Siamo d’accordo col podestà di Mascali che mi avvertirà, con un telegramma, del prossimo ballo al municipio.”

“E ci andrai?” domandava, con un sorriso dissuadente, Barbara, preoccupata ch’egli ci andasse davvero.

“Ci andrò, ci andrò! Auf!… Adesso vado un poco a riposarmi!”

Quell’anno, la sua pigrizia e il bisogno di dormire eran cresciuti talmente che, la sera, Muscarà non riusciva a fargli un discorso che durasse più di tre minuti: al quarto minuto, la testa di Giovanni, dopo aver tentennato, gli veniva addosso con gli occhi socchiusi e privi di vista. Così, quando gli leggeva una lunga notizia interessante, Muscarà aveva la cura di tenere una mano sotto il giornale e l’altra aperta davanti al viso, in modo da ricevere sulla palma la fronte del suo ascoltatore, e rialzarla piano piano.

Il languore cominciava a Giovanni fin dal pomeriggio, quando egli faceva seriamente discorsi come: “La lina stasera non uscì”.

“Ma perché dici la lina e non la luna? Uscì e non esce?” domandava l’amico.

Giovanni alzava una spalla.