Ma una volta rivelò il segreto: voleva risparmiarsi la fatica di pronunciare esattamente le parole, perché sembra che, abbandonata a se stessa, la bocca non scelga le vocali dell’uso comune, come un asino a cavezza allentata non va per il mezzo della strada. “Mi secca dirle giuste!”

Muscarà, stanco dell’amico, fece un viaggio e si spinse fino a Parigi.

Rimasto solo, Giovanni acquistò una rivista con donne nude a colori, e la sfogliava avanti indietro, indietro avanti, prima di addormentarsi. Quest’esercizio gli sostituì, con un certo risparmio di forze da parte sua, i discorsi sulla donna.

Un giorno, Muscarà tornò da Parigi con una bella novità. Aveva acquistato una bambola, della grandezza di una donna, e fatta d’una materia che, al tatto, somigliava alla carne in modo impressionante. La “parigina” fu portata, di sera, con un tassì dalle tendine abbassate, per via Lincoln e via Stesicoro; e, avvolta in un pastrano, fu introdotta nella casa di Muscarà, e nascosta entro un armadio fitto di abiti. Ma, due giorni dopo, un bambino, aprendo malaccortamente l’armadio, fece cadere lunga lunga la donna sul pavimento. Muscarà, accorso subito nella propria camera, si diede dei pugni in testa, maledicendo la sua malasorte, gli ospiti, le donne, Parigi. Poi, finalmente, riuscì a comprare il silenzio del bambino con una scatola di confetti. Ma decise di sloggiare la pupa, e domandò, la sera stessa, a molti amici se fossero disposti ad accoglierla in casa. Tutti si grattavano la fronte. “Eh, sapete, è un bell’impiccio!… Mia moglie, mia figlia… Perché non pregate il vostro amico Percolla?”

“Uh, per carità, quello lì!” Infatti, Giovanni era molto geloso della propria casa. Muscarà ricordava che, al tempo della fanciullezza, quando egli, dal balcone dei Percolla, guardando una donna nella strada, diventava cupido in viso, Giovanni, irritato di questo spettacolo di sensualità a pochi passi dalla tavola a cui soleva pranzare la famiglia e dalla poltrona in cui soleva sonnecchiare il padre, gridava con la voce stridula: “A casa mia, no! A casa mia, no!”

Finalmente si trovò un uomo di cuore che accolse la “parigina” nel retrobottega della propria farmacia notturna.

La notizia di questa pupa, che dava alla mano esattamente le sensazioni della carne, si sparse per Catania: tutti volevano toccarla. Personaggi notevolissimi, addirittura i primi della città, lasciavano i loro letti nel pieno della notte, simulando malesseri e dolori di capo, e si recavano nella farmacia. Una lampada rossa pendeva sul banco, la guardia notturna dormiva su un materasso steso per terra, e ogni tanto un cane randagio sporgeva dentro la testa per annusare l’odore di cedrato.

“Venite con me, commendatore!” diceva il farmacista, entrando per primo, con un mortaio di vetro in mano, nel retrobottega sfolgorante di luce.

“Capperi!” esclamava il commendatore, dopo aver passato una mano sulla caviglia della bambola. “E’ meglio della Maria!”

“E poi,” aggiungeva orgoglioso il farmacista, “guardate! Non le manca nulla!” “Capperi! Capperi!” E il commendatore si abbandonava a pensieri profondi; poi sillabava come fra sé: “La Scienza!” Il professor Martellini, uomo colto, umanista, animo di poeta, rispettoso cavaliere, ricevette una sensazione così forte sulla punta delle dita che fece due passi indietro e si cavò il cappello, avendo trovato nella bambola l’Eterno Femminino. Solo Giovanni ricusò di uscire dalle coperte a mezzanotte per andare a curiosare con l’indice, come diceva lui. Però la bambola gli appariva nel sogni.

“Diavolo di una pupa!” si lamentava con l’amico. “Me ne parlate tanto la sera, che non passo una notte senza vederla!” E spesso, al crepuscolo, mentre lo zio diceva al commessi: “Occhio vivo! I clienti hanno la mano lunga al buio!” Giovanni, telefonando all’amico Muscarà, chiudeva i suoi discorsi in questo modo: “Vediamoci pure dopo cena! Vieni a casa mia! Però, bada, NON SI PARLA DELLA PUPA!”

E Muscarà insinuante: “Sai che la vorrebbe Giuseppino Arena per una notte?”

“E che ne deve fare?”

“Non so… gli amici… Pensano di portarla in una certa pensione, e spaventare le ragazze… Dici che gliela do?”

“Oh, bada!… Può accadere uno scandalo! Io sono del parere di non dargliela.”

“Il professore le ha regalato un abito…”

“Un abito?”

Ma ecco che di nuovo si parlava della pupa! Giovanni sbatteva il telefono, gridando “addio!” in mezzo al fracasso del microfono buttato sul gancio.

“E’ gente fissata!” ripeteva, fra le balle di cotone e i clienti che, al buio, avvicinavano le monete all’occhio. “E’ gente fissata!”

In quel tempo, le apparenze della sua vita erano più che mai serie e gravi. Rincasava più presto del solito, e mandava fino alle due del mattino, dalla camera di cui un filo di luce imbiancava il balcone dirimpetto, un rumore di pagine voltate.

“Studia?” diceva Rosa.

“Sì, studia!” faceva Lucia.

“Ma che studia?”

“Qualcosa di utile per il commercio.”

“Che brav’uomo!” mormorava Barbara. “Che brav’uomo!” E si asciugava gli occhi col fazzoletto.

“Perché piangi, adesso?”

“Eh, la vita!”

“Che vuol dire?”

“Non so: mi viene da piangere quando penso alla vita!”

Era proprio così: la parola vita, comunque usata e pronunziata, anche nel titolo Vita delle api, o nel grido del vicino Martinè, che chiamava, con voce stridula: “Vita, ehi, Vita!” la vecchia cameriera che tardava ad aprirgli la porta, inumidiva subito gli occhi di Barbara.

Il penultimo mattino di marzo, essendo i balconi spalancati, i tappeti stesi sulle ringhiere, i vasi di fiori allineati nel ballatoi, e dentro la casa, ovunque, raggi di sole bianchi, gialli, turchini, mentre con la polvere usciva qualcosa di vecchio ed entravano al suo posto una pace, una letizia, suoni di marranzano, le voci “stasera” e “domani” di alcuni passanti, Barbara si abbandonò in una poltrona, torcendosi fra le sorelle che la tenevano stretta per i polsi: “No, io non ho fatto nulla per meritare questo paradiso!” Anche le sorelle piangevano, e, non avendo le mani libere, si asciugavano gli occhi con la spalla.

A Giovanni, di questo non fu detto nulla. Gran parte di quella pace e di quel paradiso era dovuta a lui, al suo lavoro, alla sua bontà e alla sua vita regolare. Ma egli accolse sulla fronte, ogni volta che si curvava a guardare nel piatto, gli sguardi lucenti e pieni di pace delle tre donne, ai quali si univa quello, con un occhio solo, ma non meno affettuoso e riconoscente, della vecchia serva.

Le giornate di aprile furono belle come le notti di luna in settembre. I passanti di via Leonardi, se levavano il capo verso un trillo di rondine, vedevano, al balcone, una donna che balbettava sola, e ogni tanto si gettava indietro i capelli. Era Barbara che diceva, a fior di labbra: “Paradiso in cielo paradiso in terra!… Paradiso in cielo paradiso in terra!…”

Le vecchie abitudini non erano cambiate: ma come un carro che esca, dalla stretta di due muri ciechi, sopra una vista di mare e di giardini illuminati, esse ora andavano, con la stessa lentezza, in un’aria migliore, sotto una luce più viva.

Giovanni faceva quello che aveva sempre fatto, e le sorelle non facevano nulla di diverso, ma tutto, non si sapeva perché, era meglio di prima.

Solo un giorno, la seconda domenica di aprile del millenovecentotrentanove, un giorno… Ecco qui cosa accadde un giorno.

Il buon Giovanni rincasò, come al solito, alle due del pomeriggio. Ma invece di andare a chiudersi nella propria camera, con una maglia sotto l’ascella, andò nello stanzino da toletta, e chiese dell’acqua calda.

Subitogliene fu portata una brocca. Ma Giovanni gridò, da dietro la porta a vetri smerigliati: “Con questa, non mi lavo il naso!” Le tre sorelle si guardarono a vicenda.

“Ne vuoi ancora dell’altra?” domandò timidamente Barbara.

Fu liberato dai libri e giornali un fornello che non era mai stato usato, vi fu collocata sopra una grossa marmitta piena d’acqua e sotto accesa una catasta di legna.

“Dio mio!” diceva Rosa, ascoltando il sibilo della fiamma e il brontolio del vapore. “Che vuol dire?” Cinque volte, la brocca piena d’acqua calda fu avvicinata alla porta dello stanzino, e cinque volte il braccio nudo di Giovanni, sporgendo per un vano sottile, la restituì vuota.

Un fracasso da non si dire riempiva il corridoio: catenelle tirate con furia, la brocca che cadeva dentro la tinozza di rame, e poi, fuori della tinozza, uno sguazzare a destra e a manca, bestemmie: “Corpo di!… questo sapone è un’anguilla!… Datemi aiuto!” il sapone si era ficcato sotto la porta come un sorcio, e la serva dovette snidarlo con uno spiedo; finalmente, un rigagnolo d’acqua uscì dallo stanzino, percorse il corridoio, entrò nel camerone da letto delle sorelle, e lambì un tappetino.

“Qui… ancora qui… un altro po’ qui!” diceva, con voce bassa e agitata, Barbara alla cameriera che la seguiva con una sporta in braccio, dalla quale prendeva pugni di segatura per gettarli sul pavimento.

Giovanni uscì arruffato e chiazzato di rosso, battendosi il petto con le palme aperte. “Ah, santo cielo! Uno si sente un altro!.. Da oggi in poi, ogni domenica, dovete prepararmi una marmitta di acqua calda!”

“Ogni domenica?” fece Rosa, guardando Barbara negli occhi.

Barbara inghiottì, e dopo aver indicato al fratello il piatto colmo che gli stava davanti, disse: “… Mangia”’

“Ogni domenica e ogni giovedì,” aggiunse Giovanni, passandosi la salvietta sul capelli ancora umidi.

“Due volte… la settimana?” azzardò Lucia.

“Due volte la settimana! C’è gente che fa il bagno ogni giorno; e forse due volte al giorno!”

Lucia ricordò un romanzo, “Sangue blu”, in cui aveva letto qualcosa di simile, e non fiatò.

Nonostante che attribuisse al bagno il potere di aumentar l’appetito, Giovanni toccò appena le vivande; e le sorelle gettavano lunghi sguardi sui piatti che egli restituiva pieni.