Ma quando lo videro entrare, come tutti i giorni, nella propria camera, e suscitare lo stridio delle vecchie imposte e scuri, chiusi con difficoltà, le tre donne mandarono insieme un respiro di sollievo. Il capriccio del bagno si perdeva nel sereno quadro delle vecchie abitudini.

“Poverino,” si dissero, sorridendo. “Chi sa?…”

Ma non era passata un’ora che Giovanni riapparve col volto acceso, una tossetta alla gola, e di nuovo sapone e pettini per le mani.

“Vado fuori!” diceva. “Non mi fa bene dormire troppo”.

E poco dopo, uscendo dallo stanzino da toletta, lavato e pettinato, diede un ganascino a Barbara: “Diavolo, ci si accorcia la vita, dormendo sempre!”

Il domani fortunatamente fu un giorno assai normale; ma l’altro domani portò una novità.

Alle cinque del pomeriggio, ora di cui Giovanni ignorava l’aspetto e la luce in qualunque stagione e mese, perché l’aveva sempre dormita, si udì dalla sua camera un suono prima inarticolato, come “Tara…lla, tara…lla; uhuu, nanana”; poi più chiaro, e infine quasi melodioso.

Le tre donne si avvicinarono in punta di piedi alla porta del fratello; anche la serva le raggiunse con la scopa in mano. Origliarono. “Canta!” disse Barbara, agitando le mani convulsamente. “Canta!”

E subito si ritrassero spaventate, al rumore del suo passo che si avvicinava.

Giovanni percorse il corridoio mormorando a bocca chiusa, nel profondo del petto, un motivo che non si riusciva a distinguere dalla raucedine. Ma due giorni dopo, questo canto divenne sfacciato.

“Ci pensa che, in casa, ha tre sorelle?” diceva Luisa. “Ci pensa?”

Infatti Giovanni cantava a voce alta e pronunciava distintamente le parole, le quali spesso erano tali che Barbara arrossiva fino alla radice dei capelli.

“Prima di dormir, bambina,” cantava Giovanni, “mandami un bacio d’amore!” Ovvero: “Un’ora sola ti vorrei, per dirti quello che non sai!” O addirittura: “Ma le gambe, ma le gambe, mi piacciono di più!”

Aveva un’aria accesa, gli occhi scintillanti, ma che non si fermavano mai sulle “cose della casa”, come diceva Barbara; e il suo passo, una volta strascicato, faceva sentire fortemente il rumore del tacco.

Un giorno, a tavola, respinse il piatto: “Non mi piace!” disse.

Ci fu una pausa. Barbara inghiottì, e chiese stentatamente: “Perché?”

“Non mi piace nulla, qui dentro! Nulla! Questa casa somiglia a una capanna di negri! Mi vergogno ad abitarci!”

“Dio!” fece Barbara, nascondendo le orecchie nelle mani: “Dio!”

“Non c’è un bagno come si deve! Ci laviamo una volta al mese, e mandiamo tutti un odore di capra!”

“Tutti?” disse Rosa. “Tutti!”

“Ma perché lo dici solo ora?”

“Lo dico quando mi piace di dirlo! Sono padrone di dirlo e padrone di non dirlo! Sono padrone di non guardare questo bicchiere, e di guardarlo!… E se lo guardo, posso dire anche che i bicchieri non vanno lavati con la cenere dei fornelli dove ha pisciato il gatto!”

“Ma la cenere disinfetta!… Fanno pure così le cuoche del barone Cardaci.” “Baroni? Facchini di porto!… Basta, via non parliamone più ve ne prego!” E si ritirò in camera.

Le sorelle tacevano, aspettando il finimondo. Invece, non era passata un’ora che Giovanni si alzò vispo come un ragazzo; cantava; strinse il naso di Lucia, la baciò vicino alla bocca, sebbene poi mormorasse tra sé: “Dio, che odore di pezza vecchia!”

“Arrivederci, pupe!” gridò dalla scala. “Pupe?” fece Barbara allibita.

Nel timore che quella parola fosse volata per le scale, fu chiamata la portinaia e interrogata minutamente. La vecchia non aveva sentito nulla.

La sera spogliandosi davanti a Rosa, che stava già a letto, con gli occhi spalancati, e il lenzuolo sopra il mento, Barbara disse, fra cattiva e scherzosa: “Chiudi gli occhi, pupa!”

“Chiudi gli occhi, Mariù!” fece eco Lucia, e accennò a mezza voce il motivo della canzonetta.

“Oh, canta anche lei!” disse Rosa. “E’ un dono di famiglia.” Poi però scoppiarono a piangere e, spenta la luce, continuarono a sussultare nei letti, facendo cigolare le spalliere.

“Eppure,” disse solennemente Barbara, rizzandosi come un fantasma nel buio, “eppure devo sapere che cosa gli è accaduto!”

E l’indomani, afferrando maldestramente Giovanni per i risvolti della giacca, Barbara gli disse: “Ma cos’hai, cos’hai?”

“Niente!” fece lui; e, aperte una dopo l’altra le mani della sorella, si scostò di un passo. “Niente!”

“Come, niente?” incalzò Barbara con gli occhi umidi. “Niente, ti dico!”

“No, fratello mio, ti è accaduto qualcosa!”

“Pensate quello che volete. Ma non mi è accaduto niente! lo esco. Addio!”

5.

Invece era accaduto a Giovanni un fatto così enorme che, se l’avesse semplicemente sognato, egli sarebbe rimasto per un mese sottosopra, e ogni notte sarebbe entrato nel letto col batticuore, temendo di avere per una seconda volta quel sogno piacevole e pauroso.

La signorina Maria Antonietta, dei marchesi di Marconella, lo aveva guardato! Tutto qui? diranno i nostri lettori.

Tutto qui! Ma non è poco, e spieghiamo perché. E innanzi tutto, diciamo che la nobile signorina toscana non aveva guardato Giovanni Percolla di sfuggita, con quello sguardo che ci passa sulla faccia come un barlume di sole rimandato da un vetro che venga chiuso o aperto: ma, al contrario, lo aveva guardato in pieno viso, al disopra del naso, forse negli occhi, ma non proprio nelle pupille, piuttosto fra i sopraccigli e la fronte, ch’era la parte della persona in cui Giovanni preferiva di essere guardato, e che metteva subito avanti nella sala del fotografo, sebbene costui gli dicesse affettuosamente: “Ma così mi venite come un bue!” E in tal modo, non lo aveva guardato per un istante, ma per un intero minuto, e così attenta e compiaciuta che era graziosamente inciampata in una bambina che le camminava davanti.

Bisogna poi aggiungere che la storia più importante di Catania non è quella dei costumi, del commercio, degli edifici e delle rivolte, ma la storia degli sguardi. La vita della città è piena di avvenimenti, amicizie, risse, amori, insulti, solo negli sguardi che corrono fra uomini e donne; nel resto, è povera e noiosa, Del segretario della Provincia, Alberto Nicosia, morto nella vasca da bagno un pomeriggio di domenica, la signora Perretta, dopo cinque giorni di dolore forsennato, ricordò tutta la vita, e i rapporti che lo legavano a lei, con queste semplici parole: “Ah, come mi guardava!”

Le donne ricevono gli sguardi, per lunghe ore, sulle palpebre abbassate, illuminandosi a poco a poco dell’albore sottile che formano, attorno a un viso, centinaia di occhi che vi mandino le loro scintille. Raramente li ricambiano. Ma quando levano la testa dall’attitudine reclinata, e gettano un lampo, tutta la vita di un uomo ha cambiato corso e natura. Se lei non guarda, le cose vanno come devono andare, per il giovanotto o l’uomo dì mezza età: uguali, comuni, insipide, tristi: insomma, com’è la vita umana. Ma se lei guarda, sia pure con mezza pupilla, oh, ma allora, la vita non è poi così triste, e Leopardi è un poeta che non sa nulla di questo mondo!

“Talìa?” dicono a Catania. “Che fa, talìa” domanda a voce bassa lo studente al compagno di banco, insieme al quale, col capo chino e rigido, passa sotto il balcone di lei.

“Dovrei tornare al giornale,” ci disse una sera, a teatro, uno spettatore sconosciuto, che sedeva accanto a noi, pulendosi, col lembo della giacca, le lenti a pinzetta. “Dovrei tornare in redazione, perché, a mezzanotte, arriva l’espresso della provincia, e son io che lo passo. Ma devo restare qui!”

Incoraggiati dall’aspetto penoso del nostro vicino, noi domandammo: “Perché?”

“Eh!” fece lui, e indicò il palcoscenico ove, in coda a una fila di donne seminude, una ragazza, accecata dalla luce dei riflettori, alzava le gambe davanti a sé e gettava nella sala sguardi vuoti e bianchi. “Quella ragazza, l’ultima della fila, mi guarda!”

“Eh, mi pare!” facemmo noi.

Già volendoci un po’ bene, egli ci raccontò una lunga storia di lettere e telefonate, rimaste per il passato senza risposta, ma, quella sera, finalmente coronate dallo sguardo innamorato della ballerina. In verità, la ragazza guardava nella sala come si guarda nella finestra piena di tenebra, da una stanza illuminata; ma ogni volta che i suoi occhi accecati passavano sul nostro vicino di sinistra, il vicino di destra si agitava sulla poltrona, dicendo con gioia e paura: “Ecco, che guarda! Guarda!”

E questi, direte voi, sono gli stessi catanesi che parlavano delle donne in un modo così poco urbano?

Ebbene, sì, quegli stessi, ma nel tempo in cui sono innamorati…

Ora Giovanni Percolla, nonostante tutta una vita dedicata alla donna, e i discorsi su di lei, e i viaggi per lei, non era stato mai innamorato, anzi ostentava un certo disprezzo per il cugino, che passava giornate intere entro la stanzetta più oscura della propria casa, leccando, come un gatto, il telefono con parole soavi, e scomparendo nel fumo delle sigarette.