“Bella bestia!” diceva Giovanni, dopo aver gettato uno sguardo attraverso la porta a vetri, che chiudeva, per cinque o sei ore, la scena in penombra di un uomo disteso sopra un cassone, con le gambe in aria e il microfono tra la spalla e l’orecchio.

Così aveva sbadigliato sgraziatamente ogni volta che i suoi amici parlavano di questa Ninetta dei Marconella, chiamandola, per i suoi capelli biondi ammassati sulla nuca, “Quella col tuppo”; gemendo penosamente, la notte, quando uno di loro suggeriva: “A quest’ora Quella col tuppo è a letto! Dormirà in pigiama o in camicia lunga?”; chiedendosi l’un l’altro a mezzogiorno: “E’ salita?” “No, mi pare che sia scesa!” “Io non l’ho incontrata!” “Sarà qui… sarà lì!”; cadendo nella più nera mestizia, la domenica, quando il baronello Licalzi, di solito bene informato, annunziava a voce o per telefono: “Quella col tuppo è andata a Taormina!”

“Del tuppo me ne faccio un tappo!” aveva detto, scherzando, Giovanni Percolla. “Voi, le continentali le fate insuperbire! Di ragazze come lei, a Firenze, se ne trovano anche nella spazzatura! Dico per dire! Certo, è bellissima. Ma, santo cielo, tutta una città che parla di lei!… Non mi pare affatto serio! Ha ragione di far la superba”’

E invece quella superba, una mattina, presso il cancello del giardino pubblico, aveva guardato, per un minuto di seguito, Giovanni Percolla.

Come un generale, nominato di fresco, e che sempre ha avuto paura dell’arrivo, del generale, entrando nella fortezza si spaventa, al frastuono delle trombe, al secco rumore dei fucili, agli ordini angosciosi di “Attenti!” e “Arriva il generale!” e si volge indietro per vedere chi ci sia dopo di lui, ma poi ricordando ch’egli stesso è generale, e adagio adagio assicurandosi che non deve aver paura, perché è proprio lui che fa paura, sorride di orgogliosa gioia; così Giovanni Percolla. Spieghiamoci meglio: Giovanni camminava con una certa trepidazione, a sinistra, e due passi più indietro, della signorina Ninetta, quando costei alzò il viso e rimase incantata alla vista di un personaggio evidentemente incantevole. Tutte le qualità dovevano ornare quel personaggio: bellezza, vigoria, bontà, ingegno, gioventù, se una donna lo guardava così. Morso dalla gelosia e dallo sgomento, Giovanni si volse indietro per vedere chi fosse costui. Ma dietro le sue spalle, non c’era nessuno: lo sguardo di Maria Antonietta dei Marconella terminava su di lui; quel personaggio era proprio lui. Dio degli Angeli! Giovanni aveva dimenticato del tutto che portava in sé una simile persona, la quale, mentr’egli aveva dormito e fatto con gli amici discorsi poco convenienti, s’era coperta di gloria e di bellezza, aveva scritto poemi celebri, inventato questo e quello, convertito popoli interi alla dolcezza cristiana, e sfidato, con un grido giovanile, molto simile allo strido dell’aquila al mattino, i superbi e gl’idioti. Oh sant’Agata, come se ne ricordava chiaramente, adesso che due occhi, non si sa bene se turchini, dorati o neri, fissavano in lui, rispecchiandolo fedelmente, l’autore di così straordinarie imprese!

Ninetta si allontanò col suo passo rapido e silenzioso, ma in Giovanni Percolla rimase un fremito di leone, quasi che la ragazza, passando, gli avesse buttato addosso la pelle viva di quel nobile animale. Che sensazione piacevole, che ampio e fresco respiro, che nuova gioventù! Subito il motivo di una canzonetta cominciò a rantolare nella sua gola che nulla di estraneo alla parola aveva mai ospitato, all’infuori della tosse. S’iniziò per lui la vita che sappiamo. Poiché quel personaggio, che Ninetta dei Marconella aveva visto in lui, prendeva il bagno ogni giorno, egli entrò nella tinozza due volte la settimana; poiché quel personaggio dormiva poco, egli dormì poco; poiché quel personaggio cantava, egli cantò. “Quando cammini solo”, gli disse, sieroso, Muscarà, “non devi cantare! Ieri il barone Licalzi, al quale chiedevo di te, mi ha risposto: ‘Canta la Marcia Reale in un viale del giardino pubblico!’”

“Hai ragione!” disse Giovanni. “Ma vedi?…”

E si confidò con l’amico, che lo ascoltava grattandosi la testa e nascondendo ora il labbro di sotto con quello di sopra, ora il labbro di sopra con quello di sotto: “Ma può darsi che t’inganni!” disse Muscarà. “Le ragazze talvolta lo sa Dio cosa guardano!”

“E forse guarda lui!” uscì a dire, due giorni dopo, un giovane avvocato, che faceva parte di un gruppo al quale Muscarà confidò i segreti di Percolla. “Le ragazze han certe teste!”

Furono fatte le prove necessarie per accertarsi dei sentimenti di Quella col tuppo. Parecchi gruppi si interessarono alla cosa. Una sera, al caffè del giardino pubblico, questo interessamento divenne palese. Giovanni sedeva in compagnia di Muscarà e di tre giovanotti. “Guarda!” esclamò d’un tratto uno di questi, aggiungendo al grido d’allarme un colpo di gomito: “Guarda qui!”

“No!” disse un signore, d’altronde loro conoscente, che sedeva a un tavolino vicino. “Guarda me!”

“Scusate, perché guarda voi?”

Il signore si avvicinò al tavolo di Percolla, tirandosi sotto la sedia: “Mi chiamo Ferlito, ma sono anch’io un Marconella, da parte di madre! Abbiamo litigato per una questione di eredità. La ragazza mi guarda con astio!”

“Oh, no!” dissero in coro gli altri. “Non è uno sguardo cattivo, quello che abbiamo visto!”

“Sarà, ma guarda me!”

Giovanni si torceva entro il vestito. “Siamo qui, comunque: staremo a vedere!” aggiunse il signor Ferlito.

Ninetta mandò di nuovo un lampo in direzione di Giovanni. “Te, te, te!” gridò, nella gola, Muscarà, dando tre calci sugli stinchi di Giovanni. “Guarda te!”

Venne eseguita un’altra prova. Giovanni andò a sedere, solo, al tavolino lasciato poco innanzi dal signore. Per cinque minuti, la ragazza stette ad ascoltare un’amica, col viso rivolto a costei; poi finalmente si volse e, dopo aver cercato inutilmente nel gruppo di Muscarà, s’illuminò vedendo Giovanni solo e discosto, e tenne per un attimo gli occhi su di lui.

“Non dico più nulla!” disse il signor Ferlito. “Guarda proprio lui. Complimenti!”

Un avvocato, seduto dieci metri più lontano, alzò il braccio verso Giovanni, e gridò: “Ammuccamu!” che voleva dire: “Mangiamo pure la bella pietanza che agli altri non tocca!”

Fu fatta una terza prova.