E aggiunse frettolosamente e con crescente eccitazione: «Fèrmati qui ancora un quarto d’ora, Nachtigall, nel frattempo tenterò la sorte. Il proprietario della ditta abita probabilmente nello stesso edificio. Se non dovesse essere così… allora rinuncio al mio proposito. Deciderà il destino. Nel medesimo palazzo c’è un caffè, mi pare che si chiami Caffè Vindobona. Dici al cocchiere… di avere dimenticato qualcosa in quel caffè, entri, io aspetto vicino alla porta, mi riveli in fretta la parola d’ordine, risali nella tua carrozza; quanto a me, se mi sarà riuscito di procurarmi un costume, prendo subito un’altra carrozza e ti seguo, il resto si vedrà. Ti do la mia parola, Nachtigall, che dividerò in ogni caso il rischio con te».

Nachtigall aveva tentato a più riprese di interrompere l’amico, ma non ci riuscì.

Fridolin pagò il conto, diede una mancia fin troppo lauta, come gli sembrò s’addicesse allo stile di quella notte, e uscì. Fuori era ferma una carrozza chiusa; a cassetta, immobile, un cocchiere vestito tutto di nero con un alto cilindro; - sembra una carrozza funebre, pensò Fridolin. Pochi minuti dopo giungeva a passo veloce alla casa d’angolo che cercava, suonò, s’informò dal portiere se Gibiser il mascheraio abitava nel palazzo e sperò in segreto che non fosse così. Ma Gibiser abitava proprio là, al piano sotto il magazzino dei costumi, il portiere non sembrò neppure particolarmente sorpreso di quella visita ad ora tarda, anzi, reso affabile dalla mancia di Fridolin, osservò che durante il carnevale non capitava poi così di rado che qualcuno venisse a noleggiar costumi anche a quell’ora di notte. Fece luce con la candela dal basso finché Fridolin ebbe suonato al primo piano. Venne ad aprire proprio il signor Gibiser, quasi avesse atteso dietro la porta; magro, senza barba, calvo, con una vestaglia a fiori fuori moda e un berretto alla turca con nappa, sembrava un ridicolo vecchio da commedia. Fridolin chiese ciò che desiderava e aggiunse che non badava affatto al prezzo, ma Gibiser obiettò quasi sprezzante: «Non pretendo mai più di quanto mi spetti».

Condusse Fridolin nel magazzino per una scala a chiocciola. C’era odore di seta, velluto, profumi, polvere e fiori secchi; l’incerta oscurità era rotta da un baluginio rosso e argento; improvvisamente innumerevoli piccole lampadine brillarono fra gli armadi aperti di un corridoio lungo e stretto che si perdeva nelle tenebre. A destra e a sinistra pendevano costumi di ogni genere; da una parte cavalieri, scudieri, contadini, cacciatori, dotti, orientali, buffoni, dall’altra dame di corte, castellane, contadine, cameriste, regine della notte. Sopra i costumi si vedevano i corrispondenti copricapo. Fridolin aveva l’impressione di passare fra due ali d’impiccati pronti a invitarsi a ballare. Gibiser lo seguiva. «Il signore desidera qualcosa di particolare? Louis Quatorze, Directoire, antico tedesco?».

«Ho bisogno di un saio scuro e di una mascherina nera, nient’altro».

In quel momento dal fondo del corridoio si sentì un tintinnio di vetro. Fridolin fissò spaventato il mascheraio, come se questi fosse obbligato a un chiarimento immediato. Ma Gibiser rimase impassibile, cercò a tastoni un interruttore nascosto da qualche parte… e un chiarore abbacinante si riversò subito fino in fondo al corridoio illuminando un piccolo tavolo apparecchiato con piatti, bicchieri e bottiglie. Da due sedie a destra e a sinistra si alzarono due giudici della Sacra Veme in abito talare rosso, mentre nello stesso istante scompariva una graziosa creatura tutta bianca. Gibiser si precipitò a grandi passi in quella direzione, allungò la mano sopra al tavolo e afferrò una parrucca bianca; contemporaneamente sbucò da sotto il tavolo una ragazza graziosa e giovanissima, quasi una bambina, in costume da Pierrette con calze di seta bianche; attraversò correndo il corridoio e raggiunse Fridolin che fu costretto a prenderla fra le braccia. Gibiser aveva lasciato cadere sul tavolo la parrucca e tratteneva a destra e a sinistra per le toghe i giudici della Veme. Allo stesso tempo esclamò rivolto a Fridolin: «Signore, mi tenga ferma quella ragazzina».