La piccola si stringeva a Fridolin, come a chiedere protezione. Sul suo visino magro, bianco e incipriato spiccavano i finti nei; dal seno delicato saliva un profumo di rose e di cipria; i suoi occhi sorridevano di furberia e di piacere.

«Lor signori rimarranno qui finché non li avrò consegnati alla polizia» esclamò Gibiser.

«Che le salta in mente?» dissero i due. E a una voce: «Abbiamo aderito a un invito della signorina».

Gibiser li mollò e Fridolin sentì che diceva loro: «Esigo comunque un chiarimento.

O non si sono subito accorti di aver a che fare con una pazza?» e rivolto a Fridolin:

«Scusi l’incidente, signore».

«Oh, non importa» disse Fridolin. Avrebbe preferito restar lì o portar via con sé la piccola, in qualsiasi luogo e a prezzo di qualsiasi conseguenza. La ragazza lo guardava con occhi seducenti e infantili, come ammaliata. I giudici della Veme parlavano animatamente tra loro in fondo al corridoio, Gibiser si rivolse con fare serio a Fridolin e chiese: «Desidera dunque una tonaca, signore, un cappello da pellegrino, una mascherina?».

«No», disse la Pierrette con occhi raggianti «al signore devi dare un mantello di ermellino e un farsetto di seta rossa».

«Tu non muoverti di qui» l’interruppe Gibiser, e tirò fuori una tonaca scura appesa fra un lanzichenecco e un senatore veneziano. «Questa è la sua misura, ed ecco il cappello adatto, tenga, presto».

Ora si fecero sentire di nuovo i giudici della Veme. «Ci faccia uscire immediatamente, signor Scibisé» - con sorpresa di Fridolin essi pronunciarono il nome Gibiser alla francese.

«Neanche per idea» rispose beffardo il mascheraio; «per il momento avranno la cortesia di attendere qui il mio ritorno».

Nel frattempo Fridolin s’infilò la tonaca, annodò le due estremità del cordone bianco penzolante; Gibiser, in piedi su una piccola scala, gli diede il cappello nero a larghe tese da pellegrino, e Fridolin se lo mise in testa; ma compiva tutte quelle azioni come fosse costretto, poiché sentiva con sempre maggior forza che era suo dovere restare là e aiutare la Pierrette minacciata da qualche pericolo. La mascherina che Gibiser gli diede, e che si provò subito, emanava un profumo strano e un po’

ripugnante.

«Precedimi» disse Gibiser alla piccola e indicò imperiosamente la scala. Pierrette si voltò, gettò uno sguardo in fondo al corridoio e si congedò accennando un saluto gaio ma velato di malinconia. Fridolin seguì il suo sguardo; ora non c’erano più i giudici della Veme, ma due giovani snelli, in frac e cravatta bianca, che tuttavia avevano ancora le mascherine rosse sul viso. Pierrette scese agilmente la scala a chiocciola, dopo di lei Gibiser, infine Fridolin.

Nell’anticamera, Gibiser aprì una porta che conduceva alle stanze interne e disse a Pierrette: «Per ora vai a letto, creatura abietta, ci vedremo non appena avrò fatto i conti con quei signori di sopra».

Bianca e delicata era ferma sulla porta, lanciò un’occhiata a Fridolin e scosse tristemente la testa. In un grande specchio a muro sulla destra, Fridolin vide un pellegrino magro che non era altri che lui, e si meravigliò che tutto procedesse così naturalmente. Pierrette era scomparsa, il vecchio mascheraio aveva chiuso la porta alle sue spalle. Poi aprì quella dell’appartamento e costrinse Fridolin a uscire sul pianerottolo. «Mi scusi», disse Fridolin «quanto le devo?…».

«Lasci pure, signore, mi pagherà alla riconsegna, mi fido di lei».