Rappresentava un ufficiale che galoppava giù per una collina. Il padre aveva fatto sempre finta di non accorgersi del quadro. Ma era un buon quadro. In condizioni più favorevoli il fratello avrebbe potuto fare sicuramente dei progressi.

Come parla eccitata, pensò Fridolin, e come le luccicano gli occhi! Febbre? Può darsi. È dimagrita negli ultimi tempi. Apicite, probabilmente.

Continuava a parlare, ma gli sembrò che non sapesse bene con chi, oppure che parlasse con se stessa. Il fratello mancava da casa da dodici anni, sì, era ancora una bambina quando era improvvisamente scomparso. Quattro o cinque anni prima, a Natale, erano giunte l’ultima volta sue notizie da una cittadina italiana. Strano, ne aveva dimenticato il nome. Continuò così ancora per un certo tempo a parlare di cose insignificanti, senza che fosse necessario, quasi senza nesso, finché all’improvviso tacque; ora sedeva lì muta, il capo fra le mani. Fridolin era stanco e ancor più annoiato, aspettava ansiosamente che venisse qualcuno; i parenti o il fidanzato. Il silenzio gravava pesantemente nella stanza. Aveva l’impressione che il morto tacesse con loro; non perché era ormai impossibile che parlasse, ma di proposito e con gioia maligna.

Fridolin gli gettò un’occhiata di lato, poi disse: «Ad ogni modo, come stanno ora le cose, signorina Marianne, è un bene che lei non debba restare più a lungo in questa casa», e poiché ella sollevò un po’ la testa, senza però guardare Fridolin «il suo fidanzato otterrà presto una cattedra; alla facoltà di lettere ci sono maggiori possibilità che da noi, in questo senso». Si ricordò che qualche anno prima aveva anche lui aspirato alla carriera universitaria, ma aveva finito per scegliere la libera professione, per la sua tendenza ad una vita più comoda; e ad un tratto gli sembrò di essere meno importante dell’eccellente dottor Roediger.

«Quest’autunno ci trasferiamo», disse Marianne senza scomporsi «è stato chiamato all’Università di Gottinga».

«Ah» disse Fridolin e voleva congratularsi in qualche modo, ma gli sembrò fuori luogo in quel momento e in quella circostanza. Gettò un’occhiata alla finestra chiusa e, senza chiederne il permesso, come esercitando un suo diritto di medico, la spalancò e fece entrare l’aria, che nel frattempo si era fatta ancora più tiepida, primaverile, e sembrava portare con sé un lieve profumo dai boschi lontani che si risvegliavano dal sonno invernale. Quando si girò, vide gli occhi di Marianne fissi interrogativamente su di lui. Le si fece più vicino e osservò:

«Spero che l’aria fresca le faccia bene. Fa addirittura caldo, e ieri notte…»

stava quasi per dire: siamo tornati a casa dal ballo in maschera in una tempesta di neve, ma modificò subito la frase ed aggiunse: «Ieri sera c’era ancora mezzo metro di neve per le strade».

Lei ascoltò appena le sue parole. Gli occhi le s’inumidirono, grosse lacrime le rigarono le guance e nascose di nuovo il viso tra le mani. Istintivamente Fridolin le posò la mano sul capo e le accarezzò la fronte. Sentì che il suo corpo cominciava a tremare, poi lei prese a singhiozzare, dapprima quasi in silenzio, poi più forte, infine senza più controllarsi. Improvvisamente era scivolata dalla sedia e giaceva ai piedi di Fridolin, abbracciò le sue ginocchia e vi premette contro il viso. Poi lo guardò con occhi spalancati, furiosi per il dolore e sussurrò ardentemente: «Non voglio andar via di qui. Anche se lei non ritornerà mai, se non la vedrò mai più; voglio vivere vicino a lei».