Non grasso, ma pieno e gustoso.»

Il confronto fece ridere; ma la contessa incredula guardava la figlia, e mormorava:

«No, è molto bello essere magre, le donne che rimangono magre non invecchiano.»

Fu discusso anche questo punto che divise in due pareri il gruppo. Tutti però furono quasi d’accordo su questo: una persona molto grassa non doveva dimagrire troppo rapidamente. Questa osservazione diede luogo ad una rassegna di donne conosciute, e a nuove recriminazioni sulla loro grazia, la loro eleganza, la loro bellezza. Musadieu giudicava la bionda marchesa di Lochrist incomparabilmente attraente, mentre Bertin considerava senza rivali la signora Mandelière, bruna dalla fronte bassa, gli occhi scuri e una bocca un poco grande in cui i denti sembravano rilucere.

Era seduto vicino alla fanciulla, e, ad un tratto, volgendosi verso di lei:

«Ascolta bene, Annette, tutto ciò che abbiamo detto, lo sentirai ripetere almeno una volta per settimana, finché sarai vecchia. In otto giorni, saprai a memoria tutto ciò che si pensa in società di politica, delle donne, degli spettacoli e del resto. Non dovrai che cambiare i nomi delle persone, o i titoli delle opere, di quando in quando. Quando avrai ascoltato tutti noi esporre e difendere le proprie opinioni, sceglierai serenamente la tua, fra quelle che si debbono avere, e poi non avrai più bisogno di pensare a nulla, mai; dovrai solamente riposarti.»

La piccola, senza rispondere, levò su lui uno sguardo malizioso, in cui brillava una intelligenza giovane e fresca, tenuta al guinzaglio, ma pronta a slanciarsi.

Ma la duchessa e Musadieu, che giocavano con le idee, come a palla, senza accorgersi che si rilanciavano sempre le stesse, protestarono in nome del pensiero e dell’attività umana.

Allora Bertin si sforzò di dimostrare come l’intelligenza della gente di società, anche la più istruita, fosse senza valore, poco alimentata, circoscritta, come le loro convinzioni fossero scarsamente fondate, la loro attenzione per le cose spirituali fosse tenue e indifferente, i gusti mutevoli e incerti.

Colto da uno di quegli attacchi d’indignazione, per metà veri e per metà simulati, provocati anzitutto dal desiderio di essere eloquente, e riscaldati subito dopo da una logica chiara, resa oscura normalmente dalla bonarietà, egli dimostrò come le persone che hanno quale unica occupazione nella vita fare visite e pranzare fuori, devono divenire, per una irresistibile fatalità, esseri frivoli e educati, ma banali, inutilmente agitati da preoccupazioni, principi e desideri superficiali.

Dimostrò che niente per loro è profondo, ardente, sincero: che la loro cultura intellettuale è inesistente, e l’erudizione una semplice vernice, essi rimangono, insomma, dei manichini, che danno l’illusione e hanno l’apparenza di esseri dalle doti eccezionali, mentre non lo sono affatto. Spiegò come le deboli radici dei loro istinti essendosi formate nel convenzionalismo, e non nella realtà, essi non amino veramente nulla, come il lusso stesso della loro esistenza fosse una soddisfazione della vanità, e non l’appagamento di un bisogno raffinato del corpo, poiché nelle loro case si mangia male, e si bevono vini cattivi, pagati a carissimo prezzo.

«Essi vivono,» proseguì, «accanto a tutto, senza vedere niente e partecipare a niente; accanto alla scienza, che ignorano; accanto alla natura che non sanno guardare; accanto alla felicità, perché non riescono con intensità a godere nulla; accanto alla bellezza del creato e alla bellezza dell’arte di cui parlano senza essersene mai accorti e addirittura senza credervi, poiché ignorano il piacere di gustare le gioie della vita e della intelligenza Sono incapaci di legarsi a una cosa, sino ad amarla come esclusiva, di interessarsi a niente, sino ad essere illuminati dalla felicità di capire.»

Il barone di Corbelle ritenne doveroso prendere le difese della buona società. Lo fece con argomenti privi di consistenza e indiscutibili, argomenti inafferrabili che si fondono davanti alla ragione come neve sul fuoco; argomenti assurdi e trionfanti, da curato di campagna che spiega l’esistenza di Dio. Per finire, paragonò la gente di società ai cavalli da corsa, che non servono a nulla, per dire il vero, ma rappresentano la gloria della razza equina.

Bertin, imbarazzato da quell’avversario, si era chiuso ora in un silenzio sprezzante e cortese. Ma, improvvisamente, la stupidaggine del barone lo provocò, e interrompendo abilmente il suo discorso, si mise a raccontare dal momento della sveglia fino a quando si corica, senza omettere nulla, la vita di un uomo di mondo.

Tutti i particolari, colti con finezza, disegnavano un profilo di una comicità irresistibile. Si vedeva il signore vestito dal suo cameriere esprimere prima al barbiere che veniva a raderlo alcune vaghe idee, poi, al momento della passeggiata mattutina, interrogare gli stallieri sulla salute dei cavalli, poi trottare per i viali del Bois, con la sola preoccupazione di salutare e di essere salutato, poi far colazione insieme alla moglie a sua volta uscita in coupé, parlandole solamente per enumerare le persone viste nella mattinata; poi arrivare fino a sera passando di salotto in salotto per ritemprare la propria intelligenza nelle relazioni con i suoi simili, e pranzare da un principe dove si era discusso l’atteggiamento dell’Europa, per terminare quindi la serata nel focolaio della danza, alla Opéra, dove le sue timide pretese di viveur erano soddisfatte innocentemente dalla apparenza di un luogo equivoco.

Il ritratto era talmente esatto, senza che l’ironia risultasse oltraggiosa per qualcuno, che tutti ridevano attorno al tavolo.

La duchessa, scossa dall’allegria tipica delle persone grasse, aveva dei brevi sussulti discreti nel petto. Infine disse:

«È davvero troppo divertente, mi farete morire dal ridere.»

Bertin, molto eccitato, replicò:

«Oh! Signora, in società non si muore dal ridere. È già molto se si ride. Si ha, per buon gusto, la compiacenza di avere l’aria divertita e di fingere di ridere. Il ghigno è imitato abbastanza bene, ma non lo si fa mai. Andate nei teatri popolari, là vedrete ridere! Andate fra i borghesi che si divertono, vedrete ridere sino alla soffocazione! Andate nelle camerate dei soldati, vedrete uomini che stanno soffocando con gli occhi pieni di lacrime torcersi sul letto davanti alle farse di un burlone. Ma nei nostri salotti non si ride. Vi ho detto che si finge tutto, anche il riso.»

Musadieu l’interruppe:

«Scusate, ma siete severo! Voi stesso, mio caro, mi sembra che non disprezziate questo mondo che criticate così bene.»

Bertin sorrise.

«A me piace,» disse.

«E allora?»

«Mi disprezzo un poco come un meticcio di razza dubbia.»

«Tutto questo non è che una posa,» disse la duchessa.

E siccome egli si difendeva da quella accusa, ella mise fine alla discussione, dichiarando che tutti gli artisti amavano far prendere alla gente lucciole per lanterne.

La conversazione, allora, divenne generale, sfiorò tutti gli argomenti: banali e dolci, amichevoli e discreti, e siccome il pranzo era terminato, la contessa ad un tratto esclamò, indicando i bicchieri pieni davanti a lei:

«Vedete, non ho bevuto affatto, neppure una goccia: vedremo se dimagrirò.»

La duchessa, furente, volle obbligarla ad inghiottire un sorso o due d’acqua minerale: ma invano, ed ella esclamò: «Oh! Che sciocca! Ecco che sua figlia le fa girare la testa. Ve ne prego, Guilleroy, impedite a vostra moglie di fare una tale follia.»

Il conte, che stava spiegando a Musadieu il sistema di una trebbiatrice meccanica inventata in America, non aveva inteso.

«Che follia, duchessa?»

«La follia di voler dimagrire.»

Egli rivolse alla moglie uno sguardo benevolo e indifferente.

«Il fatto è che non ho l’abitudine di contraddirla.»

La contessa si era alzata, prendendo il braccio del suo vicino; il conte offrì il suo alla duchessa, e passarono nel salone, poiché il salottino in fondo era riservato ai ricevimenti di giorno.

Era una stanza vastissima molto illuminata. Le quattro pareti ricoperte di grandi pannelli di seta azzurra chiara a disegni antichi, dalle cornici bianche e oro, assumevano sotto la luce delle lampade e del lampadario un colore lunare dolce e vivo. In mezzo alla parete principale, il ritratto della contessa dipinto da Olivier Bertin, sembrava dominare, animare la sala. Era proprio nel posto giusto, diffondeva nell’aria stessa del salone il suo sorriso di donna giovane, la grazia dello sguardo, il delicato fascino sprigionantesi dai capelli biondi.

D’altronde era quasi divenuta un’abitudine, una specie di rito, come il segno della croce quando si entra in chiesa, complimentarsi con il modello per l’opera del pittore, ogni volta che ci si fermava davanti.

Musadieu non vi trasgrediva mai. Poiché la sua opinione di esperto governativo aveva il valore di perizia legale, si sentiva in obbligo di affermare spesso, con convinzione, la superiorità di quel dipinto.

«Davvero,» egli disse, «è proprio il più bel ritratto moderno che conosco. C’è dentro una prodigiosa vitalità.» Il conte di Guilleroy, nel quale l’abitudine di sentir vantare quella tela aveva radicato la convinzione di possedere un capolavoro, si avvicinò per ribadire le lodi, e, per un minuto o due, accumularono tutte le espressioni convenzionali e tecniche per celebrare le qualità apparenti ed intenzionali di quel quadro.

Tutti gli occhi, alzati verso la parete, sembravano rapiti di ammirazione, e Olivier Bertin, abituato a quelle lodi, alle quali prestava la stessa attenzione che si pone nelle domande sulla salute quando ci si incontra per strada, raddrizzava tuttavia la lampada a riflettore sistemata davanti al ritratto per illuminarlo, dato che il domestico l’aveva posata, per negligenza, leggermente di traverso.

Quindi, si sedettero, e poiché il conte si era avvicinato alla duchessa, questa gli disse:

«Credo che mio nipote verrà a prendermi, ed a chiedervi una tazza di tè.»

Le loro aspirazioni si erano da qualche tempo trovate e intuite senza essersele ancora confidate, neppure con sottintesi.

Il fratello della duchessa di Mortemain, il marchese di Farandal, dopo essersi quasi interamente rovinato al gioco, era morto per una caduta da cavallo, lasciando una vedova e un figlio. Questo giovane, ora ventottenne, era il più ambito direttore di cotillon d’Europa, perché lo si faceva andare talvolta a Vienna e a Londra per coronare con giri di valzer i balli principeschi, nonostante fosse quasi povero, rimaneva per la situazione sociale, per famiglia, per nome, per le sue parentele quasi regali, uno degli uomini più ricercati e invidiati di Parigi.

Bisognava consolidare questa fama troppo giovanile, di ballerino e di sportivo, e, dopo un matrimonio ricco, ricchissimo, sostituire i successi mondani con quelli politici. Una volta deputato, il marchese sarebbe divenuto, per questo solo fatto, una colonna del futuro trono, un consigliere del re, uno dei capi del partito.

La duchessa, bene informata, conosceva l’enorme ricchezza del conte di Guilleroy, risparmiatore oculato, che abitava in un semplice appartamento quando avrebbe potuto vivere da gran signore nel più bel palazzo di Parigi. Era a conoscenza delle sue speculazioni sempre felici, del suo sottile fiuto di finanziere, della sua partecipazione agli affari più fruttuosi svolti da dieci anni a quella parte, e le era venuta l’idea di far sposare al nipote la figlia del deputato della Normandia, cui quel matrimonio avrebbe dato un’influenza preponderante nella società aristocratica del seguito dei principi. Guilleroy, che aveva fatto un ricco matrimonio, e moltiplicato con abilità una notevole fortuna personale, nutriva ora altre ambizioni.

Credeva nel ritorno del re e voleva per quel giorno essere in grado di approfittare dell’avvenimento nel modo più completo.

Come semplice deputato, era molto considerato. Come suocero del marchese di Farandal, i cui antenati erano stati i servitori fedeli e preferiti della casa reale di Francia, sarebbe asceso al primo rango.

L’amicizia della duchessa per sua moglie dava inoltre a quell’unione un prezioso carattere di intimità e, temendo che un’altra ragazza potesse piacere improvvisamente al marchese, aveva fatto ritornare la figlia per affrettare gli avvenimenti.

La signora di Mortemain, comprendendo e indovinando i suoi progetti, prestava una tacita complicità, e quel giorno stesso, benché non fosse stata avvisata del ritorno improvviso della ragazza, aveva detto al nipote di venirla a prendere dai Guilleroy, per abituarlo, a poco a poco, a frequentare quella casa.

Per la prima volta, il conte e la duchessa parlarono, anche se non apertamente, dei loro desideri, e lasciandosi, avevano concluso un trattato di alleanza.

Dall’altra parte del salone, si rideva.