Il signor di Musadieu raccontava alla baronessa di Corbelle la presentazione di un’ambasciata negra al presidente della repubblica, quando venne annunciato il marchese di Farandal.

Questi comparve sull’uscio e si fermò. Con gesto del braccio rapido e abituale, si mise il monocolo sull’occhio destro, e ve lo lasciò come per individuare il salone dove stava entrando, ma anche per dare forse alle persone che vi si trovavano il tempo di vederlo, e per mettere in risalto il suo ingresso. Poi, con un impercettibile movimento della guancia e del sopracciglio, lasciò ricadere il pezzo di vetro appeso a un filo di seta nera, e avanzò rapidamente verso la signora di Guilleroy, alla quale baciò la mano tesa, inchinandosi profondamente. Altrettanto fece con sua zia, poi salutò stringendo la mano a tutti, andando dall’uno all’altro con elegante disinvoltura.

Era un ragazzo alto dai baffi rossi, già un po’ calvo, dall’aspetto militare, con atteggiamenti inglesi da sportivo. Si intuiva, vedendolo, uno di quegli uomini nei quali tutte le membra sono più esercitate della mente, e che amano solo le cose in cui si sviluppano la forza e l’attività fisica. Tuttavia, era istruito, poiché aveva imparato ed imparava ancora ogni giorno, con grande sforzo mentale, tutto ciò che gli sarebbe stato utile sapere più tardi: la storia, accanendosi sulle date e fraintendendo l’insegnamento dei fatti, e le nozioni elementari di economia politica necessarie per un deputato, l’a b c della sociologia ad uso delle classi dirigenti.

Musadieu lo stimava, e diceva: «Sarà un uomo di valore.»

Bertin apprezzava la forza e la destrezza. Frequentavano la stessa sala d’armi, cacciavano spesso insieme e si incontravano a cavallo nei viali del Bois. Tra loro era dunque nata una simpatia di gusti comuni, quella massoneria istintiva generata fra due uomini da un soggetto di conversazione sempre pronto, gradevole per entrambi.

Quando il marchese venne presentato ad Annette di Guilleroy, ebbe improvvisamente il sospetto degli intrighi della zia, e, dopo essersi inchinato, la osservò con un rapido sguardo da intenditore.

La giudicò graziosa, e soprattutto piena di promesse, poiché aveva diretto talmente tanti cotillon da intendersene di ragazze, e poteva predire quasi a colpo sicuro il futuro delle loro bellezze, come un esperto che assaggia un vino troppo acerbo.

Scambiò con lei soltanto alcune frasi insignificanti, poi si sedette vicino alla baronessa di Corbelle per spettegolare a bassa voce.

Se ne andarono presto, e quando tutti furono usciti, la figlia a letto, i lumi spenti, i domestici risaliti nelle loro camere, il conte di Guilleroy, camminando per il salone rischiarato soltanto da due candele, trattenne a lungo la contessa, insonnolita su una poltrona, per spiegare le sue speranze, esaminare come comportarsi, prevedere tutte le combinazioni, le probabilità e le precauzioni da prendersi. Era tardi quando si ritirò, lietissimo del resto per la sua serata, e mormorando:

«Credo proprio che sia un affare fatto!»

 

III

 

 

«Quando verrete, amico mio? Non vi vedo da tre giorni, e mi sembra troppo. Mia figlia, mi occupa molto, ma sapete che non posso stare senza di voi.»

Il pittore, che disegnava degli schizzi, sempre alla ricerca di un soggetto nuovo, rilesse il biglietto della contessa, poi, aperto il cassetto di uno scrittoio, lo depose sopra un mucchio di altre lettere accumulate dall’inizio della loro relazione.

Si erano abituati, grazie alle facilitazioni della vita mondana, a vedersi quasi quotidianamente. Ogni tanto, ella andava da lui, e, lasciandolo lavorare, sedeva per un’ora o due nella poltrona, dove un tempo aveva posato. Ma siccome temeva alquanto le osservazioni dei domestici, preferiva per questi incontri quotidiani, per questi spiccioli d’amore, riceverlo in casa sua, o trovarlo in qualche salotto.

Questi incontri, che sembravano sempre naturali al signor di Guilleroy, venivano combinati in anticipo.

Almeno due volte la settimana, il pittore, pranzava dalla contessa con alcuni amici; il lunedì, la salutava regolarmente nel suo palco dell’Opéra; poi si davano appuntamento in questa o quella casa, ove il caso li conduceva alla stessa ora. Egli sapeva le sere in cui lei non usciva, ed andava allora a prendere una tazza di tè da lei, sentendosi come a casa propria, accanto alla sua veste, così teneramente e sicuramente accolto in quell’affetto maturato, così catturato dall’abitudine di trovarla da qualche parte, di passare vicino a lei qualche istante, di scambiare qualche parola, condividere qualche pensiero, che provava un bisogno incessante di vederla, benché la fiamma viva della sua tenerezza fosse da lungo tempo placata.

Il desiderio della famiglia, di una casa animata, abitata, dei pasti in comune, delle serate in cui si conversa senza difficoltà con persone conosciute da molto tempo, questo desiderio del contatto, della vicinanza, dell’intimità, che sonnecchia nel cuore di ogni uomo, e che ogni vecchio scapolo si porta appresso, di porta in porta, dai suoi amici, dove lascia un po’ di se stesso, aggiungeva al suo affetto una forza di egoismo. In quella casa dove era amato, viziato, dove trovava tutto, poteva ancora riposare e mitigare la sua solitudine.

Da tre giorni non vedeva i suoi amici, che il ritorno della figlia doveva tenere molto occupati, e già si annoiava, leggermente seccato che non lo avessero invitato prima, anche perché era molto discreto nel non sollecitarli per primo.

La lettera della contessa lo scosse come un colpo di frusta. Erano le tre del pomeriggio. Decise immediatamente di recarsi da lei, per trovarla prima che uscisse.

Comparve il cameriere, chiamato da un suono di campanello.

«Che tempo fa, Joseph?»

«Bellissimo, signore.»

«Caldo?»

«Sì, signore.»

«Panciotto bianco, giacca blu, cappello grigio.»

Era sempre molto elegante; ma benché fosse vestito da un sarto dallo stile corretto, il solo modo di portare gli abiti, di camminare con il ventre stretto in un panciotto bianco, l’alto cappello di feltro grigio, buttato un poco all’indietro, sembrava subito far notare che era artista e scapolo.

Quando giunse dalla contessa, gli fu detto che si stava preparando per fare una passeggiata al Bois. Scontento, attese.

Secondo l’abitudine, si mise a camminare per il salotto, andando da una sedia all’altra, o dalle finestre alle pareti, nella grande stanza resa oscura dalle tende. Su aggraziati tavolini dai piedi dorati, gingilli di ogni specie, inutili, eleganti e costosi, stavano in ricercato disordine. Antiche scatolette dorate tutte lavorate, tabacchiere con miniature, statuette di avorio, poi oggetti in argento opaco modernissimi, spassosamente severi, di tipico gusto inglese: una minuscola stufa da cucina, e sopra, un gatto che beve in una casseruola, un portasigarette a forma di grosso pane, una caffettiera per mettere i fiammiferi, e poi, in uno scrigno, tutti gli ornamenti per bambola, collane, braccialetti, anelli, spille, orecchini con brillanti, zaffiri, rubini, smeraldi, una microscopica fantasia che sembrava eseguita da gioiellieri lillipuziani.

Ogni tanto, toccava un oggetto, donato da lui per qualche anniversario, lo prendeva, lo maneggiava, lo esaminava con indifferenza pensierosa, poi lo riponeva a posto.

In un angolo alcuni libri aperti di rado, lussuosamente rilegati, s’offrivano alla mano sopra un tavolino con un solo piede, davanti a un piccolo divano rotondo. C’era anche su quel mobile la «Revue des Deux Mondes», come se fosse stata letta e riletta, poi altre pubblicazioni non ancora tagliate: le «Arts modernes», che si devono acquistare unicamente per il prezzo dato che l’abbonamento costa quattrocento franchi all’anno, e la «Feuille libre», sottile rivista dalla copertina azzurra, in cui si esprimono i poeti più nuovi, che si chiamano gli «snervati».

Tra le due finestre, la scrivania della contessa, mobile civettuolo del secolo scorso, su cui ella scriveva le risposte alle domande urgenti portate durante i ricevimenti. Alcune opere erano posate anche su quella scrivania, libri familiari, emblema dello spirito e del cuore della donna: Musset, Manon Lescaut, Werther; e per mostrare che non si era alieni alle sensazioni complicate e ai misteri della psicologia, Les Fleurs du mal, Le Rouge et le Noire, La femme au XVII siècle, Adolphe.

Accanto ai volumi, un delizioso specchietto portatile, capolavoro d’oreficeria, il cui lato riflettente era appoggiato sopra un quadrato di velluto ricamato, affinché si potesse ammirare sul dorso un singolare lavoro d’oro e argento.

Bertin lo prese e vi si guardò. Da alcuni anni invecchiava terribilmente, e benché giudicasse il proprio volto più interessante di un tempo, incominciava a rattristarsi per l’appesantimento delle guance e per le rughe della pelle. Una porta si aprì dietro a lui.

«Buon giorno, signor Bertin,» disse Annette.

«Buon giorno, piccola, stai bene?»

«Benissimo, e voi?»

«Come, apposta non mi dai del tu?»

«No, sul serio, mi imbarazza.»

«Evvia, dunque!»

«Sì, mi imbarazza, voi mi intimidite.»

«E perché?»

«Perché… perché non siete abbastanza giovane, né abbastanza vecchio!…»

Il pittore si mise a ridere.

«Davanti a questa ragione, non insisto più.»

Ella arrossì all’istante, sino alla parte bianca della pelle dove spuntano i primi capelli, e riprese, confusa:

«La mamma mi ha incaricata di dirvi che scende subito, e di chiedervi se volete venire al Bois de Boulogne con noi.»

«Sì certamente, siete sole?»

«No, con la duchessa di Mortemain.»

«Benissimo, accetto.»

«Allora permettete che vada a mettermi il cappello?»

«Va, bambina mia.»

Era appena andata via quando entrò la contessa con il volto velato, pronta per uscire. Gli porse le mani.

«Non vi si vede più. Cosa fate?»

«Non volevo disturbarvi in questo momento.»

«Olivier!» e nel modo con cui pronunciò «Olivier», ella mise tutti i suoi rimproveri, tutto il suo affetto.

«Siete la donna migliore del mondo!» egli disse, commosso dall’intonazione con cui era stato pronunciato il sua nome. Risolta quella piccola questione di cuore, ella riprese con tono mondano:

«Andremo a prendere la duchessa nel suo palazzo, poi faremo un giro nel Bois. Dovremo insegnare tutto a Annette.»

Il landau attendeva sul portone.

Bertin sedette di fronte alle due donne, e la carrozza partì in mezzo al rumore dei cavalli scalpitanti sotto la volta sonora.

Lungo il grande viale che scende verso la Madeleine, tutta l’allegria della recente primavera sembrava discesa dal cielo sugli esseri viventi.

L’aria tiepida e il sole davano agli uomini un’aria festiva, alle donne un’aria innamorata, facevano far capriole ai monelli e ai garzoni che, deposti i canestri sulle panchine, correvano a giocare con i loro coetanei, i giovani teppisti; i cani sembravano avere premura; i canarini nelle portinerie cantavano a squarciagola; solo i vecchi ronzini dei fiacre procedevano con andatura spossata, con trotto da moribondi.

La contessa mormorò:

«Oh! Che bella giornata, com’è bella la vita!»

Il pittore, nella gran luce del sole, contemplava la madre e la figlia, una dopo l’altra. Certo, erano diverse, ma nello stesso tempo talmente simili, che una era proprio la continuazione dell’altra, fatta dello stesso sangue, della stessa carne, animata dalla stessa vita. In particolare i loro occhi, quegli occhi azzurri macchiettati di piccole gocce nere, di un azzurro così fresco nella figlia e leggermente scolorito nella madre, fissavano talmente bene su di lui lo stesso sguardo, quando parlava, che si aspettava di sentirle rispondere le medesime cose. Ed era sorpreso di constatare, facendole ridere e chiacchierare, che davanti a lui c’erano due donne molto diverse, una che aveva vissuto, l’altra che iniziava a vivere.