No, non riusciva a vedere come sarebbe diventata quella fanciulla, una volta che la sua giovane intelligenza, influenzata da gusti ed istinti ancora sopiti, si fosse schiusa, si fosse aperta negli avvenimenti del mondo. Era una graziosa creaturina nuova, pronta al caso e all’amore, ignorata ed ignorante, che usciva dal porto come una nave mentre sua madre vi rientrava, dopo avere amato e attraversato l’esistenza.

Si intenerì al pensiero che quella donna sempre bella, cullata in quel landau, nell’aria tiepida di primavera, avesse scelto lui ed ancora lo preferisse.

Mentre le rivolgeva la sua riconoscenza con uno sguardo, lei lo indovinò, ed egli credette di riconoscere un ringraziamento nel fruscio del suo abito.

A sua volta, mormorò:

«Oh sì! Una bella giornata!»

Quando ebbero preso la duchessa, in rue de Varenne, filarono verso gli Invalides, traversarono la Senna e raggiunsero gli Champs Elysées, risalendo verso l’Arc de Triomphe dell’Ètoile in mezzo a un mare di carrozze.

La fanciulla si era seduta vicino a Olivier, all’indietro, e guardava quel fiume di equipaggi, con occhi ingenui e avidi. Di tanto in tanto, quando la duchessa e la contessa accoglievano un saluto con un breve cenno del capo, domandava: «Chi è?» Lui le diceva i nomi: «I Pontaiglin, i Puicelci, la contessa di Lochrist, la bella signora Mandelière.»

Percorrevano ora il viale del Bois de Boulogne in mezzo al rumore e alle scosse delle ruote. Gli equipaggi un poco meno serrati che all’Arc de Triomphe, sembravano lottare in una corsa incessante. I fiacre, i pesanti landau, gli equipaggi solenni, si superavano a vicenda, distanziati improvvisamente da una veloce victoria, trainata da un solo trottatore che trasportava a pazza velocità attraverso quella folla borghese o aristocratica che passava, attraverso tutte le classi, attraverso tutti i mondi e tutte le gerarchie, una donna giovane, indolente, il cui abito chiaro e audace gettava nelle carrozze che sfiorava uno strano profumo di fiore sconosciuto.

«Chi è quella signora?» domandava Annette.

«Non so,» rispondeva Bertin, mentre la duchessa e la contessa si scambiavano un sorriso.

Le foglie erano in germoglio, gli usignoli in dimestichezza con quel giardino parigino cantavano già in mezzo alla natura rinnovata e, quando tutti si allinearono in fila al passo, avvicinandosi al lago, si svolse da carrozza a carrozza un interrotto scambio di saluti, sorrisi e parole gentili, ogni volta che le ruote si toccavano. Tutto ciò sembrava ora lo scivolare di una flotta di barche, su cui erano sedute dame o signori molto accorti. La duchessa, la cui testa si chinava ad ogni istante davanti ai cappelli levati o alle fronti inclinate, sembrava passare in rivista e ricordare quello che sapeva delle persone, man mano che le sfilavano davanti.

«Guarda, piccola, ecco di nuovo la bella signora Mandelière, la bellezza della repubblica.»

In una carrozza leggera e civettuola, la bellezza della repubblica lasciava ammirare, con apparente indifferenza per questa gloria indiscussa, i suoi grandi occhi scuri, la fronte bassa sotto un casco di capelli neri, e la bocca volitiva un po’ troppo pronunciata.

«Bellissima in ogni modo,» disse Bertin.

La contessa non amava sentirlo elogiare le altre donne. Alzò dolcemente le spalle, e non rispose nulla.

Ma la fanciulla, nella quale si risvegliò subito l’istinto della rivalità, osò dire:

«Io non trovo affatto.»

Il pittore si voltò.

«Come? Non la trovi bella?»

«No, sembra aver fatto un bagno nell’inchiostro.»

La duchessa rideva in visibilio.

«Bene piccola, sono sei anni che la metà degli uomini di Parigi va in estasi davanti a quella negra! Credo che essi si facciano beffe di noi. Ecco guarda piuttosto la contessa di Lochrist.»

Sola in un landau con un barboncino bianco, gli occhi scuri, i lineamenti delicati, che da cinque o sei anni costituivano il tema per le esclamazioni dei suoi ammiratori, salutava con un sorriso fisso sulle labbra.

Ma Annette ancora non si mostrò entusiasta.

«Oh!» disse. «Non è più molto fresca.»

Bertin che di solito nelle discussioni quotidiane su quelle due rivali non sosteneva la contessa, s’irritò per quella sfrontatezza da monella:

«Accidenti,» disse, «che ti piaccia o no, è una donna affascinante, e ti auguro di diventare bella quanto lei.»

«Evvia, dunque,» riprese la duchessa, «voi notate le donne soltanto quando hanno passato i trent’anni. Annette ha ragione, le decantate solo quando sono appassite.»

Egli esclamò:

«Permettete, una donna diventa veramente bella con gli anni, quando tutta la sua espressione è venuta fuori.»

Sviluppando l’idea, che la prima freschezza è solamente la vernice della bellezza che matura, egli provò come gli uomini di mondo non si ingannano quando prestano poca attenzione alle donne giovani in tutto il loro splendore, e come avessero ragione di proclamarle «belle» solo nell’ultimo periodo della loro fioritura.

La contessa lusingata, mormorava:

«Ha ragione, giudica dal punto di vista di un artista. Un volto giovane è grazioso, ma sempre un poco banale.»

Il pittore continuò, indicando in quale momento un viso perde a poco a poco la grazia indecisa della gioventù, e acquista la forma definitiva, il carattere, la fisionomia.

E ad ogni parola la contessa faceva «sì», chinando lievemente la testa con aria convinta; e più egli affermava con calore da avvocato che perora, con l’animazione di una persona sospettata che difende la propria causa, più lei l’approvava con lo sguardo e con il gesto, come se si fossero alleati, per sostenersi contro un pericolo, per difendersi contro un’opinione minacciosa e falsa. Annette non li ascoltava affatto, tutta occupata a guardare. Il suo volto, che così spesso rideva, era divenuto grave e non diceva più nulla, stordita di gioia in quel traffico. Quel sole, quel fogliame, quelle carrozze, quella bella vita, ricca ed allegra, tutto questo era per lei!

Tutti i giorni avrebbe potuto andare così, conosciuta, a sua volta, salutata, invidiata; e gli uomini, indicandola, forse avrebbero detto che era bella.

Ricercava tutti coloro che le sembravano più eleganti, e domandava sempre i nomi, senza occuparsi d’altro che di quelle sillabe riunite che, qualche volta, svegliavano in lei un’eco di rispetto e di ammirazione, perché li aveva letti spesso nei giornali o nella storia. Non riusciva ad abituarsi a quella sfilata di celebrità e né poteva del tutto credere che fossero vere, come se avesse assistito ad una rappresentazione. I fiacre le ispiravano disprezzo e ripugnanza, la infastidivano e l’irritavano, e, ad un tratto, disse:

«Trovo che dovrebbero consentire l’accesso qui solo alle carrozze padronali.»

Bertin rispose:

«Ebbene, signorina, che ne facciamo dell’uguaglianza, della libertà e della fraternità?»

Fece una smorfia che voleva dire «riguarda gli altri» e riprese:

«Dovrebbe esserci un bosco per i fiacre, quello di Vincennes per esempio.»

«Sei in ritardo, piccola, e ancora non sai che navighiamo in piena democrazia. D’altronde, se vuoi vedere il Bois privo di qualsiasi promiscuità, vieni al mattino, non vi troverai che il fior fiore della società.»

E fece un quadro, uno di quelli che dipingeva così bene, del Bois di mattina, con i cavalieri e le amazzoni, appartenenti a quel gruppo fra i più scelti, dove tutti si conoscono per nome, nomignolo, parentado, titoli, virtù e vizi, come se tutti vivessero nello stesso quartiere o nello stesso villaggio.

«Ci venite spesso?…» chiese Annette.

«Spessissimo; davvero non c’è nulla di più incantevole a Parigi.»

«Andate a cavallo la mattina?»

«Sì.»

«E poi, il pomeriggio fate delle visite?»

«Sì.»

«Allora, quando lavorate?»

«Ma lavoro… qualche volta, e poi ho scelto una professione che asseconda i miei gusti. Dal momento che dipingo le belle signore, dovrò pur vederle e seguirle un po’ dappertutto.»

Ella mormorò sempre senza ridere:

«A piedi o a cavallo?»

Bertin gettò verso di lei uno sguardo distorto e soddisfatto, quasi a dire: «Guarda, guarda, già dello spirito, starai benissimo tu!»

Passò un soffio d’aria, proveniente da molto lontano, dalla vasta campagna non ancora sopita; e l’intero Bois fu percorso da un fremito, quel Bois civettuolo, freddoloso e mondano.

Per alcuni secondi, quel brivido fece tremare le esili foglie sugli alberi e le stoffe sulle spalle. Tutte le donne, con movimento quasi identico, riportarono sulle braccia e sul seno i soprabiti caduti indietro; e i cavalli si misero a trottare da un capo all’altro del viale, come se la brezza acuta, che si levava, li avesse frustati toccandoli. Rapidamente tornarono indietro in mezzo ad un rumore argentino di briglie scosse, sotto l’ondata obliqua e rossa del sole calante.

«Rientrate a casa?» disse la contessa al pittore di cui conosceva tutte le abitudini.

«No, vado al circolo.»

«Allora, vi lasceremo passando.»

«Benissimo, grazie.»

«E quando ci inviterete a colazione con la duchessa?»

«Dite voi il giorno.»

Quel pittore in titolo delle parigine ribattezzato dagli ammiratori «un Watteau realista» e dai denigratori «fotografo di abiti e mantelli» riceveva spesso a colazione o a pranzo le belle donne di cui aveva riprodotto le sembianze ed altre ancora, ma tutte famose, tutte conosciute, che ravvivavano molto quelle piccole feste in una abitazione di scapolo.

«Dopodomani? Va bene, per voi dopodomani, cara duchessa?» domandò la signora di Guilleroy.

«Ma sì, siete incantevole. Bertin non pensa mai a me per le sue feste. Si vede che non sono più giovane.»

La contessa, abituata a considerare la casa dell’artista in parte come sua, riprese:

«Solo noi quattro; i quattro del landau: la duchessa, Annette, io e voi, non è vero, grande artista?»

«Noi soli,» egli rispose scendendo, «e vi farò fare i gamberi all’alsaziana.»

«Oh! darete dei vizi alla piccola.»

Egli salutò in piedi davanti allo sportello, poi entrò velocemente nel vestibolo della grande porta del circolo, lanciò soprabito e bastone allo stuolo di domestici che si erano alzati come soldati al passaggio di un ufficiale, poi salì l’ampia scala, passò davanti a un’altra brigata di domestici in calzoni corti, spinse una porta e subito si sentì vispo come un giovanotto, nell’udire, dal fondo del corridoio, un rumore continuato di fioretti incrociati, di chiamate di piedi, di esclamazioni lanciate da voci vigorose: «Toccato! - A me. - Toccato. - Avanti. - A voi.»

Nella sala d’armi, i tiratori, vestiti di tela grigia, giubbetto di pelle, calzoni stretti alla caviglia, una specie di grembiale ricadente sul ventre, un braccio in aria, una mano ripiegata e nell’altra, resa enorme dal guanto, il sottile e flessibile fioretto, si allungavano e si raddrizzavano con la brusca agilità dei fantocci meccanici.

Altri si riposavano conversando, ancora trafelati, rossi, sudati, con un fazzoletto in mano per asciugarsi la fronte e il collo; altri, ancora seduti sul divano quadrato che circondava la grande sala, guardavano gli assalti. Liverdy contro Landa, e il padrone del circolo, Taillade contro il grande Rocdiane.

Bertin sorrideva, sentendosi in casa propria, e stringeva le mani.

«Vi sfido,» gli gridò il barone di Baverie.

«Sono a vostra disposizione, mio caro.»

E passò nello spogliatoio per cambiarsi.

Da parecchio tempo non si era sentito così agile e vigoroso, e, comprendendo che stava per fare un eccellente assalto, si affrettava con l’impazienza dello scolaro che si prepara a giocare.

Quando ebbe davanti il suo avversario, lo attaccò con grande veemenza, e, in dieci minuti, avendolo toccato undici volte, lo fece affaticare talmente tanto che il barone domandò grazia. Quindi, tirò con Punisimont e con il collega Amaury Maldant. La doccia fredda, poi, raggelando la sua carne ansimante, gli ricordò i bagni dei vent’anni, quando si tuffava di testa nella Senna, dall’alto dei ponti della periferia in pieno autunno, per fare colpo sulla gente.

«Pranzi qui?» gli domandò Maldant.

«Sì.»

«Abbiamo un tavolo con Liverdy, Rocdiane e Landa; sbrigati, sono le sette e un quarto.»

La sala da pranzo, piena di uomini, era tutta un brusio. C’erano tutti i nottambuli di Parigi, gli sfaccendati e quelli impegnati, insomma tutti coloro che dalle sette di sera in poi non sanno che cosa fare, e pranzano al circolo per agganciarsi, grazie ad un incontro casuale, a qualcosa o a qualcuno.

Quando i cinque amici si furono seduti, il banchiere Liverdy, un uomo di quarant’anni, vigoroso e tozzo, disse a Bertin:

«Eravate arrabbiato questa sera!»

Il pittore rispose:

«Sì, oggi farei cose sorprendenti.»

Gli altri sorrisero, e il paesaggista Amaury Maldant, un magrolino, calvo, con barba grigia, disse con arguzia:

«Anch’io ho sempre un ritorno di linfa in aprile, che mi fa spuntare qualche foglia, una mezza dozzina al massimo, poi si fonde in sensibilità; non ci sono mai frutti.»

Il marchese di Rocdiane e il conte di Landa lo compiansero.