Sorgevano rapidi, di ogni sorta, nello stesso tempo, così numerosi che provava la sensazione di una mano che andasse smuovendo la sua memoria limacciosa.
Si domandava perché avvenisse quel ribollio della sua vita trascorsa, che già parecchie altre volte, meno di oggi però, aveva sentito e notato. Esisteva sempre una causa per quelle improvvise rievocazioni, una causa materiale e semplice, un odore, spesso un profumo. Quante volte un abito femminile gli aveva trasmesso passando, con l’effluvio evanescente di una essenza, tutta una serie di episodi cancellati! Anche in fondo a vecchi flaconi di profumi spesso aveva ritrovato particelle della propria esistenza; e tutti gli odori vaganti, quelli delle strade, dei campi, delle case, dei mobili, quelli dolci e quelli cattivi, gli odori caldi delle sere d’estate, quelli freddi delle serate invernali, rianimavano sempre in lui lontane reminiscenze, quasi che le essenze conservassero in sé le cose morte imbalsamate, nella stessa maniera degli aromi che conservano le mummie.
Era l’erba umida o gli ippocastani in fiore, che ravvivavano in quel modo il tempo trascorso? No. Allora, cosa? Doveva forse agli occhi quel risveglio? Cosa aveva visto? Nulla. Fra le persone incontrate, una forse rassomigliava a una figura di un tempo, e, senza averla riconosciuta, scuoteva nel suo cuore tutte le campane del passato.
Non era un suono piuttosto? Molto spesso un piano forte udito per caso, una voce sconosciuta, perfino un organetto di Barberia che suonava su una piazza una vecchia aria, lo avevano bruscamente ringiovanito di vent’anni, gonfiandogli il petto di tenerezze dimenticate. Ma quel richiamo continuava incessante, inafferrabile, quasi irritante. Che c’era intorno a lui, accanto a lui, per ravvivare in tal modo le sue emozioni assopite?
«Fa un po’ fresco,» disse, «andiamocene.»
Si alzarono, e si rimisero a camminare.
Guardavano i poveri seduti sulle panchine, quelli per cui la sedia costituiva una spesa troppo forte.
Annette, ora, li osservava anche lei, e si preoccupava per la loro esistenza, per la loro attività, si stupiva che con un aspetto talmente miserabile, venissero così ad oziare in quel bel giardino pubblico.
E, ancora più di prima Olivier ripercorreva il cammino degli anni trascorsi. Gli sembrava che una mosca gli ronzasse nelle orecchie, e le riempisse del brusio confuso dei giorni trascorsi.
La fanciulla, vedendolo meditabondo, gli domandò:
«Cosa avete? Sembrate triste.»
Ed egli trasalì sino al cuore. Chi aveva pronunciato quelle parole? Lei o sua madre? Non la madre con la voce di ora, ma con la voce di un tempo, talmente cambiata da averla appena riconosciuta.
Rispose sorridendo:
«Non ho nulla, tu mi diverti molto, sei molto graziosa, mi ricordi la tua mamma.»
Come non aver considerato prima quella strana eco della parola un tempo così familiare che usciva ora da quelle nuove labbra!
«Parla ancora,» disse.
«Di che?»
«Dimmi cosa ti hanno insegnato le tue istitutrici. Le volevi bene?»
Ella si rimise a chiacchierare.
Ed egli ascoltava, colto da un turbamento crescente, spiava, attendeva, in mezzo alle frasi di quella ragazzina quasi estranea al suo cuore, una parola, un suono, un riso che sembrassero rimasti in gola fino dalla giovinezza di sua madre. Ogni tanto aveva delle intonazioni che lo facevano fremere di stupore. Certo c’erano fra le loro parole delle diversità tali che egli non ne aveva, subito, notato le relazioni, tali che spesso non le confondeva più assolutamente, ma quella differenza poneva ancora più in rilievo i bruschi richiami del parlare materno. Finora aveva notato la rassomiglianza dei loro volti con occhio amichevole e curioso, ma ecco che il mistero di quella voce ridestata le confondeva in tal modo che, voltando la testa per non vedere la ragazza, si domandava se a volte non era la contessa a parlargli così dodici anni prima.
Poi, quando allucinato da quella evocazione si voltava verso di lei, ritrovava ancora, incontrando il suo sguardo, una parte di quel languore in cui lo gettavano, nei primi tempi del loro amore, le occhiate della madre.
Avevano già fatto tre volte il giro del parco ripassando sempre davanti alle stesse persone, alle stesse balie, agli stessi bambini.
Annette ora esaminava i palazzi che circondavano quel giardino e domandava i nomi di chi li abitava. Voleva sapere tutto su quelle persone, interrogava con avida curiosità, sembrava riempire di notizie la sua memoria di donna, e col volto illuminato dall’interesse ascoltava più con gli occhi che con le orecchie.
Ma, di fronte al padiglione che separa le due porte sul viale esterno, Bertin s’accorse che stavano per suonare le quattro.
«Oh!» disse, «bisogna rientrare.»
E giunsero lentamente al boulevard Malesherbes.
Dopo avere lasciato la fanciulla, il pittore scese verso la place de la Concorde per fare una visita sull’altra riva della Senna.
Canticchiava, aveva voglia di correre, avrebbe volentieri saltato le panchine, tanto si sentiva agile.
Parigi gli sembrava splendente, più bella che mai.
«Decisamente, pensava, la primavera dà una patina nuova a tutto.»
Si trovava in uno di quei momenti in cui l’ingegno svegliato intuisce tutto con maggior piacere, in cui l’occhio vede meglio, e sembra più sensibile e più limpido, in cui si gusta una gioia più viva nel guardare e nel sentire, come se una mano onnipotente avesse ravvivato tutti i colori della terra, rianimato tutti i movimenti degli esseri umani, e ricaricato in noi, come un orologio che si ferma, l’attività delle sensazioni.
Pensava, cogliendo con lo sguardo mille cose gradevoli: «E dire che ci sono momenti in cui non trovo soggetti da dipingere!»
E si sentiva l’ingegno talmente aperto e lungimirante, che tutta la sua attività artistica gli sembrò banale, e pensò d’esprimere la vita in un modo nuovo, più vero e più originale. E ad un tratto venne preso da una voglia di rientrare a casa e di lavorare, ritornò sui suoi passi e si rinchiuse nello studio.
Ma, appena fu solo davanti alla tela incominciata, quell’ardore che poco prima gli bruciava il sangue si placò ad un tratto. Si sentì stanco, sedette sul divano, e si mise a fantasticare.
Quella specie di felice indifferenza in cui viveva, quella noncuranza di uomo soddisfatto per cui quasi tutti i bisogni sono appagati, si allontanava dal suo cuore lentamente, come se qualche cosa gli venisse a mancare. Sentiva la sua casa vuota e il grande studio deserto.
Allora, guardandosi intorno, gli sembrò di intravedere l’ombra di una donna, la cui presenza gli era cara. Da lungo tempo aveva dimenticato le inquietudini dell’amante che attende il ritorno dell’amata, ed ecco che, improvvisamente, la sentiva lontana e la desiderava vicina col sentimento di un giovane.
Provava tenerezza nel ripensare a quanto si erano amati, e ritrovava in tutto quel vasto appartamento, dove ella era così spesso venuta, innumerevoli ricordi di lei, dei suoi gesti, delle sue parole, dei suoi baci. Ricordava certi giorni, certe ore, certi momenti, e sentiva intorno a sé il contatto delle sue carezze.
Si rialzò, non potendo più stare fermo, e si mise a camminare pensando di nuovo che, malgrado quella relazione gli avesse così bene riempito l’esistenza, egli restava molto solo, sempre solo. Dopo le lunghe ore di lavoro, quando si guardava intorno, stordito da quel risveglio dell’uomo che rientra nella vita, non vedeva o non sentiva che i muri alla portata delle sue mani e della sua voce. Aveva dovuto, non avendo una donna in casa e potendo incontrare solo con precauzione da ladro colei che amava, occupare il suo tempo libero in tutti i luoghi pubblici, dove si trovano, si comperano dei mezzi qualunque per riempire le ore. Si era creato delle abitudini al circolo, delle abitudini al circo e all’ippodromo, a giorno fisso, delle abitudini all’Opéra, delle abitudini quasi dappertutto, pur di non rientrare in casa, dove sarebbe rimasto certo con gioia, se avesse potuto vivere accanto a lei. Un tempo, in certi momenti, di voluttuosa ebbrezza, aveva sofferto in modo crudele di non poterla prendere e tenere con sé; poi, il suo ardore si era placato, e aveva accettato, senza ribellarsi, la loro separazione e la sua libertà; in quel momento ne sentiva di nuovo la mancanza, come se avesse ricominciato ad amarla.
E questo ritorno di tenerezza lo investiva così improvvisamente, quasi senza ragione, perché fuori era bel tempo, e forse perché aveva riconosciuto poco prima la voce ringiovanita di quella donna.
Quanto basta poco per commuovere il cuore di un uomo che invecchia, nel quale il ricordo si trasforma in rimpianto!
Come un tempo, sentiva il bisogno di rivederla ed era come una febbre che gli entrava nello spirito e nella carne; e si mise a pensare a lei proprio come fanno i giovani innamorati, esaltandola nel suo intimo ed esaltandosi egli stesso al fine di desiderarla maggiormente; poi prese la decisione, nonostante l’avesse vista il mattino, di andare a chiedere una tazza di tè, quella sera stessa.
Le ore gli sembravano lunghe e uscendo per recarsi al boulevard Malesherbes fu colto dal forte timore di non trovarla e di essere costretto a trascorrere anche quella sera tutto solo, come d’altronde ne aveva passate tante altre.
Alla sua domanda: «La contessa è in casa?» il domestico rispondendogli: «Sì, signore» lo riempì di gioia.
Con voce raggiante disse: «Sono ancora io,» comparendo sulla soglia del salottino dove le due donne stavano lavorando sotto i paralumi rosa di una lampada a doppia fiamma di metallo inglese dal gambo alto e sottile.
La contessa esclamò:
«Come! Siete voi, che fortuna!»
«Ma sì. Mi sono sentito molto solo, e sono venuto.»
«Come siete gentile!»
«Attendete qualcuno?»
«No… forse… non so mai.»
Egli era seduto e guardava con aria sprezzante il lavoro a maglia grigia che stavano confezionando rapidamente con i lunghi ferri di legno.
Domandò:
«Che cos’è?»
«Delle coperte.»
«Per i poveri?»
«Sì, certo.»
«Sono molto brutte!»
«Sono molto calde !»
«È possibile, ma sono bruttissime, specialmente in un appartamento Luigi XV, dove tutto incanta l’occhio. Se non per i vostri poveri, almeno per i vostri amici dovreste rendere la carità più elegante.»
«Mio Dio, gli uomini!» disse alzando le spalle; «ma se ne preparano dappertutto in questo momento di simili coperte.»
«Lo so bene, purtroppo. Non si può più fare una visita la sera senza vedere trascinare questo orribile cencio grigio sugli abiti più graziosi e sui mobili più civettuoli. Questa primavera abbiamo una beneficenza di cattivo gusto.»
La contessa, per vedere se era vero, distese la maglia sulla sedia vuota tappezzata di seta che le stava vicino, poi convenne con indifferenza:
«Sì, in effetti, è brutta.»
E si rimise al lavoro.
Le due teste vicine, chinate sotto le due lampade, ricevevano sui capelli un fascio di luce rosea che si spandeva sull’incarnato dei volti, sulle vesti e sulle mani in movimento, ed esse guardavano il loro lavoro con quella attenzione disinvolta e continua delle donne abituate ai lavori delle dita che l’occhio accompagna mentre il pensiero è altrove.
Ai quattro angoli della stanza quattro lampade di porcellana cinese, sorrette da antiche colonne in legno dorato, spandevano sulle tappezzerie una luce gradevole e uniforme, affievolita dai trasparenti merletti posati sui globi.
Bertin prese una sedia molto bassa, una poltrona nana, nella quale poteva appena sedersi, ma che aveva sempre preferito per conversare con la contessa rimanendo quasi ai suoi piedi.
Ella gli disse: «Avete fatto una lunga passeggiata con Nané, oggi, nel parco.»
«Sì. Abbiamo chiacchierato come vecchi amici. Mi piace molto vostra figlia. Vi assomiglia in tutto.
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