Quando pronuncia certe frasi, si direbbe che abbiate dimenticato la vostra voce nella sua bocca.»
«Mio marito me l’ha già detto parecchie volte.»
Egli le guardava lavorare, immerse nel chiarore delle lampade, e il pensiero per cui spesso soffriva, e per cui aveva sofferto anche quel giorno, l’angoscia della sua casa deserta, immobile, silenziosa, fredda, in qualsiasi periodo, nonostante il calore dei caminetti e dei caloriferi, lo rattristò come se, per la prima volta avesse compreso il suo isolamento.
Oh! Come avrebbe voluto essere davvero il marito di quella donna, e non l’amante! Un tempo aveva desiderato rapirla, prenderla a quell’uomo, rubargliela completamente. Adesso era geloso di quel marito ingannato che sarebbe stato accanto a lei per sempre, nelle abitudini della sua casa e nella dolcezza del suo contatto. Guardandola, si sentiva il cuore colmo di cose passate che affioravano e che avrebbe voluto dirle. Veramente l’amava ancora, anche un poco di più, oggi molto più di un tempo, e il bisogno di esprimerle quel ringiovanimento di cui ella sarebbe stata così contenta, gli faceva desiderare che la fanciulla venisse mandata a dormire il più presto possibile.
Posseduto dal desiderio di restare solo con lei, di avvicinarsi fino alle sue ginocchia sulle quali avrebbe posato la testa, di prenderle le mani dalle quali sarebbe scivolata la coperta dei poveri, i ferri di legno e il gomitolo di lana che sarebbe andato sotto una poltrona, a capo di un filo svolto, guardava l’ora, non parlava più e trovava che davvero non era bene abituare le fanciulle a passare la serata con i grandi. Dei passi turbarono il silenzio del salotto vicino, e apparve la testa del domestico, che annunciò:
«Il signor di Musadieu.»
Olivier Bertin provò un impercettibile impulso di rabbia, e quando strinse la mano dell’ispettore delle belle arti, provò il desiderio di prenderlo per le spalle e gettarlo fuori.
Musadieu era pieno di notizie: il ministero stava per cadere, e si era sparsa la voce di uno scandalo sul marchese di Rocdiane. Soggiunse, guardando la fanciulla: «Ve lo racconterò più tardi.»
La contessa alzò gli occhi alla pendola e notò che erano a momenti le dieci.
«È tempo di andare a dormire, bimba mia,» disse alla figlia.
Annette, senza rispondere, piegò il lavoro a maglia, aggomitolò la lana, baciò la madre sulle guance, porse le mani ai due uomini e andò via lesta quasi scivolando senza smuovere l’aria al suo passaggio.
Appena fu uscita:
«Ebbene, il vostro scandalo?» domandò la contessa.
Si raccontava che il marchese di Rocdiane, separato amichevolmente dalla moglie, che gli pagava una rendita da lui giudicata insufficiente, aveva trovato un modo sicuro e originale per farla raddoppiare. La marchesa, fatta spiare per suo ordine, s’era lasciata sorprendere in flagrante adulterio e aveva dovuto ricomprare con una nuova rendita il verbale steso dal commissario di polizia.
La contessa ascoltava, con sguardo incuriosito, le mani immobili, tenendo sulle ginocchia il lavoro interrotto.
Bertin, esasperato dalla presenza di Musadieu sin da quando la ragazza era uscita, si impazientì, e con lo sdegno di chi è a conoscenza e non ha voluto parlare ad alcuno di quella calunnia, affermò che si trattava di una odiosa menzogna, una vergognosa maldicenza che gli uomini di mondo non dovrebbero mai ascoltare né ripetere. Era adirato, in piedi davanti al caminetto, con l’aria nervosa di chi è disposto a fare di quella storia una questione personale.
Rocdiane era suo amico, e se si era potuto in certi casi rimproverargli la sua leggerezza, non si poteva accusarlo e nemmeno sospettarlo di alcuna azione veramente non chiara. Musadieu, sorpreso e imbarazzato, si difendeva, faceva marcia indietro, si scusava.
«Scusate,» diceva, «ma ho inteso questo racconto poco fa in casa della duchessa di Mortemain.»
Bertin domandò:
«Chi lo ha raccontato? Una donna senza dubbio?»
«No, niente affatto, il marchese di Farandal.»
E il pittore, incollerito rispose:
«Non mi stupisce affatto!»
Ci fu un momento di silenzio. La contessa si rimise a lavorare. Poi Olivier riprese con voce rabbonita:
«So per certo che è falso.»
Non sapeva niente, dal momento che per la prima volta sentiva parlare di quell’avventura.
Musadieu era in procinto di andarsene, avvertendo il pericolo della situazione, e parlava già di voler fare una visita ai Corbelle, quando il conte di Guilleroy apparve, di ritorno da un pranzo.
Bertin sedette di nuovo, esausto, disperando questa volta di sbarazzarsi del marito.
«Sapete,» disse il conte, «del grande scandalo che circola stasera?»
Poiché nessuno rispondeva, continuò:
«Sembra che Rocdiane abbia sorpreso la moglie in conversazione colpevole e che le voglia far pagare assai cara questa indelicatezza.»
Allora Bertin, con aria afflitta, con un’amarezza che si rifletteva nella voce e nei gesti, posando una mano sul ginocchio di Guilleroy, ripeté in termini amichevoli e pacati quanto aveva poco prima quasi gettato in faccia a Musadieu.
E il conte, in parte convinto, seccato di avere ripetuto con sconsideratezza una cosa infondata e forse compromettente, scusava la propria ignoranza e la propria innocenza. Si raccontano infatti tante cose false e cattive!
Subito tutti furono d’accordo sul fatto che la gente accusa, sospetta e calunnia con deplorevole facilità. E tutti e quattro sembrarono convinti, per cinque minuti, che tutti i pettegolezzi sono menzogne, che le donne non hanno mai gli amanti che le si attribuiscono, che gli uomini non commettono mai gli atti infamanti di cui vengono accusati, e che la superficie, insomma, è molto peggio del fondo.
Bertin, che non era più seccato con Musadieu da quando era arrivato Guilleroy, gli disse parole adulatrici, portò la conversazione sui soggetti da lui preferiti, aprì la valvola della sua facondia. E il conte, soddisfatto, aveva la sensazione di essere un uomo che dovunque porta con sé calma e cordialità.
Due domestici, avvicinatisi con passo reso silenzioso dai tappeti, entrarono portando il tavolino del tè sul quale l’acqua bollente fumava dentro un grazioso apparecchio lucidissimo, sulla fiamma azzurrognola di una lampada a spirito.
La contessa si alzò, preparò la bevanda calda con le precauzioni e le avvertenze insegnate dai russi, poi offrì una tazza a Musadieu, un’altra a Bertin, e ritornò con dei piatti di sandwichs di foie gras, e piccoli pasticcini austriaci e inglesi.
Il conte, avvicinatosi al tavolino portatile sul quale erano allineati anche sciroppi, liquori e bicchieri, si fece un grog, e poi discretamente, passò nella stanza vicina e scomparve.
Bertin si trovò nuovamente solo di fronte a Musadieu, e subito venne colto dal desiderio di cacciare fuori quel seccatore che, ormai in vena, perorava, seminava aneddoti, ripeteva battute, e egli stesso ne creava. E il pittore continuamente guardava la pendola, la cui lancetta lunga si avvicinava alla mezzanotte. La contessa vide il suo sguardo, comprese che voleva parlarle, e con quel tatto speciale delle donne di mondo, che sanno cambiare gradatamente il tono di una conversazione e l’atmosfera di un salotto, e far comprendere, senza dire nulla, quando si deve restare o quando è meglio andar via, diffuse, con il suo atteggiamento, con l’espressione del viso e la stanchezza degli occhi, un senso di freddezza attorno a sé, come se avesse aperto una finestra. Musadieu percepì quella corrente di aria che raggelava le sue idee, e senza domandarsene il perché, sentì la voglia di alzarsi e di andarsene.
Bertin, per educazione, imitò il suo gesto. I due uomini andarono via insieme, traversando i due salotti, seguiti dalla contessa che parlava sempre col pittore. Essa lo trattenne sulla soglia dell’anticamera per una qualsiasi spiegazione, mentre Musadieu, aiutato da un domestico, indossava il soprabito. Dato che la signora di Guilleroy seguitava a parlare sempre con Bertin, l’ispettore delle belle arti, dopo avere atteso qualche secondo davanti alla porta della scala tenuta aperta dall’altro domestico, si decise ad uscire unicamente per non restare in piedi dinanzi al cameriere.
La porta venne chiusa dolcemente dietro a lui e la contessa disse all’artista con perfetta disinvoltura:
«Ma, in fondo, perché andate via così presto? Non è ancora mezzanotte. Restate dunque ancora un poco.»
E rientrarono insieme nel salottino.
Appena si furono seduti:
«Dio! come mi ha irritato quell’animale,» disse.
«E perché?»
«Mi prendeva un poco di voi.»
«Oh! non molto.»
«È possibile, ma mi infastidiva.»
«Siete geloso?»
«Non è necessario essere gelosi per trovare che un uomo è di troppo.»
Aveva occupato di nuovo la sua poltroncina, e stavolta accanto a lei, maneggiava con le dita la stoffa del suo abito parlandole del soffio caldo che gli era passato nel cuore quel giorno.
Essa l’ascoltava, sorpresa, rapita, e posò con dolcezza una mano nei suoi capelli bianchi che accarezzava lievemente, come per ringraziarlo.
«Vorrei tanto vivere accanto a voi!» le disse. Pensava sempre a quel marito coricato, senza dubbio addormentato in una camera vicina, e soggiunse:
«Veramente non c’è che il matrimonio per unire due esistenze.»
Essa mormorò:
«Povero amico!» Piena di compassione per lui e anche per se stessa.
Egli aveva posato la guancia sulle ginocchia della contessa, e la guardava, con tenerezza un poco malinconica, un poco dolorosa, meno ardente di poc’anzi quando lo separavano da lei la figlia, il marito e Musadieu.
Ella disse, con un sorriso, facendo scorrere le dita leggere sulla testa di Olivier:
«Dio, come siete bianco! I vostri ultimi capelli neri sono scomparsi.»
«Ahimè! lo so, se ne vanno rapidamente.»
Ella ebbe timore di averlo rattristato.
«Oh! d’altronde eravate grigio anche da giovane. Io vi ho sempre conosciuto sale e pepe.»
«Sì, è vero.»
Per cancellare del tutto la sfumatura di tristezza suscitata, ella si chinò e sollevandogli la testa fra le due mani, coprì la sua fronte di baci languidi e teneri, quei lunghi baci che sembrano non dover avere mai fine.
Poi si guardarono, cercando di vedere nel fondo degli occhi il riflesso del loro affetto.
«Vorrei davvero,» disse, «passare un’intera giornata accanto a voi.»
Egli si sentiva afflitto in modo oscuro da un indefinibile bisogno di intimità.
Aveva creduto, poco prima, che la partenza dei presenti sarebbe bastata per realizzare il desiderio destato sin dal mattino, ma ora che era solo con la sua amante, che aveva sulla fronte il tepore delle sue mani, e contro la guancia, attraverso il vestito, il tepore del corpo, ritrovava in sé il medesimo turbamento, lo stesso desiderio d’amore sconosciuto e inafferrabile.
E si immaginava che, fuori di quella casa, forse nei boschi dove sarebbero stati completamente soli, senza nessuno attorno, quell’inquietudine del cuore si sarebbe appagata e attutita.
Ella rispose. «Come siete infantile! Ma se ci vediamo quasi tutti i giorni.»
La supplicò di trovare il modo di andare a colazione con lui, in qualche luogo nei dintorni di Parigi, come avevano già fatto quattro o cinque volte.
Ella si stupì di quel capriccio, così difficile da realizzare, ora che la figlia era tornata.
Avrebbe provato, tuttavia, non appena il marito fosse andato ai Ronces, ma sarebbe stato possibile solo dopo l’inaugurazione del sabato seguente.
«E prima di allora,» disse, «quando vi vedrò?»
«Domani sera, dai Corbelle. Venite poi qui giovedì, alle tre, se siete libero; poi credo che dovremo pranzare insieme venerdì dalla duchessa.»
«Sì, perfettamente.»
Egli si alzò.
«Addio…»
«Addio, amico mio.»
Egli restava in piedi senza decidersi ad andarsene, poiché non aveva potuto esternarle quasi nulla di quanto era venuto a dirle, e la sua mente restava colma di cose inespresse gonfia di vaghe effusioni che non erano scaturite.
Prendendole le mani ripeté:
«Addio.»
«Addio, amico mio.»
«Vi amo.»
Ella gli rivolse uno di quei sorrisi con cui una donna manifesta a un uomo, in un secondo, tutto ciò che gli ha dato.
Con animo appassionato, le ripeté per la terza volta:
«Addio.»
E andò via.
IV
Si sarebbe detto che, quel giorno tutte le carrozze di Parigi facessero un pellegrinaggio al palazzo dell’Industria. Sin dalle nove di mattina, arrivavano da tutte le vie, dai viali e dai ponti, verso quella sala delle belle arti dove il meglio della Parigi artistica invitava il meglio della Parigi mondana ad assistere all’inaugurazione di tremilaquattrocento quadri.
La folla faceva la coda alle porte, e, ignorando la scultura, si dirigeva direttamente alle gallerie di pittura. Già, mentre salivano i gradini, tutti alzavano gli occhi verso le tele esposte sui muri della scala, dove era situata la categoria speciale dei pittori da ingresso, in cui sono compresi coloro che avevano inviato sia opere di proporzioni insolite sia opere che non avevano avuto il coraggio di rifiutare. Il salone quadrato era tutto brulicante di gente eccitata e rumorosa. I pittori, presenti fino alla sera, erano riconoscibili dalla loro agitazione, dal timbro della voce, dall’autorità degli atteggiamenti. Iniziavano col trascinare gli amici per la manica verso i quadri che indicavano col braccio, con esclamazioni e una mimica sicura da conoscitore.
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