Se ne vedevano di ogni specie, alcuni alti con i capelli lunghi, cappelli mosci, grigi o neri, dalle forme indefinibili, larghi e rotondi come un tetto, con le falde piegate che ombreggiavano la figura intera. Altri piccoli, attivi, smunti o tarchiati, con foulard, vestiti con casacche o infagottati in particolari costumi tipici degli artisti squattrinati.

C’era il clan degli eleganti, degli impomatati, degli artisti del boulevard, il clan degli accademici, corretti e decorati con rosette rosse, enormi o microscopiche, a seconda del modo di concepire l’eleganza e le belle maniere, il clan dei pittori borghesi assistiti dalla famiglia stretta attorno al padre come un coro trionfale.

Sui quattro pannelli giganteschi, le tele ammesse all’onore del salone quadrato abbagliavano sin dall’entrata, per la luminosità delle tinte e lo sfavillio delle cornici, per la crudezza dei colori nuovi resi più vivi dalla vernice, accecanti sotto la luce violenta che cadeva dall’alto.

Il ritratto del presidente della repubblica era di fronte alla porta, mentre su un altro muro, un generale con i galloni d’oro, un cappello con piume di struzzo e calzoni di panno rosso, si trovava vicino ad alcune ninfe completamente nude sotto i salici e ad una nave in difficoltà, quasi inghiottita da un’onda. Un vescovo di altri tempi che scomunica un re barbaro, una strada orientale cosparsa di cadaveri di appestati, e l’ombra di Dante che si aggira per l’inferno, colpivano e trattenevano l’attenzione con una irresistibile violenza di espressione.

Si vedeva ancora, nel locale immenso, una carica di cavalleria, dei tiratori in un bosco, vacche al pascolo, due gentiluomini del secolo scorso che si battono in duello all’angolo di una via, una pazza seduta su una pietra miliare, un prete che dà i sacramenti a un moribondo, fiumi, un tramonto, mietitori, chiari di luna, un campionario insomma di tutto ciò che hanno fatto, di tutto ciò che fanno, di tutto ciò che faranno i pittori sino alla fine del mondo.

Olivier, in mezzo ad un gruppo di celebri colleghi, membri dell’Istituto e della giuria, scambiava pareri con essi. Era oppresso da un’ansia, da una inquietudine per l’opera che aveva esposto e della quale, nonostante le calorose felicitazioni, non capiva il successo.

Si slanciò. La duchessa di Mortemain era apparsa sulla porta d’ingresso.

Essa gli domandò:

«Non è arrivata la contessa?»

«Non l’ho vista.»

«E il signor di Musadieu?»

«Neanche lui.»

«Mi aveva promesso che si sarebbe trovato alle dieci in cima alla scala per guidarmi nelle sale.»

«Duchessa, volete permettermi di sostituirlo?»

«No, no. I vostri amici hanno bisogno di voi. Ci rivedremo tra poco, perché spero che faremo colazione insieme.»

Musadieu accorreva. Era stato trattenuto alcuni minuti nella galleria della scultura e si scusava, già trafelato. E disse:

«Di qua, duchessa, di qua, cominciamo da destra.» Erano appena spariti in un ondeggiare di teste, quando la contessa di Guilleroy, tenendo per il braccio la figlia, entrò, cercando con lo sguardo Olivier Bertin.

Questi le vide, le raggiunse, e salutandole:

«Dio, come siete belle!» disse. «Davvero, Nanette è diventata molto più bella. In otto giorni è cambiata.»

Egli la guardava con occhio osservatore. E soggiunse:

«lineamenti si sono più addolciti e affusolati, il colorito più luminoso. È già molto meno bambina e molto più parigina.»

Ma subito ritornò al grande avvenimento del giorno.

«Cominciamo da destra, così raggiungeremo la duchessa.»

La contessa, perfettamente al corrente su quanto riguardava la pittura e preoccupata come un espositore, domandò:

«Cosa si dice?»

«Bel salone. Il Bonnat è notevole, due eccellenti Carolus Duran, un Puvis de Chavannes ammirevole, uno sbalorditivo Roll nuovissimo, uno squisito Gervex, e molti altri, Béraud, Cazin Duez, insomma un mucchio di belle cose.»

«E voi?» gli disse.

«Mi fanno dei complimenti, ma non sono contento.»

«Voi non siete mai contento.»

«Sì, qualche volta. Ma oggi, in verità, credo di aver ragione.»

«Perché?»

«Non so nulla.»

«Andiamo a vedere.»

Quando arrivarono dinanzi al quadro - due contadinelle che si bagnavano in un ruscello - un gruppo era fermo ad ammirarlo. Essa ne fu felice, e a bassa voce:

«Ma è delizioso, un gioiello,» disse, «non avete mai fatto nulla di meglio.»

Egli si stringeva a lei, amandola, riconoscente per ogni parola che affievoliva una sofferenza, che medicava una piaga. E nella mente gli corsero rapidi pensieri che lo convinsero come lei avesse ragione, come dovesse avere visto giusto con i suoi occhi intelligenti di parigina. Dimenticava, per rassicurare i propri timori, che da dodici anni egli appunto le rimproverava di ammirare troppo le leziosaggini, le raffinatezze eleganti, i sentimenti sfruttati, le sfumature bastarde della moda, e mai l’arte, l’arte sola, l’arte liberata dalle idee, dalle tendenze, dai pregiudizi mondani.

Guidandole più lontano: «Continuiamo,» disse. E le condusse per molto tempo di sala in sala, mostrando le tele, spiegando i soggetti, felice di essere tra loro, reso felice da loro.

Ad un tratto la contessa domandò:

«Che ora è?»

«Mezzogiorno e mezzo.»

«Oh! andiamo presto a colazione. La duchessa deve aspettarci da Ledoyen, dove mi ha incaricato di condurvi se non l’avessimo trovata nelle sale.»

Il ristorante, in mezzo a un isolotto di alberi e di arbusti, sembrava un alveare troppo pieno e vibrante. Un ronzio confuso di voci, di chiamate, di tintinnii di bicchieri e piatti, si spandeva intorno, usciva da tutte le finestre e da tutte le grandi porte aperte.

Le tavole, una vicina all’altra, circondate da gente che stava mangiando, erano state distribuite in lunghe file a destra e a sinistra dello stretto passaggio dove i camerieri correvano storditi, agitati, tenendo, col braccio teso, vassoi colmi di carne, pesci o frutta.

Sotto la galleria circolare c’era un tale numero di uomini e donne che parevano formare un impasto vivente. E tutti ridevano, chiamavano, bevevano e mangiavano, resi spensierati dal vino, inondati dalla felicità che scende su Parigi, in certi giorni, insieme al sole.

Un cameriere fece salire la contessa, Annette e Bertin nel salotto riservato dove li attendeva la duchessa.

Entrando, il pittore scorse, accanto alla zia, il marchese di Farandal, premuroso e sorridente, che tendeva le braccia per ricevere gli ombrellini e i mantelli della contessa e di Annette. Ne provò un tale dispiacere, che ebbe voglia, improvvisamente, di dire cose sgradevoli e cattive.

La duchessa spiegava come si era svolto l’incontro con il nipote e il commiato con Musadieu, portato via dal ministro delle belle arti, e Bertin, al pensiero che Annette avrebbe dovuto sposare quel bellimbusto di marchese il quale, era venuto per lei e la guardava come già destinata al suo letto, si innervosiva e si ribellava come se i suoi diritti, diritti misteriosi e sacri, fossero stati misconosciuti.

Appena furono a tavola, il marchese, seduto accanto alla fanciulla, si occupò di lei con quell’aria premurosa degli uomini autorizzati a fare la corte.

Aveva certi sguardi curiosi che al pittore sembravano audaci e indagatori, sorrisi quasi teneri e soddisfatti, una galanteria familiare e ufficiale. Nei modi e nelle parole appariva già qualcosa di deciso, come l’annuncio di una prossima presa di possesso.

La duchessa e la contessa sembravano proteggere e approvare quel comportamento da pretendente, e si scambiavano occhiate di complicità. Subito dopo colazione, tornarono all’esposizione. Nelle sale c’era una tale mischia di gente che pareva impossibile introdursi. Un calore umano, un odore dolciastro di pelli e di abiti invecchiati sui corpi, rendevano l’atmosfera nauseante e insopportabile.

Non si guardavano più i quadri, ma i volti e gli abiti; si cercavano le persone conosciute, e ogni tanto una pressione si produceva in mezzo a quella fitta moltitudine che, per un momento, si scostava per lasciar passare l’alta scala doppia dei verniciatori che gridavano: «Attenzione signori; attenzione signore.»

Dopo cinque minuti, la contessa e Olivier si trovarono separati dagli altri. Egli voleva cercarli, ma lei disse, sostenendosi a lui:

«Non stiamo bene? Lasciamoli dunque, poiché siamo d’accordo che, se ci perdiamo, ci troveremo alle quattro al buffet.»

«È vero,» disse lui.

Ma era preso dal pensiero che il marchese si trovasse in compagnia di Annette, e continuasse a intrattenerla con fatuità galante.

La contessa mormorò:

«Allora mi amate ancora?»

Egli rispose con aria preoccupata:

«Ma sì, certamente.»

E cercava, al di sopra delle teste, di distinguere il cappello grigio di Farandal.

Sentendolo distratto, e volendo riportare su di lei la sua attenzione, ricominciò:

«Se sapeste come adoro il vostro quadro di quest’anno! E il vostro capolavoro.»

Egli sorrise, dimenticando subito i giovani, per non ricordarsi che della inquietudine del mattino.

«Davvero? Vi pare?»

«Sì, lo preferisco a tutti.»

«Mi ha dato molto da fare.»

Essa lo osannò di nuovo, con parole carezzevoli, ben sapendo, da molto tempo, che per un artista niente è più importante dell’adulazione tenera e continua. Accattivato, risollevato, rallegrato da quelle parole dolci, ricominciò a conversare, non vedendo che lei, non ascoltando che lei, in quella grande ressa ondeggiante.

Per ringraziarla, le mormorò in un orecchio:

«Ho una folle voglia di baciarvi.»

Essa venne invasa da un’eccitazione appassionata, e alzando su lui gli occhi scintillanti, ripeté la domanda:

«Allora, mi amate ancora?»

Ed egli rispose, con l’intonazione che essa voleva e che non aveva affatto sentito prima:

«Sì, vi amo, cara Any.»

«Venite spesso a trovarmi la sera,» ella disse. «Adesso che ho mia figlia, non uscirò molto.»

Da quando aveva inteso in lui quel risveglio inaspettato di tenerezza, era agitata da una grande felicità.

Con i capelli bianchi di Olivier e l’acquietamento degli anni, ora temeva meno che venisse sedotto da un’altra donna, ma aveva una terribile paura che volesse sposarsi, per orrore della solitudine.