Questa paura, già vecchia, aumentava senza posa, faceva nascere nella mente di lei espedienti irrealizzabili per averlo il più possibile vicino, ed evitare che trascorresse lunghe sere nel freddo silenzio della sua casa vuota. Non potendo sempre invitarlo e trattenerlo, gli suggeriva distrazioni, lo mandava a teatro, lo spingeva in società, preferendo saperlo in mezzo alle donne, piuttosto che nella tristezza della sua casa.
Ella soggiunse, rispondendo al suo segreto pensiero:
«Oh, se potessi tenervi sempre con me, come vi vizierei! Promettetemi di venire spessissimo, poiché io non uscirò mai più.»
«Ve lo prometto.»
Una voce le mormorò, vicino all’orecchio:
«Mamma.»
La contessa trasalì e si voltò.
Annette, la duchessa e il marchese li avevano raggiunti.
«Sono le quattro,» disse la duchessa, «mi sento molto affaticata e ho voglia di andarmene.»
La contessa soggiunse:
«Anch’io me ne vado, non ne posso più.»
Raggiunsero la scala interna che parte dalle gallerie dei disegni e degli acquerelli, e domina l’immenso giardino dalle pareti di vetro dove erano esposte le sculture.
Dalla piattaforma di questa scala, si scorgeva da un capo all’altro la gigantesca serra piena di statue situate nei passaggi, attorno ai gruppi di arbusti verdi, e al di sopra la folla che copriva il suolo dei viali come una marea ondeggiante e nera.
I marmi spiccavano su quella coltre scura di cappelli e spalle, forandola in mille parti e sembravano luminosi, tanto erano bianchi.
Mentre Bertin salutava le dame sulla porta di uscita, la signora di Guilleroy gli domandò a bassa voce:
«Dunque, stasera venite?»
«Ma sì.»
E rientrò nell’esposizione per parlare con gli artisti sulle impressioni della giornata.
I pittori e gli scultori si erano raggruppati attorno alle statue, di fronte al buffet, e discutevano, come tutti gli anni, sostenendo o attaccando le stesse idee, con gli stessi argomenti, su opere quasi uguali. Olivier, che normalmente si animava in queste discussioni, avendo la prerogativa delle risposte e degli attacchi sconcertanti, e una reputazione di teorico arguto di cui andava fiero, fece di tutto per appassionarsi, ma ciò che rispondeva per consuetudine non lo interessava più di quello che ascoltava, e aveva voglia di andarsene, di non ascoltare più, di non capire oltre poiché sapeva già cosa si sarebbe detto su quelle vecchie questioni artistiche delle quali conosceva tutti gli aspetti.
Eppure, amava queste cose, o le aveva amate sino ad allora in maniera quasi esclusiva: ma quel giorno era distratto da una preoccupazione sottile ma tenace, una di quelle piccole inquietudini che sembrano non doverci riguardare, ma che sono là, malgrado tutto, per quanto si dica o si faccia, attaccate al pensiero come una spina invisibile conficcata nella carne.
Aveva addirittura dimenticato la sua preoccupazione per le Bagnanti per ricordarsi solamente dell’importuno contegno del marchese nei confronti di Annette. Cosa gli importava dopo tutto? Aveva forse qualche diritto? Perché avrebbe dovuto impedire quel ragguardevole matrimonio, deciso in precedenza e conveniente sotto tutti i punti? Ma nessun ragionamento poteva cancellare quell’impressione di inquietudine e di insoddisfazione che l’aveva preso vedendo Farandal parlare e sor ridere come fidanzato, che accarezza con lo sguardo il viso della fanciulla.
La sera, quando entrò dalla contessa e la trovò sola con la figlia, che continuavano a lavorare, alla luce delle lampade, per i poveri, a fatica si trattenne dal fare osservazioni derisorie e cattive sul conto del marchese, e di svelare agli occhi di Annette tutta la sua banalità velata di eleganza. Da lungo tempo, in quelle visite dopopranzo, aveva spesso dei silenzi un po’ sonnolenti e le pose rilassate del vecchio amico che non ha più soggezione. Sprofondato nella poltrona, le gambe incrociate, la testa all’indietro, fantasticava parlando, e riposava, in quella tranquilla intimità, il corpo e la mente.
Ma ecco che, d’improvviso, gli tornarono quel risveglio e quell’agitazione dell’uomo che si dà da fare per piacere, che si preoccupa di ciò che dice la gente e che davanti a certe persone ricerca parole più brillanti o più inconsuete per impreziosire i suoi concetti e renderli civettuoli. Non lasciava più che la conversazione si trascinasse, ma la sosteneva e la ravvivava, incitandola con il suo spirito, e, quando faceva ridere di cuore la contessa e sua figlia, o quando interrompevano il lavoro per ascoltarlo, provava una sensazione di piacere, un piccolo brivido di successo che lo ricompensava della fatica.
Ritornava adesso ogni volta che le sapeva sole e forse mai aveva trascorso serate così gradevoli.
La signora di Guilleroy, i cui timori costanti erano calmati da questa assiduità, faceva ogni sforzo per attirarlo e trattenerlo. Rifiutava pranzi, balli, rappresentazioni, pur di avere la gioia di gettare nella cassetta del telegrafo, uscendo alle tre, il piccolo dispaccio azzurro che diceva: «A fra poco.» I primi tempi, volendo con cedergli più presto il colloquio intimo che egli desiderava, mandava la figlia a coricarsi appena cominciavano a suonare le dieci. Poi, un giorno, essendo lui rimasto sorpreso e avendo chiesto ridendo che Annette non fosse più trattata come una bambina disobbediente, concesse un quarto d’ora di grazia, poi mezz’ora, poi un’ora. D’altronde egli non si tratteneva molto tempo dopo il commiato della ragazza come se la metà del fascino, che lo teneva in quel salotto, andasse via con lei. Accostando allora ai piedi della contessa la poltroncina bassa da lui preferita, sedeva vicino a lei e posava, di quando in quando, con fare tenero, una guancia sulle sue ginocchia. Lei gli dava una mano che Olivier teneva tra le sue, e placatasi d’improvviso la frenesia, egli cessava di parlare e sembrava riposarsi in un tenero silenzio per lo sforzo che aveva fatto.
A poco a poco comprese perfettamente, con il suo istinto femminile che Annette lo attirava quasi quanto lei stessa. Non ne fu affatto seccata, felice che lui potesse trovare fra loro quella parte di famiglia di cui l’aveva privato; e lo imprigionava il più possibile tra loro due, interpretando il ruolo della mamma, perché lui potesse supporsi quasi il padre di quella bambina, e perché una nuova sfumatura di tenerezza si aggiungesse a tutto ciò che lo legava a quella casa.
La sua civetteria, sempre all’erta, ma impensierita da quando aveva avvertito da tutte le parti, come delle fitte quasi impercettibili, gli innumerevoli attacchi dell’età, era diventata più operosa. Per essere snella come Annette, seguitava a non bere più, e l’effettivo dimagramento le aveva restituito, infatti, una figura da ragazzina, tanto che, viste di dietro si distinguevano appena; ma il volto dimagrito risentiva di quella dieta. La pelle tirata si era raggrinzita e aveva assunto un colore giallognolo che rendeva più fulgente la superba freschezza della fanciulla. Allora ebbe cura del suo viso con i sistemi usati dalle attrici, e mentre di giorno il suo biancore appariva in tale maniera un poco sospetto, alla luce artificiale otteneva quello splendore artefatto e affascinante che attribuisce alle donne ben truccate una carnagione incomparabile.
La constatazione di quella decadenza e l’uso di quell’accorgimento modificarono le sue abitudini. Evitò il più possibile i confronti in pieno sole, ricercandoli invece alla luce delle lampade, che le conferivano un vantaggio. Quando si sentiva affaticata, pallida, più invecchiata del solito, si faceva venire delle emicranie compiacenti che le impedivano di recarsi ai balli o agli spettacoli; ma i giorni in cui si sentiva bella, trionfava e giocava a fare la sorella maggiore con una modestia grave di giovane madre.
Per indossare sempre abiti quasi uguali a quelli della figlia, le regalava toilettes adatte per una giovane donna, troppo serie per lei, ma Annette, che rivelava sempre più un carattere giovanile e allegro, le portava con vivacità brillante, che la rendeva ancora più carina. Si prestava con esultanza ai maneggi della civetteria materna, recitava con lei, istintivamente, graziose scenette, sapeva abbracciarla a tempo giusto, cingerle la vita con tenerezza, dimostrarle con un gesto, una carezza, una ingegnosa trovata, quanto fossero belle tutte e due, e quanto si rassomigliassero.
C’erano momenti in cui Olivier Bertin, a forza di vederle insieme e di confrontarle incessantemente, giungeva quasi a confonderle.
Talvolta, se la ragazza gli parlava mentre lui guardava altrove, era costretto a domandare: «Chi ha parlato?» Spesso, anche, si divertiva con il gioco della confusione, quando erano soli tutti e tre nel salotto dalle tappezzerie Luigi XV. Chiudeva allora gli occhi, e le pregava di rivolgergli uno stesso quesito, prima una poi l’altra, quindi cambiavano la disposizione delle domande, per vedere se riconosceva le voci. Esse sapevano trovare così bene le stesse intonazioni, e dire le stesse frasi con gli stessi accenti, che spesso non indovinava. Erano infatti arrivate a parlare in modo talmente identico, che i domestici rispondevano: «Sì, signora» alla figlia e «Sì, signorina,» alla madre.
A forza di imitarsi per divertimento, e di copiare i rispettivi movimenti, avevano acquisito una tale somiglianza di modi e di gesti, che lo stesso signor di Guilleroy, quando vedeva passare una delle due sullo sfondo scuro del salotto, le confondeva continuamente, e domandava: «Sei tu, Annette, o è tua madre?»
Da questa rassomiglianza naturale e voluta, reale e meditata, era sorta nello spirito e nel cuore del pittore, la strana impressione di un essere duplice, vecchio e nuovo, conosciutissimo e quasi ignorato, di due corpi formati, uno dopo l’altro, con la stessa carne, della stessa donna che si perpetuava, ringiovaniva, ridiventava quella che era stata. E viveva accanto a loro, diviso tra le due, inquieto, turbato, provando un entusiasmo risvegliato per la madre, e coprendo la figlia di una oscura tenerezza.
PARTE SECONDA
I
Parigi, 20 luglio, ore 11 di sera.
Caro amico, mia madre è appena morta a Roncières. Partiamo a mezzanotte. Non venite perché non avvertiamo nessuno. Ma compiangetemi e pensate a me.
Vostra Any
21 luglio, mezzogiorno.
Mia povera amica, sarei partito contro la vostra volontà, se non fossi abituato a considerare i vostri desideri come ordini.
Da ieri penso a voi con dolore intenso. Penso al viaggio taciturno che avete fatto questa notte davanti a vostra figlia e a vostro marito, in quel vagone appena rischiarato che vi conduceva verso la vostra morta. Vi ho visti tutti e tre sotto la lampada ad olio, voi piangente, e Annette singhiozzante. Ho visto l’arrivo alla stazione, l’orribile tragitto in carrozza, l’ingresso nel castello in mezzo ai domestici, il vostro slanciarvi sulle scale verso quella camera, verso quel letto dove essa è distesa, il vostro primo sguardo su di lei, il vostro bacio sul suo volto magro e immobile. E ho pensato al vostro cuore, al vostro povero cuore, a quel povero cuore che per metà mi appartiene e che si spezza, che soffre tanto, che respira a fatica e che anche a me fa tanto male in questo istante.
Bacio con profonda tenerezza i vostri occhi pieni di lacrime.
Olivier
Roncières, 24 luglio.
La vostra lettera mi avrebbe fatto del bene, amico mio, se qualcosa potesse farmi del bene, in questa disgrazia orribile che si è abbattuta su di me.
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