Gli anelli brillavano sulle bianche dita, e le unghie rosa, molto affusolate sembravano amorosi artigli comparsi sulla punta di quella aggraziata zampa femminile. Olivier Bertin, dolcemente, l’accarezzava, ammirandola.

Faceva muovere le dita come giocattoli di carne, e diceva: «Che cosa curiosa! Che cosa curiosa! Che delicato piccolo membro, intelligente, agile, che eseguisce tutto ciò che si vuole, libri, pizzi, case, piramidi, locomotive, pasticcini o carezze, che sono ancora la loro migliore attività.»

Le toglieva gli anelli uno ad uno, e poiché la fede, un filo d’oro, a sua volta cadde, egli mormorò sorridendo:

«La legge! Inchiniamoci.»

«Sciocco,» ella disse un poco impermalita.

Egli aveva sempre avuto uno spirito beffardo, quella tendenza francese che mescola un’apparenza d’ironia con i sentimenti più seri, e spesso la rattristava senza volerlo, senza saper afferrare le distinzioni sottili dell’animo femminile, e discernere i limiti dei compartimenti sacri, come egli diceva. Si stizzìva specialmente ogni volta che lui parlava con una sfumatura di scherzo familiare della loro relazione così lunga che egli affermava essere il più bell’esempio d’amore del secolo XIX.

Dopo un breve silenzio domandò:

«Condurrete, Annette e me all’inaugurazione?»

«Lo credo bene.»

Allora lo interrogò sulle migliori tele del prossimo Salon, la cui apertura doveva avere luogo tra quindici giorni.

Ma improvvisamente ricordandosi forse di una commissione dimenticata:

«Andiamo, datemi la scarpa. Me ne vado.»

Egli giocava, meditabondo, con la leggera calzatura, voltandola, rivoltandola, tra le mani distratte.

Si chinò, baciò il piede che sembrava fluttuare tra l’abito e il tappeto, e che non si muoveva più, un poco raffreddato dall’aria, poi lo calzò, e la signora di Guilleroy, alzatasi, andò verso il tavolo su cui giacevano alla rinfusa carte, lettere aperte, vecchie e recenti, vicino ad un calamaio da pittore, in cui il vecchio inchiostro si era seccato. Guardava con curiosità, toccava i fogli, li sollevava per guardare sotto.

Egli avvicinandosi disse:

«State guardando il mio disordine.»

Senza rispondere, gli domandò:

«Chi è questo signore che vuole comprare le Bagnanti

«Un americano che non conosco.»

«Vi siete messo d’accordo per la Cantante di strada

«Sì. Diecimila.»

«Avete fatto bene. È una tela graziosa, ma non eccezionale. Addio caro.»

E porse la guancia, che egli sfiorò con un tranquillo bacio, poi sparì dietro la tenda dopo avere detto a mezza voce:

«Venerdì, alle otto. Non voglio assolutamente che mi accompagniate. Lo sapete bene. Addio.»

Appena uscita, si accese prima di tutto una sigaretta, poi si rimise a camminare lentamente per lo studio. Tutto il passato di quella relazione si svolgeva dinanzi a lui. Ricordava lontani particolari scomparsi, li ricercava unendoli uno all’altro, interessandosi così, da solo, a quella caccia ai ricordi.

Era il momento in cui era sorto come un astro sull’orizzonte della Parigi artistica, quando i pittori si erano accaparrati tutto il favore del pubblico, e popolavano un quartiere di palazzi magnifici guadagnati con pochi tocchi di pennello.

Bertin, dopo il ritorno da Roma nel 1864, aveva vissuto alcuni anni senza successo e senza fama; poi, improvvisamente, nel 1868, espose Cleopatra, e in pochi giorni venne portato alle stelle dalla critica e dal pubblico.

Nel 1872, terminata la guerra, dopo che la morte di Henry Regnault ebbe dato a tutti i suoi confratelli una specie di piedistallo di gloria, una Giocasta, soggetto spinto, classificò Bertin fra gli audaci, benché il risultato, prudentemente originale, lo facesse apprezzare anche dagli accademici. Nel 1873, una prima medaglia lo mise fuori concorso per la Ebrea di Algeri, dipinta di ritorno da un viaggio in Africa; e un ritratto della principessa di Salia nel 1874 lo fece considerare nella società elegante il primo ritrattista dell’epoca.

Da quel giorno, divenne il pittore preferito della parigina e delle parigine, l’interprete più accorto e più abile della loro grazia, delle loro forme, del loro carattere. In pochi mesi tutte le donne in vista di Parigi sollecitarono il favore di essere ritratte da lui. Egli si mostrò difficile, e si fece pagare carissimo.

Ora, poiché era alla moda, e faceva visite, come un autentico uomo di mondo, notò un giorno, in casa della duchessa di Mortemain, una giovane donna in lutto stretto, che usciva proprio mentre lui entrava, questo incontro su una porta l’abbagliò come una leggiadra visione di grazia ed eleganza.

Avendo domandato il suo nome, apprese che era la contessa di Guilleroy, moglie di un signorotto normanno, agronomo e deputato, che portava il lutto per il suocero, che era spiritosa, ammiratissima e ricercata.

Ancora turbato da quella apparizione, che aveva sedotto il suo occhio di artista, egli disse: «Ah! ecco una donna cui farei volentieri il ritratto.»

La frase fu ripetuta l’indomani alla giovane donna, ed egli ricevette la stessa sera un biglietto azzurro, leggermente profumato, con una calligrafia regolare e fine, che saliva da sinistra a destra e che diceva:

 

Signore,

La duchessa di Mortemain esce da casa mia e mi ha assicurato che sareste disposto a fare, con il mio povero viso, uno dei vostri capolavori. Ve lo affiderei ben volentieri, se fossi certa che non avete detto quelle parole a caso, e che vedete in me qualcosa che possa essere riprodotto ed idealizzato da voi.

Vogliate credere, signore, alla mia più distinta considerazione.

Anne di Guilleroy

 

Egli rispose, chiedendo quando avrebbe potuto presentarsi a casa della contessa, e fu molto semplicemente invitato a colazione il lunedì seguente.

La contessa abitava al primo piano, in boulevard Malesherbes, in una grande e lussuosa casa moderna. Attraversato un vasto salotto tappezzato di seta azzurra, dalle cornici di legno bianco e oro, il pittore venne introdotto in una specie di salottino con tappezzerie del secolo passato, chiare e civettuole, quelle tappezzerie alla Watteau, dalle sfumature tenere, dai soggetti graziosi, che sembrano fatte, disegnate ed eseguite da artigiani innamorati.

Si era appena seduto quando apparve la contessa. Camminava con una tale leggerezza che non l’aveva neppure sentita attraversare la stanza vicina, e fu sorpreso scorgendola. Ella gli tese la mano, in maniera familiare.

«Dunque, è proprio vero,» ella disse, «che volete fare il mio ritratto?»

«Ne sarei felicissimo, signora.»

L’abito nero e stretto la faceva apparire sottilissima, e le dava un’aria molto giovanile, un’aria tuttavia grave, smentita dalla testa sorridente, tutta illuminata dai capelli biondi. Entrò il conte, tenendo per mano una bambina di sei anni.

La signora di Guilleroy presentò:

«Mio marito.»

Era un uomo piccolo, senza baffi, dalle guance incavate, ombreggiate, sotto la pelle dalla barba rasata.

Assomigliava abbastanza a un prete o a un attore, con i capelli lunghi rovesciati indietro, maniere cortesi, e attorno alla bocca due grandi pieghe circolari, che scendevano dalle guance al mento, e si sarebbero dette effetto dell’abitudine di parlare in pubblico.

Ringraziò il pittore con un’abbondanza di frasi che rivelavano l’oratore. Da molto tempo, voleva far fare il ritratto alla moglie, e senz’altro avrebbe scelto Olivier Bertin, se non avesse temuto un rifiuto, poiché sapeva bene quanto egli fosse assediato di richieste.

Fu dunque convenuto, con molti complimenti da entrambe le parti, che il conte avrebbe condotto l’indomani la contessa allo studio. Si domandava tuttavia, per il lutto stretto che ella portava, se non fosse meglio attendere; ma il pittore dichiarò che voleva rendere la prima impressione ricevuta, quel notevole contrasto tra la testa, così piena di vita, così delicata e luminosa sotto la chioma dorata, e la nera austerità dell’abito.

Ella andò dunque il giorno dopo con il marito, e i giorni seguenti con la figlia, che veniva fatta sedere davanti ad un tavolo pieno di libri illustrati.

Olivier Bertin, secondo il solito, si mostrava molto riservato. Le donne dell’alta società lo preoccupavano alquanto, poiché non le conosceva assolutamente. Le supponeva ad un tempo astute e ingenue, ipocrite e pericolose, futili e piene di intrighi. Aveva avuto con donne del demi-monde rapide avventure, dovute alla sua fama, al suo spirito divertente, alla sua elegante corporatura di atleta, al suo viso bruno e volitivo. Le preferiva dunque, e amava la loro libertà di modi e di discorsi, era abituato ai costumi facili, spassosi e piacevoli, degli studi d’artisti e dei camerini che frequentava. Egli andava in società per la gloria non per il sentimento, vi si compiaceva per vanità, perché riceveva complimenti e ordinazioni, e si pavoneggiava davanti alle belle dame, che lo adulavano, senza mai corteggiarle. Non permettendosi con loro scherzi audaci e parole pesanti, le giudicava bigotte, e passava per un uomo di buone maniere. Tutte le volte che una signora era andata a posare nel suo studio, aveva sentito, malgrado i tentativi che essa faceva per piacergli, quella diversità di razza che impedisce di confondere, per quanto si mescolino, gli artisti e le persone dell’alta società.