Olivier era convinto che l’amore cominciasse con sogni, con esaltazioni poetiche. Ciò che egli provava, al contrario, gli sembrava derivare da una emozione indefinibile, molto più fisica che morale. Era nervoso, fremente, inquieto come quando si sta per avere una malattia. Tuttavia nessun dolore si univa a quella febbre del sangue, che tanto agitava, per contagio, la sua mente. Non ignorava che quel turbamento derivava dalla signora di Guilleroy, dal ricordo che lasciava in lui, e dall’attesa del suo ritorno. Non si sentiva trasportato verso di lei da uno slancio di tutto il suo essere, ma la sentiva sempre presente in lui, come se non l’avesse mai lasciato; essa, andandosene, gli trasmetteva qualche cosa di sé; qualcosa di sottile e d’inesprimibile. Cosa? Era forse amore?

Ora, egli scendeva nel proprio cuore, per cercare di vedere e comprendere. La trovava attraente, ma non rispondeva al tipo di donna ideale che la sua cieca speranza aveva creato. Chiunque cerca l’amore, ha previsto le qualità morali e gli attributi fisici di colei che lo sedurrà; e la signora di Guilleroy, benché gli piacesse moltissimo, non gli sembrava quel tipo.

Ma perché essa, più delle altre, occupava la sua mente così in modo differente, incessante?

Era forse caduto semplicemente nella rete tesa dalla sua civetteria, da lui sospettata e compresa da molto tempo e, circuito dalle sue manovre, subiva l’influenza di quel fascino speciale derivante alle donne dalla volontà di piacere? Camminava, si sedeva, si rialzava, accendeva delle sigarette e le gettava, guardava ad ogni istante le lancette della pendola, che avanzavano verso l’ora consueta in modo lento e immutabile.

Già parecchie volte aveva avuto la tentazione di sollevare il vetro concavo, e sulle due lancette dorate che giravano spingere con il dito la grande fino all’ora in cui lei pigramente arrivava.

Gli sembrava che sarebbe stato sufficiente ciò perché la porta si aprisse e colei che attendeva comparisse, raggirata e richiamata da quell’astuzia. Poi sorrise di quel desiderio infantile, ostinato e irragionevole.

Infine si chiese: «Potrò divenire il suo amante?» L’idea gli parve singolare, difficilmente realizzabile; soprattutto inconcepibile a causa delle complicazioni che avrebbe potuto provocare nella sua vita.

Però quella donna gli piaceva molto, e concluse: «Decisamente, sono in una strana situazione!»

La pendola suonò, e il rumore dell’ora lo fece trasalire scuotendogli più i nervi che l’anima. Attese con quella impazienza che il ritardo fa acuire di secondo in secondo. Era sempre puntuale; dunque, in dieci minuti, l’avrebbe vista entrare. Trascorsi i dieci minuti, si sentì tormentato come all’avvicinarsi di un dispiacere, dapprima irritato che lei gli facesse perdere tempo, quindi di botto realizzò che, se lei non fosse venuta avrebbe sofferto molto. Cosa fare? Attendere? No. Meglio uscire, di modo che se, per caso, fosse venuta molto in ritardo, avrebbe trovato lo studio vuoto.

Uscire, ma quando? Quanto tempo le avrebbe consentito? Non era meglio rimanere e farle comprendere, con poche parole, fredde ma cortesi, che lui non era di quelli che si fanno attendere? E se non fosse venuta? Allora avrebbe ricevuto un telegramma, un biglietto, un domestico o un fattorino? Se non fosse venuta, cosa avrebbe potuto fare? Sarebbe stata una giornata perduta: non avrebbe potuto più lavorare. Allora?… Allora, sarebbe andato a chiedere sue notizie, poiché aveva bisogno di vederla.

Era vero, aveva bisogno di vederla, un bisogno profondo, opprimente, ossessivo. Ma cos’era? Amore? Eppure non provava né esaltazione nel pensiero, né trasporto nei sensi, né sogni nell’anima, capiva però che, se lei non fosse venuta quel giorno, egli avrebbe sofferto molto.

Il campanello del portone risuonò per la scala del palazzetto, e Olivier Bertin si sentì subito ansioso, poi così felice che fece una piroetta, gettando la sigaretta in aria.

Ella entrò: era sola.

Egli fu subito molto audace. «Sapete,» disse, «cosa mi domandavo, attendendovi?»

«No, non saprei.»

«Mi domandavo se non fossi per caso innamorato di voi.»

«Innamorato di me! Siete pazzo.»

Ma sorrideva, e il suo sorriso pareva dire: «E gentile, ne sono contentissima.»

E riprese:

«Via, non siete serio; perché mi fate questo scherzo?»

Egli rispose:

«Invece sono molto serio. Non dico di essere innamorato di voi, ma mi domando se non sto per diventarlo.»

«Cosa ve lo fa pensare?»

«La mia emozione quando non ci siete, la mia felicità quando arrivate.»

Ella sedette.

«Oh! Non vi turbate per così poco. Fino a che dormirete bene e mangerete con appetito, non vi sarà pericolo.»

Egli si mise a ridere.

«E se perdessi il sonno e l’appetito?»

«Avvisatemi.»

«E allora?»

«Vi lascerò guarire in pace.»

«Tante grazie.»

E sull’argomento di quell’amore, scherzarono tutto il pomeriggio. Altrettanto avvenne nei giorni seguenti. Prendendolo come uno scherzo spiritoso privo di importanza, quando lei entrava gli chiedeva con fare allegro:

«Come va oggi il vostro amore?»

Ed egli le diceva, tra il serio e lo scherzoso, tutti gli sviluppi di quel male, il tormento intimo, continuato, profondo dell’affetto che nasce e si sviluppa. Analizzava se stesso nei minimi particolari davanti a lei, ora per ora, dal momento in cui si erano separati il giorno prima, con l’aria faceta del professore che tiene un corso, e lei lo ascoltava con interesse, un poco emozionata, ed anche turbata da quella storia, che la faceva sentire simile all’eroina di un libro. Dopo aver enumerato con tono disinvolto e galante tutti i pensieri che lo affliggevano, la sua voce, si faceva a intervalli tremante, ed esprimeva con una parola o soltanto con una intonazione le pene del suo cuore.

Lei l’interrogava sempre, piena di curiosità, gli occhi fissi su di lui, l’orecchio avido di quelle parole forse preoccupanti ad udirsi, ma così deliziose da ascoltare.

Qualche volta, avvicinandosi a lei per correggere la posa, le prendeva la mano e tentava di baciarla. Con rapido movimento lei toglieva le sue dita dalle labbra, e aggrottando leggermente le sopracciglia:

«Andiamo, lavorate!» diceva.

Si rimetteva al lavoro, ma erano trascorsi solo cinque minuti e già lei gli rivolgeva una domanda, per riportarlo abilmente sull’unico argomento che interessava entrambi. Ella ora sentiva nascere dei timori nel suo cuore. Voleva essere amata molto, ma non troppo. Decise di non voler essere coinvolta, aveva paura di lasciarlo spingere troppo oltre e di perderlo, costretta a scoraggiarlo, dopo averlo incoraggiato. Tuttavia, se avesse dovuto rinunciare a quella tenera e galante amicizia, a quella conversazione che avveniva trascinando particelle d’amore, come un ruscello ricco di sabbie d’oro, ne avrebbe provato un grande dolore simile ad uno squarcio.

Quando usciva di casa per recarsi allo studio del pittore, una gioia viva e calda l’invadeva, rendendola leggera e allegra. Posando la mano sul campanello della casa di Olivier, il suo cuore batteva di impazienza, e il tappeto della scala era il più soffice che i suoi piedi avessero mai calpestato.

Tuttavia, Bertin diveniva tetro, un poco nervoso, spesso irritabile.

Aveva dei moti di impazienza, subito repressi, ma frequenti.

Un giorno lei era appena entrata ed egli si sedette vicino, e invece di mettersi a dipingere, le disse:

«Signora, voi non potete ignorare ora che non è uno scherzo, e che io vi amo pazzamente.»

Turbata da quell’esordio, vedendo arrivare la crisi temuta, cercò di bloccarlo, ma lui non ascoltava più.