L’emozione traboccava dal suo cuore, e lei dovette ascoltarlo, pallida, tremante, ansiosa. Egli parlò a lungo, senza chiedere nulla, con tenerezza triste e con rassegnazione desolata; si lasciò prendere le mani, che egli tenne nelle sue. Si era inginocchiato senza che lei se ne rendesse conto, e, con sguardo allucinato, la supplicava di non fargli del male. Che male? Non capiva, né cercava di capire, intorpidita da una angoscia crudele per vederlo soffrire, e quell’angoscia era quasi una felicità. Ad un tratto, scorse delle lacrime nei suoi occhi, e fu talmente commossa, che disse:
«Oh!» pronta a baciarlo come si baciano i bambini che piangono. Egli ripeteva con voce dolcissima: «Vedete, vedete, soffro troppo,» e d’improvviso, vinta da quella sofferenza, dal contagio delle lacrime, ella sconvolta e spossata, scoppiò in singhiozzi, con le braccia frementi, pronte ad aprirsi.
Quando si sentì di colpo avvinta a lui, che la baciava appassionatamente sulle labbra, volle gridare, lottare, respingerlo, ma capì subito di essere perduta, poiché pur resistendo acconsentiva, dibattendosi si concedeva, lo stringeva gridando:
«No, no, non voglio!»
Poi rimase sconvolta, il viso fra le mani: ad un tratto si alzò, raccolse il cappello caduto sul tappeto e fuggì, malgrado le suppliche di Olivier, che la tratteneva per l’abito.
Appena si trovò per strada, ebbe voglia di sedersi sul bordo del marciapiede, tanto si sentiva affranta e con le gambe spezzate. Passava un fiacre, lo chiamò e disse al cocchiere: «Andate piano, portatemi dove volete.» Si gettò nella carrozza, rinchiuse lo sportello, si rannicchiò nel fondo, sentendosi sola dietro i vetri rialzati, sola per poter pensare.
Per alcuni minuti, non ebbe nella testa che il rumore delle ruote e le scosse della vettura. Guardava le case, i passanti, gli altri fiacre, gli omnibus, con occhi vuoti, che non vedevano nulla; non pensava assolutamente a nulla, come se si fosse data una tregua, prima di osare riflettere su ciò che era avvenuto.
Poi, siccome aveva uno spirito pronto e per niente pusillanime, si disse: «Ecco sono una donna perduta.» E ancora per qualche minuto, rimase sotto l’emozione, sotto la certezza della disgrazia irreparabile, spaventata come chi, caduto dal tetto, non si muove, indovinando di avere le gambe spezzate, ma non volendolo accertare.
Ma, invece di essere sconvolta dal dolore, che si aspettava e di cui temeva l’attacco, il suo cuore, uscendo da quella catastrofe, rimaneva calmo e tranquillo: batteva lentamente, dolcemente, dopo quella caduta, per cui il suo animo era prostrato e non sembrava affatto prendere parte allo sgomento del suo spirito.
Ripeté, ad alta voce, quasi per ascoltarsi e per convincersene: «Ecco, sono una donna perduta.» Nessuna eco di sofferenza rispose nella sua carne, a quel lamento della coscienza.
Per qualche tempo si lasciò cullare dal movimento del fiacre, rinviando a più tardi i ragionamenti che avrebbe dovuto fare su quella crudele situazione. No, non soffriva. Aveva paura di pensare, ecco tutto, paura di sapere, di comprendere e di riflettere; al contrario, le pareva di sentire nell’essere oscuro e impenetrabile creato in noi dalla lotta incessante tra inclinazioni e volontà, una inverosimile calma.
Dopo circa mezz’ora di quello strano riposo, comprendendo infine che la disperazione invocata non serviva, si scosse da quel torpore, e mormorò: «È strano! Non provo quasi dolore!»
Allora cominciò a muoversi dei rimproveri. Una collera si levava in lei, contro il proprio accecamento e la propria debolezza. Come non aver previsto ciò che era accaduto? Come non aver compreso che il momento di quella lotta sarebbe arrivato? Che quell’uomo le piaceva tanto da renderla disprezzabile? E che nei cuori più puri il desiderio soffia a volte come un colpo di vento che spazza la volontà?
Ma, dopo essersi duramente rimproverata e disprezzata, si chiese con terrore cosa sarebbe accaduto.
Il primo proposito fu rompere con il pittore e non rivederlo mai più. Ma, aveva appena preso quella decisione, che subito mille ragioni sorsero per combatterla.
Come avrebbe spiegato quella rottura? Cosa avrebbe detto a suo marito? La verità sospettata non si sarebbe bisbigliata, e poi conosciuta dappertutto?
Non sarebbe stato meglio, per salvare le apparenze, recitare di fronte allo stesso Olivier Bertin l’ipocrita commedia della indifferenza e dell’oblio, e mostrargli che aveva cancellato quel momento dal suo ricordo e dalla sua vita?
Ma sarebbe stata capace? Avrebbe avuto l’audacia di far vedere di non ricordare niente, di guardare con stupore ed indignazione, e di dire: «Che cosa volete da me?» all’uomo col quale aveva veramente diviso il rapido e brutale eccitamento?
Rifletté a lungo, finalmente si risolse per tale soluzione dato che nessun’altra le pareva possibile.
Il giorno dopo sarebbe andata da lui, con coraggio, e gli avrebbe fatto comprendere subito ciò che voleva ed esigeva da lui. Bisognava che mai una parola, un’allusione, uno sguardo, potesse ricordarle quell’onta.
Dopo aver sofferto, poiché ne avrebbe sofferto anche lui, certamente avrebbe condiviso il suo parere, da uomo leale e educato, e sarebbe rimasto per il futuro ciò che era stato fino ad allora.
Appena ebbe preso quella nuova decisione, diede al cocchiere il suo indirizzo, e rientrò a casa, in preda a un abbattimento profondo, desiderando coricarsi, non vedere nessuno, dormire e dimenticare.
Si chiuse in camera, e vi rimase fino all’ora di pranzo, stesa sulla poltrona a sdraio, intorpidita, non volendo più occupare il suo animo con quel pensiero colmo di pericoli. Scese all’ora precisa, stupita di essere così calma, e di aspettare il marito con il solito viso.
Questi comparve, con la figlia in braccio; lei gli strinse la mano e baciò la bambina, senza essere agitata da alcuna angoscia.
Il signor di Guilleroy le chiese cosa avesse fatto. Ella rispose con indifferenza che aveva posato come tutti i giorni.
«E il ritratto è bello?» chiese.
«Viene benissimo.»
A sua volta, le parlò dei suoi affari che amava raccontare a tavola, della seduta della Camera, della discussione del progetto di legge sulla falsificazione delle derrate. Quella conversazione, che normalmente sopportava, l’annoiò, facendole notare con maggiore attenzione il lato volgare e manierato di quell’uomo che s’interessava a quegli argomenti; eppure sorrideva, ascoltandolo, e rispondeva con affabilità, addirittura più gentile del solito, più indulgente verso quelle banalità. Guardandolo, pensava: «L’ho ingannato, è mio marito e l’ho ingannato. Non è strano? Nulla può più impedirlo, nulla può più cancellarlo? Ho chiuso gli occhi; ho acconsentito per qualche secondo, soltanto per qualche secondo, al bacio di un uomo, e non sono più una donna onesta. Pochi secondi nella mia vita, pochi secondi che non si possono cancellare, mi hanno indotto a questo piccolo fatto irreparabile, così grave, così breve, un crimine, il più vergognoso per una donna… e non sono affatto disperata. Se ieri me l’avessero detto, non avrei creduto. Se me l’avessero confermato, avrei subito pensato ai tremendi rimorsi dai quali oggi dovrei essere straziata. Eppure, non ne ho quasi per niente.»
Il signor di Guilleroy uscì dopo pranzo, come faceva quasi tutti i giorni.
Allora ella prese sulle ginocchia la bambina e pianse abbracciandola; pianse lacrime sincere, lacrime della coscienza, non del cuore.
Ma non dormì affatto.
Nel buio della sua camera, era maggiormente preoccupata per i pericoli derivanti dall’atteggiamento del pittore, ed ebbe paura per l’incontro del giorno seguente, e per le cose che avrebbe dovuto dire, guardandolo in faccia.
Alzatasi presto, rimase sulla poltrona tutta la mattinata, sforzandosi di prevedere ciò che doveva temere, quello che doveva rispondere, e di essere pronta a tutte le sorprese. Uscì di buon’ora, in modo di poter riflettere ancora camminando.
Egli non l’aspettava, e si domandava, fin dal giorno precedente, cosa avrebbe dovuto fare rivedendola.
Dopo che lei era andata via, dopo quella fuga, a cui non aveva osato opporsi, era rimasto solo, seguitando ad ascoltare, benché ella fosse già lontana, il rumore dei suoi passi, il fruscio del suo abito, il colpo della porta che si richiudeva spinta da una mano sconvolta.
Era rimasto in piedi, pieno di una gioia ardente, intima, focosa. L’aveva posseduta! Questo era avvenuto fra loro! Era possibile? Dopo la sorpresa di quel trionfo, egli lo assaporava, e per meglio gustarlo, si sedette, si sdraiò quasi sul divano su cui l’aveva posseduta.
Vi rimase a lungo, totalmente invaso dal pensiero che lei era la sua amante, e che fra loro, tra quella donna tanto desiderata, e lui, si era allacciato in pochi istanti quel legame misterioso che unisce segretamente due esseri uno all’altro. Conservava, in ogni parte della sua carne ancora fremente, il ricordo acuto del rapido istante in cui le loro labbra si erano incontrate, i loro corpi erano divenuti un solo essere, per trasalire insieme nel gran soffio della vita. Quella sera non uscì, per pascersi di quel pensiero; si coricò presto, vibrante di felicità.
L’indomani, appena svegliato, si pose questa domanda: «Cosa debbo fare?» Ad una donna di facili costumi, ad una attrice avrebbe inviato dei fiori, o anche un gioiello; ma rimaneva perplesso di fronte a quella situazione nuova.
Certo, avrebbe dovuto scriverle… Ma cosa? Buttò giù, cancellò, strappò, incominciò venti lettere, ma tutte gli sembravano offensive, odiose, ridicole.
Avrebbe voluto esprimere con termini delicati e seducenti la riconoscenza della sua anima, i suoi slanci di folle tenerezza, le sue offerte di devozione infinita; ma, per dire quelle cose appassionate e piene di sfumature, non trovava che frasi fatte, espressioni banali, grossolane o puerili.
Rinunciò quindi all’idea di scrivere, e decise di andare a trovarla, appena fosse passata l’ora della seduta, perché riteneva che non sarebbe venuta.
Chiusosi allora nello studio, si eccitò davanti al ritratto, le labbra solleticate dal desiderio di posarsi sul dipinto, dove qualche cosa di lei era fissato; e di quando in quando guardava la strada dalla finestra. Tutti gli abiti femminili che apparivano da lontano gli facevano battere il cuore. Venti volte credette di riconoscerla, poi, quando la donna che aveva notato era passata, si sedeva un momento, triste come dopo una delusione.
Ad un tratto, la vide, dubitò, prese il cannocchiale, la riconobbe, e sconvolto da una emozione violenta, si sedette per aspettarla.
Quando ella entrò, si gettò in ginocchio e volle prenderle le mani; ma ella le ritirò bruscamente, e siccome lui rimaneva ai suoi piedi, angosciato e con gli occhi levati verso lei, gli disse alteramente:
«Cosa fate, dunque, signore, non comprendo questo atteggiamento!»
Egli balbettò:
«Oh! signora, vi supplico…»
Ella l’interruppe con durezza, dicendo:
«Rialzatevi, siete ridicolo.»
Olivier si rialzò, smarrito, mormorando:
«Che cosa avete? Non trattatemi così, io vi amo!…»
Allora, con poche parole rapide e asciutte, la signora di Guilleroy gli espresse la propria volontà e regolò la situazione:
«Non capisco ciò che volete dire! Non parlatemi mai del vostro amore, o lascerò questo studio per non tornarvi più. Se dimenticherete anche una sola volta questa condizione per la mia presenza qui, non mi rivedrete più.»
Egli la guardava, sconvolto da quella durezza che non aveva previsto; poi comprese e mormorò:
«Obbedirò, signora.»
Ella rispose:
«Benissimo, è quello che mi aspettavo da voi! Ora lavorate, perché siete lento a finire questo ritratto.»
Egli prese allora la tavolozza e si mise a dipingere, ma la sua mano tremava, e gli occhi offuscati guardavano senza vedere; aveva voglia di piangere, tanto si sentiva il cuore straziato.
Cercò di parlarle; ella rispose appena.
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