Gli sembrava, talvolta, di essersi un giorno alzato in volo, con le mani tese, e di aver potuto stringere realmente il sogno alato e magnifico che aleggia sempre sulle nostre speranze.

Aveva terminato il ritratto della contessa, certo il migliore che avesse mai dipinto, poiché aveva saputo vedere e rendere quel non so che d’inesprimibile che quasi mai un pittore sa scoprire, quel riflesso, quel mistero, quella fisionomia dell’anima, che passa, inafferrabile, sui volti.

Poi, passarono mesi e anni, che allentarono appena il legame che univa la contessa di Guilleroy e il pittore Olivier Bertin. Non vi era più in lui l’esaltazione dei primi tempi, ma restava un affetto calmo, profondo, una specie di amicizia amorosa, a cui aveva preso l’abitudine.

In lei, al contrario, aumentava senza posa l’attaccamento appassionato, ostinato di certe donne che si danno ad un uomo interamente e per sempre. Oneste e rette nell’adulterio, come avrebbero potuto esserlo nel matrimonio, esse si votano ad un affetto unico, da cui niente le distoglierà.

Non solo amano il loro amante, ma vogliono amarlo, e con gli occhi unicamente su di lui, hanno talmente occupato il loro cuore con il suo pensiero, che nulla di estraneo può più entrarvi. Hanno legato la loro vita con risolutezza, come si legano le mani, prima di gettarsi in acqua dall’alto di un ponte, quando si sa nuotare e si desidera morire.

Ma, dal momento in cui si dette in quel modo, la contessa si sentì assalire dai timori sulla costanza di Olivier Bertin. Nulla lo legava, fuorché la sua volontà di uomo, il suo capriccio, il suo gusto passeggero per una donna incontrata un giorno, come ne aveva già incontrate tante altre! Ella sentiva che era così libero e così facile alle tentazioni, lui che viveva senza obblighi, senza abitudini e senza scrupoli, come tutti gli uomini! Era bello, celebre, ricercato, poteva scegliere per i suoi desideri, facilmente svegliati, tutte le donne di mondo, il cui pudore era così debole, e tutte le donne di facili costumi, le attrici, prodighe dei loro favori a uomini come lui. Una di queste, una sera, dopo cena, poteva seguirlo e piacergli, prenderlo e tenerselo.

Ella visse dunque nel timore di perderlo, spiandone comportamenti e atteggiamenti, sconvolta da una parola, angosciata se egli solo ammirava un’altra donna, lodava un viso attraente, o la grazia di un profilo. Tutto ciò che ignorava della sua vita la faceva tremare, e tutto ciò che sapeva la spaventava. In tutti i loro incontri, si sforzava di interrogarlo, senza lasciarsene accorgere, per fargli esprimere i suoi pareri sulle persone che aveva visto, sulle case dove aveva pranzato, sulle minime impressioni del suo spirito. Quando credeva di indovinare la possibile influenza di qualcuno, la combatteva con astuzia prodigiosa, con innumerevoli risorse.

Oh! Spesso ella indovinò quelle brevi tresche senza radici profonde, che durano otto o quindici giorni, di quando in quando, nell’esistenza di ogni artista in vista.

Aveva, per così dire, l’intuito del pericolo, ancora prima di essere avvertita del risvegliarsi in Olivier di un nuovo desiderio, dall’aria allegra che sprizza dagli occhi e dal volto di un uomo sovreccitato da un capriccio galante. Allora cominciava a soffrire; dormiva sonni torturati dal dubbio. Per sorprenderlo, andava da lui senza averlo avvisato, e ponendogli domande che sembravano ingenue, esplorava il suo cuore, ascoltava il suo pensiero, come quando si sonda, si ascolta, per conoscere il male nascosto in una persona.

Appena sola si metteva a piangere, sicura che quella volta le avrebbero preso, rubato quell’amore cui tanto teneva, perché vi aveva posto insieme a tutta la sua volontà, e tutta la forza del suo affetto, tutte le speranze, e tutti i sogni.

Perciò quando lo sentiva ritornare a lei, dopo quei brevi allontanamenti, provava nel riprenderlo, nel ripossederlo come una cosa perduta e ritrovata, una felicità muta e profonda, che talvolta, quando passava davanti a una chiesa, la faceva entrare dentro, per ringraziare Dio.

La preoccupazione di piacergli sempre, più di tutte le altre, e di tenerlo contro tutte, aveva fatto della sua vita un continuo combattimento di civetteria. Aveva lottato per lui, davanti a lui, incessantemente, con la grazia, la bellezza, e l’eleganza. Voleva che, ovunque egli avesse inteso parlare di lei, venisse vantato il suo fascino, il suo gusto, lo spirito e gli abiti. Voleva piacere agli altri per lui, e affascinarli, perché egli fosse fiero, e geloso di lei. Ed ogni volta che lo sentiva geloso, dopo averlo fatto un poco soffrire, gli preparava un trionfo che ravvivava il suo amore, ed eccitava la sua vanità.

Poi, avendo compreso che un uomo può sempre incontrare una donna dalle attrattive fisiche più forti della sua, perché nuove, ricorse ad altri mezzi: lo adulò e viziò.

In modo discreto e continuo lo ricoprì di lodi, lo cullò di ammirazione e lo avvolse di complimenti, affinché dappertutto egli trovasse l’amicizia ed anche la tenerezza fredde ed incomplete, affinché, anche se altre donne lo avessero amato, finisse per accorgersi che nessuna poteva comprenderlo come lei.

Fece della sua casa, dei suoi due salotti, ove egli entrava così spesso, un luogo nel quale il suo orgoglio d’artista era attirato quanto il suo cuore di uomo, il luogo di Parigi dove preferiva recarsi, perché tutti i suoi desideri vi erano nello stesso tempo esauditi.

Non solo imparò a scoprire tutti i suoi gusti, per dare a lui, soddisfacendoli nella sua casa, un’impressione di benessere che nulla avrebbe potuto sostituire, ma seppe farne nascere dei nuovi, creare golosità di ogni tipo, materiali, sentimentali, e l’abitudine a piccole premure, all’affetto, all’adorazione, all’adulazione.

Si sforzò di affascinare i suoi occhi con l’eleganza, il suo odorato con i profumi, le sue orecchie con i complimenti, e la sua bocca con i cibi.

Ma quando ebbe creato nell’animo e nel corpo dello scapolo egoista e vezzeggiato uno stuolo di piccoli bisogni tirannici, quando fu ben certa che nessun’altra amante avrebbe avuto come lei la cura di sorvegliarli e di sostentarli per tenerlo legato a sé con tutti i minimi piaceri della vita, ebbe paura, ad un tratto, vedendo come gli fosse venuta a noia la sua casa, quanto si lamentava incessantemente della solitudine, e dato che non poteva andare da lei se non con tutti i riserbi imposti dalla società, ricercasse al circolo, o altrove i mezzi per mitigare il suo isolamento, ebbe paura che pensasse al matrimonio.

Certi giorni ella soffriva talmente per tutte quelle inquietudini, che desiderava la vecchiaia, onde porre termine a quella angoscia e potersi riposare in un affetto calmo e intiepidito.

Gli anni passarono, tuttavia, senza spezzare il loro legame. La catena attaccata da lei era solida, e ne rifaceva gli anelli, man mano che si consumavano. Ma, sempre preoccupata, sorvegliava il cuore del pittore, come si sorveglia un fanciullo che attraversa una strada ingombrata di vetture, e ogni giorno temeva ancora l’avvenimento ignoto, la cui minaccia è sospesa su di noi.

Il conte, senza sospetti e senza gelosia, trovava naturale quell’intimità tra sua moglie e un artista famoso, ricevuto dappertutto con grandi riguardi. A forza di vedersi, i due uomini, abituati l’uno all’altro, avevano finito per piacersi.

 

II

 

 

Quando Bertin entrò il venerdì sera in casa della sua amica, per il pranzo dato in occasione del ritorno di Annette di Guilleroy, trovò nel salottino Luigi XV solamente il signor di Musadieu, che era appena arrivato.

Questi era un anziano uomo d’ingegno, che sarebbe potuto diventare forse un uomo di valore, e che non si consolava di ciò che non era riuscito ad essere.

Ex-conservatore dei musei imperiali, aveva trovato il modo di farsi rinominare ispettore delle belle arti sotto la Repubblica, il che non gli impediva di essere, prima di tutto, l’amico dei principi, di tutti i principi, delle principesse e delle duchesse dell’aristocrazia europea, nonché il protettore ufficiale degli artisti di ogni genere. Dotato di un’intelligenza vivace, capace di capire tutto, e di una grande facilità di parola che gli permetteva di dire con amabilità le cose più comuni, di una elasticità mentale che lo faceva essere a suo agio in tutti gli ambienti, e di un acuto fiuto diplomatico, che gli faceva giudicare gli uomini a prima vista, egli portava di salotto in salotto, di giorno e di sera, la sua attività illuminata, inutile e ciarliera.

Sembrava adatto per ogni cosa, parlava di tutto con una parvenza da competente che avvinceva e con una chiarezza da divulgatore assai apprezzata dalle donne del bel mondo, alle quali rendeva i servizi di un bazar ambulante di erudizione. Sapeva, infatti, molte cose, senza aver mai letto altro che i libri indispensabili; ma era in ottimi rapporti con le cinque Accademie, con tutti gli studiosi, tutti gli scrittori, tutti gli eruditi specializzati, che ascoltava con discernimento. Sapeva subito dimenticare le spiegazioni troppo tecniche o superflue per le sue relazioni, ricordava benissimo le altre e dava alle nozioni così raggranellate, un tono semplice, disinvolto, naturale, che le rendeva facili a comprendersi quasi fossero favole scientifiche. Dava l’impressione di essere un magazzino di idee, uno di quei vasti negozi, dove non si trovano mai oggetti rari, ma dove abbondano, a buon mercato, quelli di ogni genere, e di ogni provenienza, dagli utensili casalinghi fino ai più comuni strumenti di fisica o di chirurgia domestica.

I pittori, con cui, per via dei suoi incarichi, aveva rapporti costanti, lo prendevano in giro e lo temevano.

Del resto, rendeva loro dei servizi, faceva vendere i loro quadri, li metteva in relazione con la buona società, amava presentarli, proteggerli, lanciarli; sembrava essere votato ad una misteriosa opera di fusione fra la gente di mondo e gli artisti, facendosi un vanto di conoscere questi intimamente, di entrare con familiarità in casa degli altri, di far colazione col principe di Galles di passaggio a Parigi, e di pranzare la sera stessa con Paul Adelmans, Olivier Bertin e Amaury Maldant.

Bertin, che l’amava abbastanza, perché lo trovava divertente, diceva di lui: «È l’enciclopedia di Jules Verne, rilegata in pelle d’asino.»

I due uomini si strinsero la mano, e si misero a parlare della situazione politica, delle voci di guerra, che Musadieu giudicava allarmanti, per evidenti motivi che egli esponeva benissimo, avendo la Germania tutto l’interesse di schiacciare la Francia e di affrettare quel momento atteso da oltre diciotto anni da Bismarck; mentre Bertin trovava con argomenti inconfutabili, come quei timori fossero chimerici, poiché la Germania non poteva essere così pazza da compromettere la sua conquista con un’avventura di esito sempre dubbio, ed il cancelliere così imprudente da mettere a repentaglio, negli ultimi giorni di vita che gli restavano, la sua opera e la sua gloria in una sola volta.

Il signor di Musadieu, tuttavia, sembrava sapere cose di cui non voleva parlare. D’altronde, aveva visto durante la giornata un ministro, e aveva incontrato la sera precedente il granduca Wladimiro, che tornava da Cannes.

L’artista non cedeva e, con ironia tranquilla, contestava le cognizioni delle persone meglio informate. Dietro tutte quelle voci, si preparavano dei movimenti in borsa! Forse il solo Bismarck doveva avere in proposito un’opinione sicura.

Il signor di Guilleroy entrò, strinse con premura le mani, scusandosi, con parole melliflue per averli lasciati soli.

«E voi, caro deputato,» domandò il pittore, «cosa pensate di queste voci di guerra?»

Il signor di Guilleroy si lanciò in un discorso. Egli, come membro della Camera ne sapeva più di tutti, tuttavia non era dello stesso parere della maggior parte dei suoi colleghi. No, non credeva alla possibilità di un conflitto prossimo, a meno che non venisse provocato dalla turbolenza dei francesi e dalle rodomontate dei sedicenti patrioti della lega. E fece di Bismarck un ritratto a grandi linee, un ritratto alla Saint-Simon.

Quell’uomo non volevano capirlo, perché attribuiamo sempre agli altri il nostro modo di pensare, li crediamo pronti a fare ciò che noi avremmo fatto al loro posto. Bismarck non era un diplomatico falso e bugiardo, ma un uomo sincero, brutale, che proclamava sempre la verità; rivelava sempre le proprie intenzioni: «Voglio la pace,» diceva. Era vero, voleva la pace, niente altro che la pace, e tutto lo dimostrava in modo evidente da diciotto anni, tutto dagli armamenti alle alleanze, fino a quel fascio di popoli uniti contro la impetuosa Francia.

Il signor di Guilleroy concluse con tono profondo e convinto: «È un grande uomo, un grandissimo, che desidera la tranquillità, ma che crede soltanto alle minacce e ai mezzi violenti per ottenerla. Insomma, signori, un gran barbaro.»

«Il fine giustifica i mezzi,» riprese il signor di Musadieu.

«Sono d’accordo volentieri con voi che adora la pace, se convenite con me che ha sempre voglia di far la guerra per ottenerla.