Gargantua e Pantagruele

GARGANTUA E PANTAGRUELE

François Rabelais

 

traduzione di Gildo Passini - Formiggini editore, Roma 1925

 

LIBRO PRIMO - GARGANTUA

 

LA VITA ORRIFICISSIMA

DEL

GRANDE GARGANTUA

PADRE DI PANTAGRUELE

GIÀ COMPOSTA DAL SIGNOR ALCOFRIBAS

ASTRATTORE DI QUINTA ESSENZA

 

LIBRO PIENO DI PANTAGRUELISMO

 

AI LETTORI,

 

O voi che il libro a legger v’apprestate,

Liberatevi d’ogni passione

E leggendo non vi scandalizzate,

Ché non contiene male né infezione.

Anche gli è ver che poca perfezione

V’apprenderete, salvoché nel ridere;

Non può il mio cuore senza riso vivere

E innanzi al duolo che vi mina e estingue,

Meglio è di riso che di pianto scrivere,

Ché il riso l’uom dall’animal distingue.

 

VIVETE LIETI

 

PROLOGO DELL’AUTORE

 

Beoni lustrissimi, e voi Impestati pregiatissimi (poiché a voi non ad altri dedico i miei scritti) Alcibiade nel dialogo di Platone intitolato il Simposio, lodando Socrate, suo precettore e, senza contrasto, principe de’ filosofi, dice tra l’altro ch’egli era simile ai sileni. Per sileni s’intendeva una volta certe scatolette, quali vediamo ora nelle botteghe degli speziali, dipinte di figure allegre e frivole come arpie, satiri, ochette imbrigliate, lepri colle corna, anitre col basto, caproni volanti, cervi aggiogati ed altrettali immagini deformate a capriccio per eccitare il riso, quale fu Sileno, maestro del buon Bacco.

Ma quelle scatole dentro contenevano droghe fine come balsamo, ambra grigia, cinnamomo, muschio, zibetto, gemme ed altre sostanze preziose.

Così dunque di Socrate, diceva Alcibiade. Vedendolo fisicamente e giudicandolo dall’aspetto esteriore, non gli avreste dato un fico secco tanto brutto il corpo e ridicolo appariva il portamento, col suo naso a punta, lo sguardo di toro, la faccia da matto, semplice ne’ modi, rozzo nel vestire, povero, disgraziato a mogli, inetto a tutti gli uffici della repubblica; sempre ridente, sempre quanto e più d’ogni altro bevente, sempre burlante e sempre dissimulante il suo divino sapere. Ma schiudendo quella scatola quale celeste e inapprezzabile droga dentro!

Intelletto più che umano, virtù meravigliosa, coraggio invincibile, sobrietà senza pari, contentatura facile, fermezza perfetta, disprezzo incredibile di tutte quelle cose per cui gli uomini vegliano, corrono, s’affannano, navigano, combattono.

A che tende, secondo voi questo preludio d’assaggio? A questo: voi, miei buoni discepoli, e altri mattacchioni, leggendo gli allegri titoli di alcuni libri di nostra invenzione come Gargantua, Pantagruele, La dignità delle braghette, I piselli al lardo cum commento, etc. credete troppo facilmente non trovarvi dentro che burle, stramberie e allegre fandonie, dacché l’insegna esterna, chi non vi cerchi per entro, suona generalmente canzonatura e facezie. Ma le opere degli uomini non vanno giudicate con tanta leggerezza: l’abito non fa il monaco, dite voi stessi. E talora veste abito monacale chi tutto è, meno che monaco; e talora veste cappa spagnuola chi nulla ha di spagnuolo nell’anima. Aprire il libro dunque bisogna, e attentamente pesare ciò che vi è scritto. Allora v’accorgerete che la droga dentro contenuta è di ben altro valore che la scatola non promettesse: vale a dire che le materie per entro trattate non sono tanto da burla come il titolo dava a intendere.

E ammesso che, seguendo il senso letterale troviate materie abbastanza gaie e corrispondenti al titolo, non bisogna badare a quel canto di sirena, ma dare più alta interpretazione a ciò che per avventura crediate detto per festevolezza.

Sturaste mai bottiglie? Eh, per Bacco! E allora richiamatevi a mente l’aspetto che avevate. Vedeste mai un cane trovare un osso midollato? Il cane è, come dice Platone (Lib. II De Rep.) la bestia più filosofa del mondo. Se l’avete visto avrete potuto osservare con quale devozione lo guata, con qual cura lo vigila, con qual fervore lo tiene, con quale prudenza lo addenta, con quale voluttà lo stritola e con quale passione lo sugge. Perché? Con quale speranza lo studia? Quale bene ne attende? Un po’ di midolla e nulla più. Ma quel poco è più delizioso del molto di ogni altra cosa, perché la midolla è alimento elaborato da natura a perfezione, come dice Galeno (III, Facult. Nat. e XI, De usu partium).

All’esempio del cane vi conviene esser saggi nel fiutare assaporare e giudicare questi bei libri d’alto sugo, esser leggeri nell’avvicinarli, ma arditi nell’approfondirli. Poi con attenta lettura e meditazione frequente rompere l’osso e succhiarne la sostanziosa midolla, vale a dire il contenuto di questi simboli pitagorici, con certa speranza d’esservi fatti destri e prodi alla detta lettura.

In essa troverete ben altro gusto e più ascosa dottrina la quale vi rivelerà altissimi sacramenti e orribili misteri su ciò che concerne la nostra religione, lo stato politico, la vita economica.

Credete per davvero che scrivendo l’Iliade e l’Odissea, Omero pensasse mai alle allegorie che dall’opera sua hanno scombiccherato Plutarco, Eraclide Pontico, Eustazio, Fornuto e ciò che da loro ha rubacchiato il Poliziano? Se ciò credete, non v’accostate né punto né poco alla mia opinione, la quale dichiara Omero aver pensato a quelle allegorie così poco quanto Ovidio poté pensare ai sacramenti dell’Evangelo, come s’è sforzato di dimostrare un tal frate Lubino vero pappalardo, per vedere se trovasse mai per avventura dei pazzi come lui, ossia coperchio degno della pentola, come dice il proverbio.

E se non sono in Omero perché in queste allegre e nuove cronache avrebbero a essere misteri ai quali, dettandole, pensavo su per giù quanto voi, che probabilmente stavate bevendo al par di me?

Alla composizione di questo libro sovrano non perdetti né occupai altro, né maggior tempo, di quello assegnato alla mia corporal refezione; scrissi cioè, bevendo e mangiando. Questa è infatti l’ora più giusta per scrivere di alte materie e scienze profonde, come, a testimonianza di Orazio, ben facevano e Omero, modello degli scrittori, ed Ennio, il padre de’ poeti latini, benché un villano abbia detto che i suoi carmi sanno più di vino che d’olio.

Altrettanto dei libri miei disse un briccone; merda alla faccia sua! Del resto l’odor del vino, quanto è più stuzzicante, esilarante, orante, più celeste e delizioso che l’odor d’olio! E se Demostene teneva a vanto si dicesse che più spendeva in olio che in vino, io maggior gloria trarrò se si dica che più spendo in vino che in olio. Onore e gloria sarà per me esser detto buon gottiere e buon compagnone, questa fama io godo in tutte le buone compagnie di Pantagruelisti, mentre a Demostene fu rimproverato da un malinconico, che le sue orazioni puzzassero come l’immondo strofinaccio d’un sudicio oliandolo.

Pertanto interpretate ogni mio fatto e detto al giusto modo; abbiate in reverenza il cervello caseiforme che vi pasce di queste belle vesciche e a tutto vostro potere tenetemi sempre allegro.

Ed ora spassatevela, gioie mie, e lietamente leggete il resto a suffragio del corpo e a beneficio dei reni. Ma, oeh! mie care teste d’asino, date retta, che il malanno vi colga, ricordatevi di bere alla mia salute, e io vi renderò, ma subito, la pariglia.

 

CAPITOLO I.

 

Della genealogia e antichità di Gargantua.

 

Per conoscere la genealogia e antichità dalla quale è disceso Gargantua, vi rimando alla grande Cronaca Pantagruelina. Da quella apprenderete per disteso come i giganti nacquero in questo mondo e come per linea diretta da loro uscì Gargantua padre di Pantagruele; e non vi dispiaccia che ora me ne dispensi benché la cosa sia tale che quanto più fosse ricordata e tanto più piacerebbe alle signorie vostre, come assicura l’autorità di Platone (Philebo e Gorgia) e di Flacco, il quale dice esservi alcuni argomenti (come questo senza dubbio) che più dilettano quanto più di frequente ripetuti.

Piacesse a Dio che ciascuno conoscesse con certezza la propria genealogia dall’arca di Noè fino ai giorni nostri! Io penso che parecchi sono oggi imperatori, re, duchi, principi e papi sulla terra, i quali discendono da qualche questuante o facchino. Come per converso molti sono accattoni, meschini e miserabili i quali discendono da sangue o lignaggio reale e imperiale, considerate le straordinarie trasmissioni di regni ed imperi dagli Assiri ai Medi, dai Medi ai Persiani, dai Persiani ai Macedoni, dai Macedoni ai Romani, dai Romani ai Greci e dai Greci ai Francesi.

E tanto per dirvi di me che vi parlo, io credo essere disceso da qualche ricco re o principe del tempo andato. Infatti mai non vedeste uomo più inclinato e più disposto di me a esser re e ricco, per potere far baldoria, star senza lavorare, senza preoccupazioni e arricchire i miei amici e tutte le persone sapienti e dabbene. Ma mi consolo pensando che lo sarò nell’altro mondo, e anche più che ora non osi sperare. Con tal pensiero, o migliore, consolatevi anche voi nelle vostre disgrazie e bevete fresco, se si può.

Tornando a bomba vi dico che per sovrana grazia dei cieli l’antica genealogia di Gargantua ci è stata conservata più integra che altra mai, eccettuata quella del Messia, della quale non parlo, ché non è di mia pertinenza, e i diavoli inoltre (cioè i calunniatori e gl’ipocriti) vi si oppongono. Fu trovata da Jean Andreau in un prato che possedeva presso l’arco Gualeau, sotto l’Oliva, verso Narsay.

Scavando i fossati, le vanghe degli zappatori urtarono in una gran tomba di bronzo, smisurata, che mai non ne trovavano la fine addentrandosi essa troppo avanti nelle chiuse della Vienne. Scoperchiatala, in un punto segnato con un bicchiere, intorno al quale era scritto in caratteri etruschi: Hic bibitur, trovarono nove fiaschetti ordinati allo stesso modo de’ birilli in Guascogna. Quello che stava nel mezzo copriva un grosso, grasso, grande, grigio, vezzosetto, piccioletto, ammuffito libretto, odorante più forte ma non meglio che rose.

In esso fu trovata la detta genealogia scritta per disteso in lettere cancelleresche, non su carta, non su pergamena, non su tavolette cerate, ma su scorza d’olmo; tanto guaste tuttavia erano per vetustà le lettere, che appena se ne potevano decifrare tre di fila.

Fui chiamato io (benché indegno) e con gran rinforzo d’occhiali, praticando l’arte colla quale si possono leggere lettere invisibili come insegna Aristotele, la tradussi e la potrete vedere, pantagruelizzando, vale a dire bevendo e a vostro agio leggendo le gesta orrende di Pantagruele.

Alla fine del libro era un trattatello intitolato: Le fanfaluche antidotate. I topi e le tignole o (per evitar menzogna) altre maligne bestie, avevano brucato il principio: il resto per reverenza dell’antichità l’ho accomodato e trascritto qui sotto.

 

CAPITOLO II.

 

Le fanfaluche antidotate trovate in un monumento antico

 

…O… nuto il gran domator dei Cimbri

vie dell’aria, per paura della rugiada,

sua venuta traboccarono gli abbeveratoi

burro fresco giù piovente a ondate.

del quale quando la gran madre fu innaffiata,

Gridò a gran voce: “Messeri, pescatelo di grazia,

Ché la sua barba è quasi tutta inzaccherata:

O per lo meno reggetegli una scala”

 

Diceano alcuni che leccar la sua pantofola

Era meglio che penar per le indulgenze;

Ma sopravvenne un briccon matricolato,

Uscito dal buco dove si pescano i ghiozzi,

Il quale disse: “Messeri guardiamocene, per Dio,

L’anguilla c’è e si nasconde in questo banco.

Vi troverete (se scrutiamo ben da presso)

Una gran macchia in fondo alla mozzetta”.

 

Quando fu pronto a leggere il capitolo,

Non vi trovò che le corna d’un vitello.

“Io sento (egli dicea) in fondo alla mia mitria

Sì freddo da gelarmisi il cervello”.

Lo riscaldarono con fomenti di navone.

E fu contento di starsi al focolare

Purché si desse un nuovo caval da stanghe

A tanta gente dal carattere bisbetico.

 

Discorsero del pozzo di San Patrizio,

Di Gibilterra e di mille altri buchi,

Per veder se si potessero cicatrizzare,

Così che più non avesser tosse;

Poiché sembrava a tutti non pertinente

Vederli così sbadigliare ad ogni vento.

Se per avventura fossero chiusi ammodo

Si potrebbero darli per ostaggio.

 

Ciò stabilito, il corvo fu pelato

Da Ercole che veniva dalla Libia.

“Ché? disse Minosse, perché non vi sono chiamato anch’io?

Tutti sono invitati eccetto me;

E poi vogliono che passi la mia voglia

Di fornirli d’ostriche e ranocchie.

Che il diavolo mi porti se in vita mia

Io più m’assumo di vendere le loro conocchie.

 

Per domarli sopravvenne Q. B.