Degli strumenti musicali imparò a suonare il liuto, la spinetta, l’arpa, il flauto alemanno e quello a nove fori, la viola e il trombone.

Passata così un’ora e finita la digestione, si purgava degli escrementi naturali, poi si rimetteva al suo studio principale per tre ore o più, sia ripassando le cose lette il mattino, sia proseguendo il libro cominciato, sia esercitandosi a ben tracciare e comporre la scrittura gotica e la romana.

Uscivano poi dal palazzo con un giovane gentiluomo, turenese, lo scudiere Ginnasta, che gl’insegnava l’equitazione. Si cambiava vesti e montava un corsiero, un ronzino, un ginnetto, un barbero, un cavallo leggero, e li spingeva alla carriera, li faceva volteggiare in aria, varcar fossati, saltar palizzate, girare in tondo stretto, tanto a destra, come a sinistra. E non rompeva lancie poiché è la più gran sciocchezza del mondo dire: “Ho rotto dieci lancie in torneo, o in battaglia”. Un carpentiere può fare altrettanto; buon titolo di gloria è invece con una sola lancia averne rotto dieci nemiche. Colla sua lancia dunque, acciaiata, dura e rigida, fracassava una porta, sfondava una corazza, atterrava un albero, infilava un anello, abbatteva una sella da battaglia, un usbergo, una monopola ferrata. Ciò faceva coperto d’armatura da capo a piedi.

Quanto alle bravure e alle acrobazie sul cavallo, nessuno lo superava. Il volteggiatore di Ferrara non era che una scimmia in confronto. Abilissimo appariva nel saltare rapidamente dall’uno all’altro di quei cavalli detti desultori, senza toccar terra: montava in sella da ciascun lato, colla lancia in pugno e senza staffe, guidava il cavallo, senza briglia, a suo piacere, poiché tali esercizi sono alla militare disciplina utilissimi.

Un altro giorno si esercitava al maneggio dell’azza e sì valentemente l’agitava e in rudi puntate sospingeva, e agilmente mulinando calava, che fu promosso cavaliere d’armi in campagna e in ogni prova.

Poi brandiva la picca, impugnava lo spadone a due mani, la spada bastarda, la spagnuola, la daga, il pugnale, corazzato e non corazzato, con scudo, con cappa e con rondella.

Cacciava il cervo, il capriolo, il daino, il cinghiale, le pernici, i fagiani, le ottarde. Giocava al pallone e lo faceva balzare in aria e col piede e col pugno. Lottava, correva, saltava e non a tre passi e un salto, non a piè zoppo, non alla tedesca, poiché, diceva Ginnasta, tali salti erano inutili e di nessun beneficio in guerra; ma d’un salto varcava un fossato, sorvolava una siepe, montava di slancio sei passi contro un muro e s’arrampicava in questo modo a una finestra dell’altezza di una lancia.

Nuotava in acqua profonda diritto e arrovesciato, di lato, movendo tutto il corpo, o i soli piedi, con una mano in aria nella quale teneva un libro; e così traversava la Senna senza bagnarlo e traendo coi denti il suo mantello come Giulio Cesare. Poi appoggiandosi con una mano entrava in una barca dalla quale si rituffava a capofitto nell’acqua, sondava il profondo, s’insinuava tra le roccie, piombava negli abissi e nei gorghi. Quindi girava a suo piacere la barca, la dirigeva, la spingeva rapidamente, o adagio, secondo corrente e contro corrente, la fermava nel rapido delle chiuse, con una mano la guidava e con l’altra schermeggiava un gran remo, tendeva la vela, s’arrampicava sull’albero per le sartie, correva sui pennoni, aggiustava la bussola, tendeva le boline, sbandava il timone.

Uscito dall’acqua, scalava rudemente la montagna e con pari franchezza scendeva; montava sugli alberi come un gatto, saltava dall’uno all’altro come uno scoiattolo e ne abbatteva i grossi rami come Milone. Con due pugnali aguzzi e due picconi provati, saliva sul tetto d’una casa come un sorcio e balzava dall’alto a terra in posizione da non farsi mai alcun male.

Lanciava il dardo, la sbarra di ferro, la pietra, il giavellotto, lo spiedo, l’alabarda, tendeva l’arco, e tirava a forza di reni le forti balestre d’assedio, sparava l’archibugio ad occhio, affustava il cannone e tirava al bersaglio, al pappagallo, dal basso in alto, dall’alto in basso, di fianco e all’indietro come i Parti. Saliva e scendeva con le mani per una corda attaccata a un’alta torre, con la stessa agilità e sicurezza come se camminasse sopra un prato ben livellato.

Si appendeva per le mani ad una pertica sospesa ai capi a due alberi e andava e veniva colle mani a tale velocità che non si poteva raggiungerlo correndo.

E per tenere in esercizio torace e polmoni gridava come cento diavoli. Io l’ho udito una volta chiamare Eudemone dalla porta di San Vittore ed ero a Montmartre. Stentore non ebbe tal voce alla battaglia di Troia.

Per rinforzare i nervi gli avevano fabbricato due grossi salmoni di piombo che egli chiamava manubrii, del peso, ciascuno, di ottomila e settecento quintali; li afferrava uno per mano, li elevava sopra la testa e così li teneva tre quarti d’ora e anche più, prova di forza inimitabile.

Giocava alla barra coi più forti, e quando il momento venisse, si piantava sui piè rigidamente e sfidava i più robusti a smuoverlo dandosi per vinto a chi lo scotesse, come già faceva Milone; e ad imitazione di lui serrava una melagrana nel pugno, regalandola a chi potesse strappargliela.

Dopo aver occupato così il suo tempo, gli facevano i massaggi, si lavava, mutava vestito e se ne ritornava pian piano.

Passando per prati o altri luoghi erbosi, osservavano gli alberi e le piante richiamandosi ai libri degli antichi che ne hanno scritto, come Teofrasto, Dioscoride, Marino, Plinio, Nicandro, Macerio e Galeno, e ne portavano a piene mani a casa consegnandole a un giovane domestico chiamato Rizotoma a cui erano affidati insieme coi marrelli, le vanghe, i zappini, i badili, le roncole e altri strumenti necessari a ben erborizzare.

Arrivati a casa, mentre si preparava la cena, ripetevano passi delle letture fatte e sedevano a tavola.

Notate qui che il desinare era sobrio e frugale: non mangiava che per calmare i latrati dello stomaco: la cena invece era copiosa e larga e tanto vi si cibava quanto gli era necessario per sostenersi e nutrirsi, che è la vera dieta prescritta da buona e sicura medicina, checché consiglino in contrario un branco di sciocchi medici addestrati alla scuola dei sofisti.

Durante la cena continuava la lettura cominciata a desinare finché sembrasse opportuno; poi si conversava di argomenti letterari e utili.

Dopo l’orazione di ringraziamento si davano a cantare musicalmente, a suonare strumenti armoniosi, oppure si dilettavano di piccoli passatempi, colle carte, coi dadi e coi bussolotti e là restavano allegramente divertendosi qualche volta fino all’ora di dormire; qualche volta andavano a visitare i crocchi di letterati o di viaggiatori che giungevano da paesi stranieri.

Nel pieno della notte, prima di ritrarsi, salivano sulle terrazze della casa a osservar l’aspetto del cielo, e vi notavano le comete, se ve ne fossero, e le figure delle costellazioni, le posizioni, i rapporti, le opposizioni e le congiunzioni degli astri.

Poi, insieme col precettore ricapitolava brevemente, all’uso dei pitagorici, tutto ciò che aveva letto, visto, imparato, fatto o inteso nel corso di tutta la giornata.

Indi pregavano Dio creatore, adorandolo e confermando la loro fede in lui, e glorificandolo della sua bontà immensa, e rendendogli grazie di tutto il tempo passato, si raccomandavano alla sua divina clemenza per tutto l’avvenire.

Ciò fatto andavano a riposare.

 

CAPITOLO XXIV.

 

Come qualmente Gargantua occupava il tempo quando l’aria era piovosa.

 

Se faceva tempo piovoso e burrascoso, la mattinata era occupata come il solito; solo faceva accendere un bello e chiaro fuoco per correggere l’intemperie dell’aria. Ma, dopo desinare, invece d’uscire per la ginnastica, restavano a casa e, per apoterapia, si divertivano a imballare fieno, a spaccare e segar legna e a battere il grano nel granaio. Poi studiavano pittura e scultura, o richiamavano in uso l’antico gioco degli aliossi come lo descrive Leonico e come lo gioca il nostro buon amico Lascaris. Giocando ricordavano i passi degli antichi autori riferentisi a tal gioco e qualche metafora da esso suggerita.

Anche andavano a vedere come si lavoravano i metalli o come si fondeva l’artiglieria, o i lavori dei lapidari, orefici e incisori di gemme, degli alchimisti, dei coniatori di monete, dei fabbricanti di tappezzerie, tessuti e velluti; degli orologiai e degli specchiai, dei tipografi, dei fabbricanti d’organi, dei tintori e d’altrettali artigiani e offrendo vino, dappertutto, potevano conoscere a considerare l’industria e le invenzioni dei mestieri.

Andavano a sentire le lezioni pubbliche, gli atti solenni, le esercitazioni retoriche, i discorsi, le arringhe degli avvocati di grido, i sermoni dei predicatori evangelici.

Passava per le sale e luoghi destinati a esercizi di scherma e là si misurava coi maestri d’ogni arme e mostrava coi fatti di saperne quanto e più di loro.

Invece di erborizzare, visitavano le botteghe dei droghieri, erboristi, speziali e consideravano accuratamente frutti, radici, foglie, gomme, sementi, grassi esotici e anche come li adulteravano.

Andava a vedere giocolieri, saltimbanchi e ciarlatani e ne considerava i gesti, le astuzie, le capriole e le belle parlate, singolarmente di quelli di Chaunys in Picardia, che sono per natura gran chiacchieroni e abili spacciatori di frottole in materia di scimmie verdi.

Ritornati per la cena, mangiavano più sobriamente degli altri giorni e carni più disseccative e meno sostanziose, affinché la temperie umida dell’aria comunicata ai corpi per necessario contatto, fosse in questo modo corretta, e non soffrissero incomodo per non aver fatto ginnastica come il solito.

Così fu educato Gargantua, e con questa regola quotidiana profittava come si comprende dovesse profittare un giovane giudizioso della sua età, con un esercizio continuo, il quale, benché sembrasse difficile in principio, diveniva in seguito tanto dolce, lieve e piacevole da apparire passatempo regale, piuttosto che studio di scolaro.

Tuttavia Ponocrate per sollevarlo dalla veemente tensione mentale, sceglieva, una volta al mese, un giorno ben chiaro e sereno nel quale uscivano di città fin dal mattino e andavano o a Gentilly, o a Boulogne, o a Montrouge, o al ponte di Charanton, o a Vanves, o a Saint-Cloud. E là passavano tutta la giornata a far la più gran baldoria del mondo, scherzando, divertendosi, bevendo, giocando, cantando, danzando, voltolandosi sull’erba di qualche bel prato, snidando passerotti, cacciando quaglie, pescando rane e gamberi.

Ma, se la giornata passava senza libri e letture, non passava tuttavia senza profitto, poiché ripetevano a memorta dei versi delle Georgiche di Virgilio, di Esiodo, del Rusticus del Poliziano, componevano qualche piacevole epigramma latino e lo traducevano in rondò e ballate francesi.

Banchettando separavano l’acqua dal vino annacquato come insegna Catone nel De re rustica e Plinio, con un bicchiere fatto d’edera; lavavano il vino in una bacinella piena d’acqua, poi lo ritiravano con un imbuto e facevano passar l’acqua da un bicchiere a un altro; costruivano parecchi piccoli congegni automatici, vale a dire semoventi da se stessi.

 

CAPITOLO XXV.

 

Come qualmente sorse gran conflitto tra i focacceri di Lernè e quelli del paese di Gargantua, onde seguirono grosse guerre.

 

In quel tempo, era il principio dell’autunno, stagione delle vendemmie, i pastori della contrada che facevan guardia alle vigne per impedire agli stornelli di beccar l’uva, videro i focacceri di Lernè passare presso il quadrivio portando alla città dieci o dodici carichi di focaccie.

Essi chiesero cortesemente che ne vendessero loro qualcuna, al prezzo del mercato. Notate ch’è un mangiar di paradiso, far colazione d’uva e focaccia fresca; massimamente d’uva pinella, uva ficarola, moscatella, zibibbo, e d’uva cachereccia, che fa andar gli stitici come una fontana e spesso credendo scorreggiare se la fanno addosso, onde son chiamati cuideurs des vendanges.

Alla richiesta non consentirono i focacceri, anzi, ciò ch’è peggio, li insultarono grandemente chiamandoli affamati, sdentati, buffoni di pel rosso, galeotti, cacainletto, ragazzacci, lime sorde, fannulloni, leccapiatti, buzzoni, fanfaroni, cattivi soggetti, zoticoni, rompiscatole, rodibriciole, rodomonti, fiocchettoni, scimmiotti, lasagnoni, miserabili, macacchi, matti, zucconi, buggeroni, palloni, pitocchi, bovai da stronzi, pastori di merda ed altrettali epiteti diffamatori, aggiungendo che non eran pan pe’ lor denti quelle belle focaccie e ch’era anche troppo per loro grosso pan di crusca e pagnottaccia.

A quell’oltraggio uno dei pastori chiamato Forgier, onesto e valente giovanotto, rispose garbatamente:

- Da quando avete voi messo corna, che siete tanto arroganti? Diavolo! Una volta ce ne vendevate pure. Ed ora rifiutate! Non è questo il modo di trattare da buoni vicini; non v’accogliamo mica così noi quando venite a comprare il nostro bel frumento per fare pasticcini e focaccie. In cambio di focaccie vi avremmo dato la nostra uva; ma per la madre di Dio, potreste pentirvene: o un giorno o l’altro avrete a fare con noi: verrà la nostra volta, ricordatevene.

Allora Marchetto, gran gonfaloniere della corporazione dei focacceri gli disse:

- Ah, ah che galletto, e che cresta stamattina! Devi aver mangiato di molto miglio iersera. Vien qua, vien qua che ti darò le focaccie.

Forgier, s’avvicinò in tutta semplicità e trasse dalla cintura una moneta pensando che Marchetto gli avesse a spacchettare qualche focaccia; ma quegli gli menò una sì rude frustata sulle gambe da lasciarvi il segno di tutti i nodi, poi si diede a scappare; ma Forgier, gridando con quanto fiato aveva in gola: Soccorso! all’assassino! gli avventò il grosso randello che teneva sotto l’ascella, e lo colpì alla giuntura coronale della testa, sull’arteria crotafica della tempia destra in tal guisa, che Marchetto stramazzò dalla giumenta e meglio sembrava uomo morto che vivo.

Intanto i mezzadri che abbacchiavan le noci lì presso accorsero coi loro perticoni e giù addosso ai focacceri come battessero segala verde. Gli altri pastori e pastore, udendo le grida di Forgier sopraggiunsero con fionde e bracciali e via a inseguirli tempestando loro addosso una grandinata di pietre. Finalmente li raggiunsero e tolsero loro quattro o cinque dozzine di focaccie; tuttavia li pagarono al prezzo d’uso e diedero loro un centinaio di noci e tre ceste d’uva bianca. Poi i focacceri aiutarono a rimontare in sella Marchetto, malamente ferito, e invece di proseguire per Parilly, ritornarono a Lerne, minacciando forte i bovai pastori e mezzadri di Seuilly e di Cynays.

Pastori e pastore invece fecero gran baldoria con quelle focaccie e bella uva e se la spassarono insieme al suono della zampogna, ridendosi di que’ bei focacceri che avevano avuto mala sorte per non essersi segnati il mattino con la mano buona. Poi con sugo di grossa uva canina fecero una bella unzione sulle gambe di Forgier, che ne fu ben presto guarito.

 

CAPITOLO XXVI.

 

Come qualmente gli abitanti di Lernè, per comando del re loro Picrocolo, assalirono d’improvviso i pastori di Gargantua.

 

Tornati a Lernè i focacceri, senz’altro, prima ancora di mangiare e bere si recarono sul Campidoglio e là innanzi al re, chiamato Picrocolo, terzo di questo nome, presentarono i loro lagni mostrando i panieri rotti, i berretti gualciti, le vesti lacerate, le focaccie andate in malora e specialmente la enorme ferita di Marchetto e affermarono che tutto ciò era accaduto causa i pastori e mezzadri di Grangola, sul gran quadrivio dopo Seuilly.

Il re montò subito in furore e senza più chiedere né come né perché, fece gridare il bando per tutto il paese imponendo che ciascuno sotto pena d’impiccagione convenisse in armi sulla piazza grande davanti al castello nell’ora del mezzodì.

Per meglio confermare il suo disegno ordinò di dar dentro ai tamburi tutt’intorno alla città ed egli stesso, mentre preparavano il desinare, andò a far affustare l’artiglieria, spiegare bandiere ed orifiamme, e caricare gran quantità di munizioni da guerra e da bocca.

Desinando distribuì i comandi e fu per suo decreto stabilito che comandasse l’avanguardia il Signore Granpelo con sedicimila e quattordici archibugieri e trentacinquemila e undici fanti.

Il Grande Scudiero Toccaleone fu incaricato del comando dell’artiglieria composta di novecento quattordici grossi pezzi di bronzo, tra cannoni, doppi cannoni, basilischi, serpentine, colubrine, bombarde, falconi, passavolanti, spirole e altri pezzi.

La retroguardia fu affidata al duca Raspadanari, al centro si tenne il re coi principi del reame.

Così sommariamente ordinati, prima di mettersi in marcia inviarono trecento cavalleggeri sotto gli ordini del capitano Ingollavento per compiere ricognizioni nella regione e scoprire se vi fossero imboscate; ma dopo aver accuratamente esplorato, trovarono tutto il paese intorno tranquillo e silenzioso senza traccia di genti riunite.

Ciò inteso, Picrocolo comandò che tutti marciassero rapidamente dietro le loro bandiere.

Si misero dunque in campagna senz’ordine e misura, gli uni confusi con gli altri, guastando e distruggendo tutto per dove passavano senza risparmiare né ricco, né povero, né luogo sacro, né profano; portavano via buoi, vacche, tori, vitelli, manze, pecore, montoni, capre e caproni, galline, capponi, pollastri, paperi, oche, maiali, troie, porcellini. Bacchiavano le noci, vendemmiavano le vigne, estirpando anche le viti, squassavano tutte le frutta dagli alberi. Facevano un danno incomparabile e non trovarono alcuno che resistesse: tutti si rendevano a discrezione e li supplicavano di trattarli più umanamente, ricordando che in ogni tempo erano stati buoni vicini e amici, senza che essi mai avessero commesso né sopruso né offesa contro loro per essere così improvvisamente maltrattati; e che Dio li avrebbe presto puniti.