A quelle rimostranze nient’altro rispondevano se non che volevano insegnar loro a mangiare focaccie.

 

CAPITOLO XXVII.

 

Come qualmente un monaco di Seuilly salvò il brolo dell’abbazia dal saccheggio dei nemici.

 

Tanto fecero e tempestarono saccheggiando e rapinando, che arrivarono a Seuilly, ove spogliarono uomini e donne e portarono via ciò che poterono, nulla trovando troppo caldo o troppo pesante. Benché la peste fosse nella maggior parte delle case, entravano dappertutto, rubavano quanto v’era, e ciò ch’è mirabile, a nessuno colse malanno; i curati, vicari, predicatori, medici, chirurghi e farmacisti che andavano a visitare, curare, guarire, sermoneggiare e consigliare i malati, erano tutti morti del contagio; a quei diavoli di ladri ed assassini non capitò mai alcun male. Onde procede ciò, Signori? Pensateci, ve ne prego.

Dopo aver saccheggiato il borgo, si recarono all’abbazia con orribile tumulto, ma la trovarono ben serrata e chiusa, onde l’esercito principale passò oltre verso il guado della Vède; non si fermarono che sette bande di fanti e duecento lancie che abbatterono le mura di cinta per rovinare tutta la vendemmia.

I poveri diavoli di monaci non sapevano a che santo votarsi. Ad ogni buon conto fecero suonare ad capitulum capitulantes.

Là deliberarono di fare una bella processione rinforzata di bei cantici e litanie contra hostium insidias e corroborata di bei responsi pro pace.

Era nell’abbazia un monaco claustrale chiamato frate Gianni degli Squarciatori, giovane, gagliardo, agghindato, di buon umore, ben destro, ardito, avventuroso, risoluto, alto, magro, ben tagliato di bocca, ben provvisto di naso, svelto sbrigator di preghiere, rapido spacciatore di messe, magnifico sbarazzator di vigilie, e insomma, per farla corta vero monaco in monacheria; e, quanto al resto, ferrato fino ai denti in materia di breviario.

Sentendo egli il fracasso dei nemici dentro il recinto della vigna, uscì per vedere ciò che fosse e vedendo che vendemmiavano il vigneto nel quale era il bere di tutta l’annata, ritorna nel coro della chiesa dov’erano gli altri monaci, tutti sbalorditi come fonditori di campane, e sentendoli cantare Ini, nim, pe, ne, ne, ne, ne, ne, ne, ne, tum, ne, num, num, ini, i, mi, i, mi, co, o, ne, no o, o, ne, no, no, no, rum, ne, num, num:

- Ah, ah, diss’egli, ben caca… cantato! Ma dovreste, perdio, cantare:

 

Addio panieri, la vendemmia è fatta.

 

Do l’anima al diavolo se non sono già nella nostra vigna e se non tolgono uva e pampini così bene che, corpo di Dio, non ci sarà più modo di coglier uva per quattr’anni. E che berremo intanto noi poveri diavoli, pel ventre di San Giacomo? Oh, Signore Iddio, da mihi potum!

- Che fa qui quest’ubriacone, disse il priore del convento, mettetelo in prigione. Turbare così il servizio divino!

- Ma, disse il monaco, il servizio del vino facciamo sì che non sia turbato! poiché a voi stesso signor Priore, piace ber del migliore. E così fa ogni uomo dabbene; mai uomo nobile odiò buon vino: è questo un apoftegma monacale. Ma le antifone che state ora cantando non sono di stagione.

Perché credete che le vostre ore di breviario siano corte al tempo delle messi e delle vendemmie e lunghe per l’avvento e durante l’inverno? Il defunto Frate Macé Pelosse di buona memoria, vero zelatore (o io do l’anima al diavolo) della nostra religione, mi disse, lo ricordo, che così era perché in questa stagione, si possa ben pigiare e fare quel vino che d’inverno s’ha poi a bere.

Ascoltatemi, signori! Chi ama il vino, corpo di Dio, mi segua! E arditamente, e che mi bruci Sant’Antonio se gusteranno più il sugo coloro che non soccorsero la vigna! I beni della chiesa, ah ventre di Dio! Ah, no, no! Diavolo! Per essi volle morire San Tommaso l’Inglese! Se morissi anch’io non sarei santo del pari? Ma non morrò tuttavia, poiché io farò morire gli altri.

Ciò dicendo si sbarazzò della lunga tonaca, afferrò l’asta della croce che era di cuor di corniolo, lunga come una lancia, tonda e adatta a bene impugnarsi e incisa qua e là di fiori di giglio quasi totalmente scomparsi. Saltò fuori in casacca colla sua cocolla a mò di sciarpa e coll’asta della croce piombò di colpo sui nemici. Vendemmiavano essi nella vigna senza bandiere, né tromba, né tamburo, poiché i portaguidoni e portabandiera avevano lasciato guidoni e bandiere presso il muro e i tamburini avevano sfondato da una parte i tamburi per riempirli d’uva, le trombe erano cariche di grappoli e di tralci, tutti erano sbandati. Egli dunque, così tremendamente piombò loro addosso senza dir né ahi né bai, che li rovesciava come porci picchiando per diritto e per traverso secondo la vecchia scherma.

Agli uni sfracellava il cervello, agli altri spezzava braccia e gambe, ad altri slogava le vertebre del collo, ad altri demoliva le reni, asportava il naso, sacramentava gli occhi, fendeva le mascelle, cacciava i denti in gola, sfondava gli omoplati, stritolava le gambe, sgangherava gli ischi, frantumava le ossa.

Se qualcuno tentava nascondersi tra i pampini più spessi, gli sbriciolava la spina dorsale e lo stroncava come un cane.

Se qualcuno voleva salvarsi fuggendo, gli faceva volar la testa a pezzi fracassandogli la sutura lamboidale.

Se qualcuno si arrampicava sopra un albero, pensando mettersi al sicuro, lo impalava colla sua asta per il culo.

Se qualche vecchio suo conoscente gli gridava:

- Oh, frate Gianni, amico mio, Frate Gianni, io m’arrendo!

- Per forza! esclamava egli; ma insieme renderai l’anima a tutti i diavoli.

E giù botte. E se alcuno fosse stato sì temerario da resistergli di fronte, allora mostrava la forza de’ suoi muscoli e gli trapassava il petto traforando mediastino e cuore.

Ad altri, picchiando tra costa e costa, arrovesciava lo stomaco e morivano sull’istante.

Altri colpiva sì fieramente all’ombelico che gli uscivano le trippe. Ad altri attraverso i coglioni traforava il budello culare. Era, credete, il più orribile spettacolo che si vedesse mai.

Gli uni gridavano: Oh Santa Barbara!

Gli altri: Oh, San Giorgio!

Gli altri: Oh, Santa Nytouche!

Gli altri: Oh, Madonna di Cunault! di Loreto! delle Buone Novelle, della Lenou! della Riviera!

Gli uni si votavano a San Giacomo; gli altri al santo sudario di Chambery, ma s’incendiò tre mesi dopo talché non se ne poté salvare un brandello; gli altri a quello di Cadouyn; gli altri a San Giovanni d’Angery; gli altri a Sant’Eutropio di Saintes, a San Massimo di Chinon, a San Martino di Candes, a San Claudio di Sinays, alle reliquie di Javrezay e a mille altri buoni santucci.

Gli uni morivano senza parlare, gli altri parlavano senza morire; gli uni morivano parlando gli altri parlavano morendo.

Altri ancora gridavano a gran voce: “Confessione! Confessione! Confiteor! Miserere! In Manus!”

Fu sì grande il gridare dei feriti che il priore dell’abbazia e tutti i monaci uscirono e quando videro quella povera gente caduta nella vigna e ferita a morte, ne confessarono qualcuno. Ma mentre i preti s’indugiavano a confessare, i fraticelli corsero al luogo dov’era Frate Gianni e gli domandarono come potessero aiutarlo. Ed egli rispose che sgozzassero i caduti. Ed essi, appese le loro gran cappe a un pergolato vicino, cominciarono a sgozzare e finire i feriti a morte. E sapete con quali ferri? Colle roncolette, quei piccoli mezzi coltelli coi quali i ragazzi sbucciano le noci.

Poi, Frate Gianni, sempre colla sua brava croce, raggiunse la breccia che avevano fatta i nemici. Alcuno dei fraticelli portarono nelle loro camere bandiere e guidoni per farsene delle giarrettiere. Ma quando quelli che s’erano confessati vollero uscire da quella breccia, il monaco li tempestava di colpi dicendo:

- Questi qui son confessati e pentiti, hanno guadagnato l’indulgenza e se ne vanno in paradiso dritti come un falcetto o come la strada della Faye.

Così, per la sua prodezza furono sbaragliati tutti i soldati entrati nella vigna in numero di tredicimila seicento e venticinque, senza contare le donne e i bambini, sempre sottinteso.

Mai e poi mai l’eremita Maugis fu sì valoroso col suo bordone contro i Saraceni, come è scritto nelle Geste dei quattro figli d’Aimone, quanto il nostro monaco contro i nemici coll’asta della croce.

 

CAPITOLO XXVIII.

 

Come qualmente Picrocolo prese d’assalto la Roche Clermault e con quale dolore e difficoltà Grangola si mise in guerra.

 

Mentre il monaco scaramucciava, come abbiamo detto, contro gl’invasori della vigna, Picrocolo rapidissimamente passò co’ suoi il guado della Vède, assalì la Roche Clermault senza trovar resistenza ed essendo già notte deliberò di alloggiare colle sue genti nella città e ristorarsi del brucior della collera.

Il mattino prese d’assalto i bastioni e il castello e lo fortificò a modo, fornendolo delle munizioni necessarie, poiché pensava di ritrarsi colà caso mai fosse assalito da altre parti, essendo il luogo forte e per arte e per natura, grazie alla situazione e posizione sua.

Ma ora lasciamoli là e torniamo al nostro buon Gargantua rimasto a Parigi tutto inteso allo studio delle buone lettere e agli esercizi ginnastici, torniamo al buon vecchio Grangola suo padre che, dopo cena, si riscalda i coglioni a un bello chiaro e gran fuoco intento ad arrostir le castagne e a far disegni sulla cenere, col paletto bruciato all’un dei capi col quale si attizza al fuoco, raccontando alla sua donna e ai famigliari belle storie del tempo andato.

Uno dei pastori che facevano guardia alle vigne, nominato Pierotto, si recò da lui in quell’ora e raccontò per filo e per segno le violenze e il saccheggio che Picrocolo, re di Lernè, commetteva nelle sue terre e domini, e come aveva depredato guasto e saccheggiato tutto il paese, eccetto la vigna di Seuilly salvata, ad onor suo, da Frate Gianni degli Squarciatori, e come presentemente il detto re fosse colle sue genti alla Roche Clermault dove si fortificava in gran fretta.

Ahimè! Ahimè! disse Grangola, che è questo, buona gente? Sogno od è vero ciò che mi si dice? Picrocolo mi viene ad assalire! Picrocolo il mio vecchio amico d’ogni tempo, e di tutta la mia razza e parentela! Chi lo muove? Chi lo punge? Chi lo mena? Chi l’ha così consigliato? Oh! Oh! Oh! Oh! Oh! Mio dio, mio Salvatore, aiutami, ispirami, consigliami sul da farsi. Io affermo davanti a te - così mi sia concesso il tuo favore - che mai feci a lui dispiacere, né danno alle sue genti, né saccheggio alle sue terre; anzi, per contro, l’ho soccorso di uomini, di danaro, di favore e di consiglio in tutti i casi che ho potuto conoscere l’utile suo. S’egli mi ha oltraggiato a questo segno non può derivare che dallo spirito maligno. Buon Dio, tu conosci il mio cuore, ché a te nulla può essere celato; se per caso fosse diventato furioso e tu me l’avessi inviato qui per risanare il suo cervello, concedimi di potere e sapere renderlo con buona cura al giogo del tuo santo volere.

Oh! Oh! Oh! mie buone genti, miei amici, miei fedeli servitori, bisognerà che io vi disturbi per aiutarmi? Ahimè! La mia vecchiaia non domandava d’ora innanzi che riposo; in tutta la mia vita non ho cercato che pace, ma bisogna, lo vedo bene, che ora carichi d’armatura le mie povere spalle stanche e deboli e che la mia mano tremante impugni la lancia e la mazza per soccorrere e difendere i miei poveri sudditi. E a ben giusta ragione, se dal loro lavoro son mantenuto, del loro sudore nutrito, io, i miei figlioli, la mia famiglia.

Tuttavia non moverò guerra che prima non abbia tentato tutte le arti e vie della pace, in questo son fermo.

Fece dunque convocare il consiglio e presentata la situazione così come stava, fu concluso che s’inviasse a Picrocolo un uomo prudente a chiedere perché così d’improvviso avesse rotto la pace invadendo terre alle quali non aveva nessun diritto: inoltre che si mandasse a chiamare Gargantua e la sua gente per difendere il paese in questo frangente.

Piacquero a Grangola le proposte e comandò che così si facesse.

Inviò dunque subito il Basco, suo domestico, a cercare in tutta fretta Gargantua e gli scrisse così come segue:

 

CAPITOLO XXIX.

 

Il tenore della lettera che Grangola scrisse a Gargantua.

 

“Il fervore de’ tuoi studi richiedeva che per lungo tempo non ti distraessi da cotesta filosofica quiete, se la mancata fede dei nostri antichi amici e confederati non minacciasse ora la sicurezza della mia vecchiaia. Ma poiché vuole questo fatale destino che da coloro io sia inquietato nei quali più riponeva fiducia, mi è forza richiamarti a difesa delle genti e dei beni che per naturale diritto ti son confidati.

Poiché, come deboli sono le armi all’esterno se non è senno nella propria casa, così vano è lo studio e inutile il senno se in tempo opportuno non siano adoperati e con virtù messi in atto.

È mio proposito non provocare anzi recar pace; non assalire, ma difendere; non conquistare, ma proteggere i miei fedeli sudditi e le terre ereditarie nelle quali Picrocolo è entrato da nemico senza causa né ragione, e va proseguendo la sua pazza impresa con violenze non tollerabili da persone libere.

Ho creduto mio dovere, per calmare la sua collera e prepotenza, di offrirgli quanto pensavo potesse soddisfarlo e più volte gli ho inviato amichevoli messaggi per sapere in che, da chi e come si sentisse oltraggiato: ma non ebbi per tutta risposta che la sua intenzione di sfidarmi, non altro diritto egli accampando, che di fare sulle mie terre ciò che gli aggrada. Onde ho conosciuto che il Sempiterno Iddio l’ha abbandonato alla guida del suo solo arbitrio e della sua passione la quale non può essere che cattiva se dalla grazia divina non è continuamente illuminata. Certo, per contenerlo nel dovere e rimetterlo in senno, Dio l’ha inviato contro me con ostili bandiere.

Pertanto, figlio mio amatissimo, appena ricevuta qluesta lettera, il più presto che potrai, ritorna in fretta a soccorrere non tanto me (come tuttavia per naturale pietà è tuo dovere) quanto i tuoi che di ragione puoi salvare e proteggere.

L’impresa sarà condotta colla minore effusione di sangue; e, se sia possibile, coi più adatti congegni, colle precauzioni ed astuzie di guerra, salveremo tutti gli uomini e li rimanderemo lieti alle loro case.

La pace di Cristo, Redentore nostro, sia con te, figlio carissimo. Saluta per me Ponocrate, Ginnasta, Eudemone.

Il giorno ventesimo di Settembre.

Tuo padre Grangola”.

 

CAPITOLO XXX.

 

Come qualmente Ulrico Galletto fu inviato a Picrocolo.

 

Dettata e firmata la lettera, Grangola ordinò che il suo referendario Ulrico Galletto, uomo saggio e discreto, del quale aveva sperimentato la virtù e il senno in diversi affari contenziosi, andasse a Picrocolo per rimostrargli ciò che da loro era stato deliberato.

Partì subito il buon Galletto e, passato il guado, domandò al mugnaio notizie di Picrocolo. Il mugnaio gli disse che le soldatesche non gli avevan lasciato né gallo né gallina, ch’erano chiusi a La Roche Clermault e lo sconsigliava di procedere oltre per paura delle sentinelle: erano furibondi.

Galletto non ebbe difficoltà a crederlo e per quella notte alloggiò dal mugnaio.

L’indomani mattina si recò col trombettiere alla porta del castello e chiese alle guardie che gli lasciassero parlare al re per suo bene.

Il re avvertito, non consentì gli si aprisse la porta, ma salì sui bastioni e disse all’ambasciatore:

“Che c’è di nuovo? Che avete da dire?”

E l’ambasciatore espose l’ambasciata come segue:

 

CAPITOLO XXXI.

 

L’arringa di Galletto a Picrocolo.

 

“Nessuna più giusta cagion di dolore pei mortali che l’incontrare offesa e danno là dove per diritto operare speravano favore e benevolenza.

E non senza causa (se pure senza ragione) molti in quella disgrazia caduti, hanno tale iniquità stimato men tollerabile della lor propria vita e non pervenendo, né per forza, né per ingegno a porvi riparo, di propria mano, si privarono della luce.

Non è dunque meraviglia se alla tua furiosa e ostile invasione l’animo del re Grangola, mio sovrano, di fiero dolore è percosso e la sua mente turbata. Meraviglia sarebbe se non l’avessero commosso gli eccessi incomparabili che sulle sue terre e sui sudditi suoi sono stati da te e dalle tue genti perpetrati, nessun esempio d’inumanità risparmiando, di che tanta afflizione ha sofferto, per l’affetto cordiale onde ai sudditi fu sempre legato, che alcun uomo mortale più non potrebbe.