Oh, se mi faceste vostro luogotenente, v’ammazzo un soldo per un uomo. Io mordo, abbatto, picchio, afferro, uccido, rinnego!
- Su, su, disse Picrocolo, che tutto sia pronto e chi mi ama mi segua!
CAPITOLO XXXIV.
Come qualmente Gargantua lasciò la cittá di Parigi per soccorrere il suo paese e come Ginnasta incontrò i nemici.
Intanto Gargantua partito da Parigi appena letta la lettera del padre, cavalcando la sua grande giumenta aveva già passato il ponte della Nonnain insieme con Ponocrate, Ginnasta, ed Eudemone, i quali per seguirlo avevano preso cavalli di posta. Il resto della sua gente veniva a piccole giornate conducendo tutti i libri e strumenti di studio. Arrivato a Parilly, fu avvertito dal massaro di Gouguet che Picrocolo s’era fortificato alla Roche Clermault e aveva inviato il Capitano Trippetto con un grosso esercito ad assalire il bosco della Vède e Vaugaudry e che avevano svaligiato tutti i pollai fino al frantoio Billard, commettendo tali violenze nel paese, che era stranamente difficile a credere. Gargantua rimase impressionato e non sapeva più che dire e che fare.
Ma Ponocrate consigliò che si recassero dal Signor di Vauguyon che era stato in ogni tempo loro amico e confederato, il quale di tutto li avrebbe meglio informati. Così fecero incontinente e lo trovarono ben risoluto a soccorrerli. Egli propose di inviare qualcuno della sua gente in ricognizione per esplorare il paese e la situazione dei nemici e procedere secondo i disegni più convenienti al momento.
Ginnasta si offrì di andare, ma fu ritenuto preferibile fosse accompagnato da qualcuno che conoscesse le vie, i sentieri e i corsi d’acqua dei dintorni.
Partirono dunque lui e Prelinguand, scudiero di Vauguyon ed esplorarono da ogni parte senza paura. Intanto Gargantua si ristorò e rifocillò alquanto colle sue genti e fece dare alla giumenta una razione d’avena, cioè settantaquattro moggi e tre staia.
Ginnasta e il suo compagno tanto cavalcarono che incontrarono i nemici. Tutti sparpagliati e in disordine essi stavano saccheggiando e rubando quanto trovavano e non appena lo scorsero da lungi accorsero a lui in folla per spogliarlo. Ed egli gridò loro: “Signori, sono un povero diavolo, abbiate pietà di me! Ho ancora qualche scudo, noi lo berremo insieme poiché è aurum potabile; e venderemo questo cavallo per pagare le spese della bicchierata; e poi consideratemi dei vostri, giacché nessuno mai seppe prendere lardare, arrostire e condire, e, per Dio, smembrare e insaporire pollastri meglio di me, qui presente; e per il mio proficiat bevo alla salute di tutti i buoni compagnoni”.
Allora stappò la sua boraccia e, senza mettervi il naso dentro, beveva assai onestamente. I bricconi lo guardavano spalancando la bocca di un buon piede e tirando fuori la lingua come levrieri, in attesa di bere anche loro; ma in quel momento accorse Trippetto, il capitano, per vedere che avvenisse. Ginnasta gli offrì la sua boraccia dicendo:
- A voi capitano, bevete arditamente: lo ho assaggiato, è vino di La Foye Monjault.
- Come! disse Trippetto, questo burlone si fa gioco di noi! Chi sei?
- Sono un povero diavolo, disse Ginnasta.
- Ah, disse Trippetto; poiché sei un povero diavolo, è giusto che tu abbia libero il passo; i poveri diavoli passano dappertutto senza pedaggi, né gabella; ma non è costume di poveri diavoli esser sì ben montati, perciò scendete, messer diavolo, che io ne abbia il ronzino e se non mi porta bene, mi porterete voi, mastro diavolo, poiché mi piace assai che un tal diavolo mi porti.
CAPITOLO XXXV.
Come qualmente Ginnasta uccise bellamente il capitano Trippetto e altre genti di Picrocolo.
Udite queste parole, alcuni dei presenti cominciarono ad aver paura e si segnavano a due mani pensando fosse un diavolo travestito. E uno di loro, chiamato Buon Giovanni, capitano dei franchitopini, estrasse dalla braghetta il suo breviario e gridò ad alta voce: “Aghios o theòs! Se tu sei di Dio, parla, se tu sei dell’Altro, vattene”, Ginnasta non si mosse. E allora molti della banda, che avevano inteso, si squagliarono, mentre egli tutto osservava e considerava.
A un tratto fece finta di scendere da cavallo inclinando a sinistra, e appendendosi leggermente allo staffile, pur con la sua spada bastarda al fianco, guizzò di sotto il ventre e balzò in aria dall’altra parte cadendo ritto in piedi sulla sella col culo voltato verso la testa del cavallo.
- Toh, disse, il mio cazzo va a rovescio!
E là dov’era si diè a piroettare sopra un sol piede girando a sinistra e riprendendo la sua posizione senza sbagliar di un’unghia.
- Ah, esclamò Trippetto, non è affare mio codesto, per ora! E n’ho le mie buone ragioni.
- Merda! disse Ginnasta, ho sbagliato, bisogna disfare il salto.
E allora, con tutta forza e agilità si diè a piroettare come prima, girando a dritta poi, puntando il pollice della destra sull’arcione della sella, s’inalberò in verticale coi piedi in aria sostenendo tutto il corpo sui muscoli e nervi del detto pollice e fece così tre giri su se stesso. Al quarto, senza nulla toccare, balzò in orizzontale sospendendo il corpo teso tra le orecchie del cavallo e sul perno del pollice sinistro eseguì il mulinello; poi, appoggiando la destra in mezzo alla sella, prese lo slancio e andò a sedere sulla groppa come le damigelle. Quindi, sorvolando la sella comodamente colla gamba destra, si mise a cavalcioni sulla groppa.
- Però è meglio, disse, che mi aggiusti tra gli arcioni.
E poggiati i due pollici davanti a sé sulla groppa, fece una capovolta col culo in aria e si trovò in sella elegantissimo; poi d’un balzo si drizzò in aria e si tenne coi piè giunti tra gli arcioni dove fece più di cento giri su sé stesso colle braccia stese a croce gridando a gran voce:
- Infurio, diavoli, infurio, infurio! Tenetemi diavoli, tenetemi, tenetemi!
Vedendolo così volteggiare i bricconi trasecolati si dicevano l’un l’altro:
- Per la Madonna, è un folletto o un diavolo travestito: Ab hoste maligno libera nos domine! E se ne fuggivano disperatamente guardando dietro a sé come un cane che porta via un’ala d’oca.
Allora Ginnasta, cogliendo il momento favorevole, scende da cavallo, sguaina la spada e a gran colpi si lancia sui più impennacchiati abbattendoli a mucchi feriti, piagati, tramortiti e nessuno gli teneva testa pensando che fosse un diavolo affamato, sia pei mirabili volteggiamenti, sia per
le parole di Trippetto che l’aveva chiamato “povero diavolo”. Tuttavia Trippetto, a tradimento, tentò fendergli il cervello colla sua spada lanzichenecca; ma Ginnasta era ben corazzato e di quel colpo non sentì che la botta. Voltatosi pronto egli lanciò a Trippetto una stoccata volante, e mentre quegli riparava al capo gli squarciò d’un colpo lo stomaco, il colon, metà del fegato, onde cadde a terra e cadendo buttò fuori quattro pentole di zuppa e, mescolata colla zuppa, l’anima.
Ciò fatto Ginnasta si ritirò considerando che non bisogna abusare della fortuna forzandola fino all’estremo, e che si addice a cavaliere trattare con reverenza la buona ventura senza molestarla, o violentarla. E rimontato a cavallo diè di sprone prendendo dritto la strada di Vauguyon. E Prelinguand con lui.
CAPITOLO XXXVI.
Come qualmente Gargantua demolì il castello del guado della Vède e come il guado fu passato.
Giunto Ginnasta, descrisse come aveva trovato i nemici e lo stratagemma usato, lui solo contro tutta la loro caterva e affermò che erano nient’altro che bricconi, predoni e briganti, ignoranti dell’arte militare e che arditamente si mettessero in marcia che sarebbe stato loro assai facile ammazzarli come bestie.
Montò dunque Gargantua sulla sua grande giumenta accompagnato come dianzi abbiamo detto. E incontrando per la strada un alto e grosso ontano, chiamato comunemente l’albero di San Martino perché si credeva cresciuto da un bordone piantatovi già da San Martino, disse:
- Ecco ciò che mi occorre: quest’albero mi servirà di bordone e di lancia.
E lo svelse facilmente da terra, ne sfrondò i rami e lo accomodò a suo piacere. Intanto la giumenta pisciò a sollievo del ventre; ma con tale abbondanza che ne fece sette leghe di diluvio; la pisciata defluendo al guado della Vède tanto gonfiò la corrente, che tutta quella banda di nemici furono annegati molto orrendamente, eccetto alcuni che avevano preso il sentiero verso le colline a sinistra.
Gargantua giunto all’altezza del bosco della Vède, fu avvisato da Eudemone che alcuni nemici erano rimasti dentro il castello; per accertarsene Gargantua gridò:
- Ci siete o non ci siete? Se ci siete non ci siate più, se non ci siete non ho altro a dire. Ma un ribaldo cannonniere che stava alle feritoie gli sparò una cannonata e lo colse alla tempia destra furiosamente: tuttavia non gli fece più male che se gli avessero tirato una prugna.
- Che è? disse Gargantua, ci gettate dei chicchi d’uva? La vendemmia vi costerà cara.
E pensava davvero che si trattasse d’un acino d’uva. Quelli che erano dentro il castello, distratti a saccheggiare, sentendo il rumore accorsero alle torri e fortezze e gli spararono più di novemila e venticinque colpi di falconetto e archibugio, mirando tutti alla testa; e sparavano così fitto contro lui che egli gridò:
- Ponocrate, amico mio, queste mosche mi acciecano, datemi un ramo di quei salici da cacciarle via.
Eran palle di piombo e pietre d’artiglieria ed egli pensava che fossero mosche bovine. Ponocrate l’avvertì che non si trattava di mosche, ma di colpi di artiglieria sparati dal castello. Allora egli percosse del suo grosso albero contro il castello e a gran colpi abbattè torri e fortezze e ridusse tutto in rovina, onde furono morti e messi a pezzi quelli che vi erano dentro.
Partiti di là, arrivarono al ponte del mulino e trovarono tutto il guado talmente coperto e affollato di cadaveri che n’era ingorgato il corso del mulino. Erano quelli periti nel diluvio urinale della giumenta. Là stettero sovra pensiero domandandosi come avrebbero potuto passare dato l’impedimento di quei cadaveri. Ma Ginnasta disse:
- Se vi son passati i diavoli vi passerò benissimo anch’io.
- I diavoli, disse Eudemone, vi son passati per portar via le anime dannate.
- Per San Tregnano! disse Ponocrate, e dunque, per conseguenza necessaria, vi passerà anche lui.
- Giusto, giusto, disse Ginnasta, se no resterò per istrada. E dato di sprone al cavallo passò oltre francamente senza che mai il cavallo si spaurisse dei corpi morti.
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