Infatti l’aveva accostumato secondo l’insegnamento di Eliano a non spaventarsi né delle armi, né dei corpi morti; non uccidendo uomini, come Diomede che uccideva i Traci e Ulisse che metteva i corpi dei nemici ai piedi dei suoi cavalli, secondo racconta Omero, ma mettendogli un fantoccio tramezzo il fieno, o facendovelo passar su, quando gli dava l’avena. I tre altri lo seguirono senza inconvenienti, eccetto Eudemone il cui cavallo affondò il piè diritto fino al ginocchio nel ventre d’un grosso e grasso villano, annegato là a pancia all’aria, né poteva districarsi.
E rimase così impantanato finché Gargantua colla punta del bastone affondò nell’acqua il resto delle trippe del villano mentre il cavallo alzava il piede. E (ciò che è mirabile in ippiatria) il detto cavallo fu guarito da un tumore che aveva nel piede, grazie all’unzione delle budella di quel grosso briccone.
CAPITOLO XXXVII.
Come qualmente Gargantua, pettinandosi, faceva cadere dai capelli proiettili d’artiglieria.
Superata la riva della Vède, poco dopo arrivarono al castello di Grangola che li attendeva con ansia. All’arrivo di Gargantua gli fecero una festa senza pari. Mai e poi mai videsi gente più allegra. Il Supplementum supplementi chronicorum dice che Garganella ne morì di gioia, quanto a me non ne so proprio nulla e ben poco mi curo di lei, né d’altra. La verità è che Gargantua, mutati abiti e pettinandosi col suo pettine (era lungo cento pertiche e fitto di gran denti d’elefante tutti interi) faceva cadere ad ogni pettinata, più di sette balle di palle rimastegli nei capelli alla demolizione del bosco della Vède.
A quella vista Grangola suo padre, pensando fossero pidocchi gli disse:
- Ohe, mio buon figliolo, ci hai portato fin qui sparvieri di Monteacuto? Non intendevo che là tu facessi residenza.
- Signore rispose Ponocrate, non pensate ch’io l’abbia messo nel collegio dei pidocchiosi che si chiama Montacuto; so che c’è tanta crudeltà e tanta sporcizia che avrei preferito metterlo fra gli straccioni di Sant’lnnocenzo - Assai meglio sono trattati i forzati fra Mori e Tartari, gli assassini nelle prigioni criminali, meglio certo i cani nella vostra casa, che non siano i disgraziati in quel collegio. E se io fossi re di Parigi, il diavolo mi porti se non v’appiccherei il fuoco e farei bruciare il capo ai rettori che sopportano sotto i loro occhi tale inumanità.
E raccogliendo poi una di quelle palle:
- Sono cannonate, disse, che i nemici traditori hanno sparato su vostro figlio Gargantua quando passava davanti al bosco della Vède. Ma essi in cambio sono tutti periti nella rovina del castello, come i Filistei per opera di Sansone, e quelli che schiacciò la torre di Siloè, dei quali è scritto in S. Luca, XIII.
Ed ora son d’avviso che incalziamo i nemici mentre la fortuna è propizia, l’occasione ha i capelli sulla fronte; quand’è passata, non potrete richiamarla, è calva dietro il capo e non ritorna più.
- Sì, disse Grangola, ma non ora subito, questa sera voglio farvi festa e siate i benvenuti!
Ciò detto fu preparata la cena e in più del consueto furono arrostiti sedici buoi, tre manze, trentadue vitelli, sessantatre caprioli lattonzoli, novantacinque pecore, trecento porcellini di latte con salsa di mosto, duecento e venti pernici, settecento beccaccie, quattrocento capponi del Ludunese e della Cornovoglia, seimila pollastri e altrettanti piccioni, seicento gallinelle, mille e quattrocento leprotti, trecento e tre ottarde e millesettecento capponcelli. Non molta cacciagione si poté procurare così all’improvviso; non v’erano che undici cinghiali inviati dall’abate di Turpenay e diciotto fra daini, cervi e caprioli regalati dal signore di Granmont, più venti fagiani mandati dal signore di Essars e qualche dozzina di colombacci, d’uccelli acquatici, di arzavole, tarabusi, chiurli, pivieri, francolini, oche selvatiche, pizzacheretti, vannelli, palettoni, pavoncelle, aironetti, folaghe, tadorne, gazze, cicogne, oche granaiuole, fiammanti (cioè fenicotteri) terragnoli, dindi, gran quantità di gnocchetti e rinforzo di minestre.
Senza alcun dubbio i viveri abbondavano e furono cucinati a modino da Pestasalsa, Scuotipentola e Rubagresto, cuochi di Grangola. Giannotto, Michele e Gottochiaro, prepararono assai bene da bere.
CAPITOLO XXXVIII.
Come qualmente Gargantua mangiò sei pellegrini in insalata.
L’argomento richiede che raccontiamo ciò che occorse a sei pellegrini i quali venivano da San Sebastiano presso Nantes e, per paura dei nemici, s’erano nascosti per passarvi la notte, sopra uno strato di gambi di piselli, tra i cavoli e le lattughe dell’orto. Gargantua sentendosi un po’ di riscaldo domandò se gli si poteva trovare delle lattughe per fargli un’insalata.
E sentendo che ve n’erano e le più belle e grandi del paese, ché erano vaste come alberi di prugne e di noci, volle andare a coglierne lui stesso e ne prese una manata, con dentro i sei pellegrini, i quali avevano sì gran paura da non osar né parlare e nemmeno tossire.
Mentre dunque risciacquava dapprima la lattuga alla fontana, i pellegrini dicevano a voce bassa tra loro: “Che fare? Finiremo per annegare dentro queste lattughe, dobbiamo parlare. Ma se parliamo ci ammazzerà come spie”. E mentre così ragionavano, Gargantua li mise colle lattughe dentro una gran terrina della casa, grande come la botte di Cisteaux e, conditi con olio aceto e sale li mangiava per rinfrescarsi prima di cena, e aveva già ingoiato cinque pellegrini; il sesto rimaneva nel piatto nascosto sotto una foglia meno il suo bordone che spuntava al disopra. Vedendolo Grangola disse a Gargantua:
- Ma pare ci sia un corno di lumaca, non lo mangiate.
- Perché? disse Gargantua, per tutto il mese le lumache son buone.
E tirando il bordone con attaccato il pellegrino se lo mangiò egregiamente. Poi ci bevve su una tremenda sorsata di vino pinello aspettando che preparassero la cena.
I pellegrini così ingoiati scansarono il meglio che poterono le mole de’ suoi denti, e pensavano che egli li avesse messi in qualche profonda fossa di prigione; e quando Gargantua bevve la gran sorsata credettero di annegare nella sua bocca, e il torrente del vino li travolse fin quasi nell’abisso del suo stomaco; tuttavia saltando coi loro bordoni come fanno i michelotti poterono ricoverarsi alle falde dei denti.
Ma, per disgrazia, uno di essi scandagliando il terreno col bastone, per accertarsi se fossero al sicuro, urtò rudemente nell’apertura d’un dente cariato e colpì il nervo della mandibola, onde Gargantua provò un acuto dolore e si diede a gridare dallo spasimo. Per alleviare il male fece portare il suo stuzzicadenti e uscito verso il noce groliero, snidò i signori pellegrini afferrando l’uno per le gambe, l’altro per le spalle, l’altro per la bisaccia, l’altro per la borsa, l’altro per la sciarpa. Il povero disgraziato che l’aveva colpito col bordone, lo uncinò per la braghetta; tuttavia fu gran fortuna per lui poiché gli spaccò un bubbone inguinale che lo martirizzava fin da quando erano passati per Ancenys.
I pellegrini così snidati scapparono di bel trotto attraverso un vigneto e il dolore si calmò.
In quel momento Eudemone lo chiamò per cenare poiché tutto era pronto.
- Lasciatemi prima, disse, pisciare il mio dolore.
E pisciò così copiosamente che l’urina tagliò la strada ai pellegrini che furono costretti a varcare il gran canale. Passando di là presso il margine d’un bosco in piena marcia, caddero tutti, meno Fournillier, in un trabocchetto scavato per prendere i lupi nella rete: dalla quale si liberarono grazie all’industria del detto Fournillier che ruppe tutti i lacci e cordami. Usciti di là alloggiarono pel resto della notte in una capanna presso Coudray, dove furono riconfortati dalle parole d’uno di loro, chiamato Lasdaller, il quale dimostrò come quella avventura fosse stata predetta da David nel Salmo che dice:
“Com exurgerent homines in nos, forte vivos deglutissent nos, cioè quando fummo mangiati in insalata conditi col sale, cum irasceretur furor eorum in nos, forsitan aqua absorbuisset nos, cioè quando bevve la gran sorsata; torrentem pertransivit anima nostra; cioè quando passarono il gran canale; forsitan pertransisset anima nostra aquam intolerabilem, cioè della sua urina colla quale ci aveva tagliata la strada. Benedictus Dominus, qui non dedit nos in captionem dentibus eorum.
Anima nostra sicut passer erepta est de laqueo venantium, cioè quando cademmo nella buca; laqueus contritus est cioè da Fournillier, et nos liberati sumus. Adjutorium nostrum etc”.
CAPITOLO XXXIX.
Come qualmente il monaco fu festeggiato da Gargantua e i bei discorsi che tenne cenando.
Quando Gargantua fu a tavola, trangugiati i primi bocconi, Grangola cominciò a raccontar l’origine e la causa della guerra tra lui e Picrocolo e narrò come Frate Gianni degli Squarciatori aveva trionfato nella difesa del vigneto dell’abbazia, esaltando la sua prodezza oltre quelle di Camillo, Scipione, Pompeo, Cesare e Temistocle. Allora Gargantua chiese che si mandasse subito a chiamarlo per consultarsi con lui sul da fare. Ordinarono che andasse a cercarlo il maggiordomo il quale lo condusse lietamente sulla mula di Grangola.
Al suo arrivo mille carezze, mille abbracciamenti, mille saluti furono scambiati:
- Eh, Frate Gianni, amico mio, Frate Gianni mio prossimo cugino, Frate Gianni del diavolo, qua un abbraccio, amico mio!
- Un abbraccio anch’io!
- Qua, coglione, qua, voglio stroncarti a forza d’abbracciarti. E frate Gianni gongolava. Mai uomo fu tanto cortese e piacevole.
- Qua, qua, disse Gargantua, uno sgabello qui vicino a me, da questa parte.
- Ben volentieri, disse il monaco, poiché così vi piace. Paggio, dell’acqua! Versa, ragazzo, versa: l’acqua mi rinfrescherà il fegato. Vuota qui che mi gargarizzi.
- Deposita cappa, disse Ginnasta, leviamo codesta tonaca.
- Oh, per Dio, mio gentiluomo, disse il monaco, c’è un capitolo in Statutis Ordinis che non permette…
- Merda, disse Ginnasta, merda al vostro capitolo. Cotesta tonaca vi rompe le spalle; giù; giù!
- Amico mio, disse il monaco, lasciamela, che ci bevo meglio, per Dio! la tonaca diffonde allegria per tutto il corpo.
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