Avrebbero ben lunghi denti se potessero arrivare fin lassú.

Immaginate come la gente mangiava di gusto quelle mele, ché erano belle all’occhio e deliziose al palato. Ma come avvenne a Noè, il sant’uomo (quanto gli siamo obbligati e tenuti perciò che piantò la vigna, onde ci viene quel nettareo, delizioso, prezioso, celeste, gioioso e deifico liquore detto vino!) il quale s’ingannò bevendolo, ché ignorava la grande virtú e possanza di quello, similmente gli uomini e donne di quel tempo mangiavano con piacere grande quel bello e grosso frutto; ma ben diversi accidenti ne seguirono. Poiché a tutti sopravvenne una molto orribile enfiagione nel corpo, ma non a tutti nello stesso luogo. Agli uni si gonfiava il ventre e rotondeggiava come grossa botte; del quali è scritto: ventrem omnipotentem; ed essi furon tutti gente da bene e buoni burloni. Dalla loro razza nacquero San Panzano e Martedigrasso.

Agli altri si gonfiava il dorso e tanto cresceva la gobba che li chiamavano montiferi, portatari di montagne, de’ quali si vedono ancora campioni pel mondo, di sesso e grado diverso. Di questa razza usci Esopetto del quale avete i bei fatti e detti, scritti.

Ad altri gli s’enfiava in lunghezza il membro che chiamasi lavoratore della natura: per modo che l’avevano meravigliosamente lungo, grande, grasso, grosso, rubizzo e increstato alla moda antica, e tale che se ne servivano di cintura torcendolo cinque o sei volte intorno al corpo. E se avveniva che s’inalberasse e lo spingesse vento in poppa, avreste detto, di veder guerrieri con la lancia in resta pronti a giostare alla quintana. Di quelli s’è perduta la razza, come dicon le donne, le quali continuamente si dolgono che:

 

de’ bei grossi non c’è né più etc.

 

il resto della canzone lo sapete.

Altri crescevano in fatto di coglioni sì enormemente che tre bastavano a empire un moggio. Da questi son discesi i coglioni di Lorena i quali mai non alloggiano in braghetta, ma pendono giú fino in fondo alle calze.

Altri crescevano in fatto di gambe e avreste detto a vederli ch’eran gru o aironi oppur uomini sui trampoli. Gli scolaretti li chiamano in grammatica Jambus.

Ad altri tanto cresceva il naso da sembrare il flauto d’un alambicco; tutto diasprato, sfavillante di bitorzoletti, pullulante, purpureo, a pompette, smaltato, foruncolato, e ricamato di scarlatto. Tale lo possedevano il canonico Panzoult e Piedeboys, medico d’Angers; della qual razza pochi furono che amassero la tisana, preferendo tutti il brodo settembrino. Nasone e Ovidio ne trassero origine e tutti quelli di cui è scritto: Ne reminiscaris.

Ad altri crescevan le orecchie, così grandi che nell’una tagliavano giustacuore, brache e saio, dell’altra s’ammantellavano come d’una cappa spagnola. E corre voce che nel Borbonese ancora ne duri l’eredità, onde la frase: orecchie di Borbonese.

Altri infine crescevano in altezza di statura, onde son derivati i giganti e quindi Pantagruele. E il primo fu

 

Chalbroth,

Che generò Sarabroth,

Che generò Faribroth,

Che generò Hurtaly (il quale fu buon mangiatore di zuppe e regnò al tempo del diluvio),

Che generò Nembroth,

Che generò Atlante (il quale colle sue spalle impedì al cielo di cadere),

Che generò Golia,

Che generò Morbois,

Che generò Machura,

Che generò Erix (inventore del gioco dei bussolotti),

Che generò Tito,

Che generò Orione,

Che generò Polifemo,

Che generò Caco,

Che generò Ezione (il quale fu il primo che avesse la peste per non aver bevuto fresco d’estate, come attesta Bartacchino),

Che generò Encelado,

Che generò Ceo,

Che generò Tifoè,

Che generò Aloè,

Che generò Otto,

Che generò Egeone,

Che generò Briareo (il quale aveva cento mani),

Che generò Porfirio,

Che generò Adamastor,

Che generò Anteo,

Che generò Agatone,

Che generò Poro (contro il quale battagliò Alessandro il grande)

Che generò Arantas,

Che generò Gabbara (primo inventore del bere altrettanto),

Che generò Golia di Secondilla,

Che generò Offot (il quale ebbe naso terribilmente bello, e da bere al barile),

Che generò Artacheo,

Che generò Oromedonte,

Che generò Gemmagog (inventore delle scarpe alla polacca).

Che generò Sisifo,

Che generò i Titani, onde nacque Ercole,

Che generò Enac (molto esperto nell’arte di levare gli acari dalle mani),

Che generò Fierabraccio (il quale fu vinto da Oliviero; pari di Francia, compagno di Rolando),

Che generò Morgante (il quale primo di questo mondo, giocò ai dadi cogli occhiali),

Che generò Fracassus (del quale ha scritto Merlin Coccaio, onde nacque Ferraú),

Che generò Pappamosche (il quale, primo, invento l’arte d’affumicar le lingue di bue sotto il camino, laddove prima la gente le salava come fa de’ prosciutti),

Che generò Bolivorace,

Che generò Longis,

Che generò Gaiolfo, (il quale avea coglioni di pioppo e cazzo di corniale),

Che generò Masticafieno,

Che generò Brusaferro,

Che generò Sorbivento,

Che generò Gallalto (il quale fu inventore delle bottiglie)

Che generò Mirlangault,

Che generò Galaffro,

Che generò Falurdino,

Che generò Roboastro,

Che generò Sortibrante di Coimbra,

Che generò Brusante di Monmirato,

Che generò Bruyer (il quale fu vinto da Ozieri il Danese, pari di Francia),

Che generò Malbruno,

Che generò Nonfòttere,

Che generò Acquelebac,

Che generò Cazzogranito,

Che generò Grangozzo,

Che generò Gargantua,

Che generò il nobile Pantagruele padron mio.

Io prevedo che leggendo questo passo vi sorgerà in mente un dubbio ben ragionevole e vi domanderete come sia possibile tale genealogia, visto che al tempo del diluvio tutta la gente perì eccetto Noè e sette persone con lui dentro l’arca, nel numero delle quali non è incluso il menzionato Hurtaly. La domanda è fondata, non c’è che dire e bene assennata, ma la risposta, s’io non ho il cervello mal ristoppato, vi darà soddisfazione. E poiché io non viveva a quel tempo là per parlarvene a mio agio, vi allegherò l’autorità dei massoreti, interpreti della sacra scrittura ebraica, i quali affermano che, in verità, il detto Hurtaly non era dentro l’arca di Noè, (non c’era potuto entrare per via della gran statura) ma vi stava sopra a cavalcioni, una gamba di qua e una gamba di là, come i bimbi sui cavalli di legno e come il grosso toro di Berna, ucciso a Marignano, che cavalcava un grosso cannone petraio, bestia, codesta, di bello e allegro ambio davvero. In quella guisa dunque salvò, dopo Dio, la detta arca dai pericoli, poiché le dava colle gambe il movimento e coi piedi la voltava dove voleva come fa il timone d’una nave. Quelli di dentro, per un camino, gli passavano viveri a sufficienza, riconoscendo il beneficio loro arrecato. E qualche volta parlamentavano insieme come faceva Icaromenippo con Giove, secondo riferisce Luciano. Avete bene inteso tutto ora? E bevetene dunque un buon bicchiere, senz’acqua. E se non credete, io neppure.

 

CAPITOLO II.

 

Della natività del temutissimo Pantagruele.

 

Gargantua, all’età di quattrocento quattroventi e quarantaquattro anni, generò suo figlio Pantagruele, col concorso della sua sposa chiamata Boccaperta, figlia del re degli Amauroti in Utopia. Ella morì di parto. Il figlio infatti era così mirabilmente grande e pesante che non poté venire alla luce senza soffocar la madre. Ma per intender pienamente la causa e ragione del nome che gli fu dato a battesimo, dovete notare che in quell’anno fu siccità tanto grande in tutto il paese d’Africa, che passarono trentasei mesi, tre settimane, quattro giorni, tredici ore e qualche istante per giunta. Senza piovere con un calore di sole così veemente che tutta la terra n’era inaridita.

Neanche al tempo di Elia fu tanto caldo. Non v’era albero sulla terra che avesse foglia o fiore, le erbe erano senza verde, i fiumi prosciugati, le fonti a secco, i poveri pesci abbandonati dal loro proprio elemento vagavano e gridavano per la terra orribilmente, gli uccelli cadevano giù dall’aria per mancanza di rugiada; i lupi, le volpi, i cervi, i cignali, i daini, le lepri. i conigli, le donnole, le faine, i tassi e altre bestie si trovavano pei campi, morte a gola spalancata.

Quanto agli uomini facevan pietà: li avreste visti con tanto di lingua fuori come levrieri che abbian corso sei ore. Molti si gettavano nei pozzi; altri si mettevano dentro il ventre di una vacca per essere all’ombra: Omero li chiama Alibantes.

Tutta la contrada era paralizzata. Era pietoso vedere il travaglio degli uomini per difendersi dalla orribile sete. Ci voleva il ben di Dio a salvare l’acqua benedetta per le chiese affinché non fosse consumata, ma fu provveduto in modo, per consiglio dei signori cardinali e del Santo Padre, che nessuno osava attingervi se non una volta.