Perciò Gargantua, temendo potesse farsi del male, fece fabbricare, per legarlo, quattro grosse catene di ferro e fece puntellare la culla con arcate di rinforzo. Di quelle catene se ne vede ora una a La Rochelle, che tendono la sera tra le due grosse torri del porto. Un’altra si trova a Lione, un’altra ad Angers, e la quarta fu portata via dai diavoli per legare Lucifero che in quel tempo là s’agitava tormentato straordinariamente da una colica buscatasi per aver mangiato a colazione l’anima d’un sergente in fricassata. Onde potete ben credere ciò che dice Nicola de Lyra nel passo del salterio dove è scritto: Et Og regem Basan… che cioè il detto Og, ancora piccino, era sì forte e robusto che bisognava legarlo con catene di ferro alla culla. E così restò quieto e tranquillo anche Pantagruele non potendo rompere facilmente quelle catene, tanto più che non c’era spazio nella culla per dare slancio al braccio.
Ma ecco arrivò il giorno d’una gran festa, e Gargantua dava un bel banchetto a tutti i principi della corte. Io credo che tutti gli ufficiali di corte dovessero essere occupatissimi al servizio del banchetto, perché nessuno si curava più del povero Pantagruele il quale restava così a reculorum. Che cosa fece egli? Ciò che fece, cara la mia gente, state un po’ a sentirlo: provò a rompere le catene della culla colle braccia; ma non riuscì, erano troppo solide: allora tanto tempestò coi piedi che sfondò l’estremità della culla che pur consisteva d’una grossa trave di sette spanne in quadrato: e appena poté sporgere fuori i piedi, s’inclinò il meglio che poté in modo da toccar terra. E allora con gran forza si rizzò sollevando con sé la culla legata sulla schiena, come tartaruga che monti sopra un muro; e a vederlo sembrava una gran nave di cinquecento tonnellate dritta in piedi.
Entrò in quel modo nella sala dove si banchettava con passo sì ardito che spavento tutti i presenti; ma avendo le braccia legate dentro, non poteva prender nulla da mangiare; sicché a gran pena si chinava per allungar colla lingua qualche leccata. Ciò vedendo il padre, capì che l’avevano lasciato senza cibo e comandò fosse sciolto dalle catene per consiglio dei principi e signori presenti, tanto più che i medici di Gargantua dicevano che seguitando a mantenerlo così nella culla sarebbe andato soggetto tutta la vita alla gravella. Scatenato che fu lo fecero sedere e mangiò benissimo; poi, protestando di non tornar più in culla, con gran dispetto gli sferrò su un cazzotto, frantumandola in cinquecentomila pezzi.
CAPITOLO V.
Dei fatti del nobile Pantagruele nella sua giovane età.
Cresceva dunque Pantagruele di giorno in giorno e prosperava a vista d’occhio, di che il padre per naturale affezione rallegravasi. E gli fece fare, così piccino com’era, una balestra perché si divertisse cacciando gli uccelletti. La chiamano, ora, la grande balestra di Chantelle.
Poi lo mandò a scuola perché vi trascorresse imparando, l’adolescenza. Infatti andò a Poitiers per studiare e con molto profitto; colà vedendo che gli scolari erano talora in ozio e non sapevano come passare il tempo, ne ebbe compassione. E un giorno staccò da una rupe chiamata Passelourdin una grande lastra di circa dodici tese in quadrato e di quattordici palmi di spessore e la posò adagino su quattro pilastri in un campo, affinché gli scolari quando non avessero altro a fare passassero il tempo a montare sulla detta pietra e là banchettare a suon di bottiglie, prosciutti, pasticci, scrivendovi poi su i loro nomi col coltello: ora la chiamano la Pierre levée.
E in memoria di ciò nessuno studente s’è matricolato nella detta università di Poitiers se prima non avesse bevuto alla fontana Cavallina di Croutelle, non fosse passato a Passelourdin e salito sulla Pierre levée.
Più tardi Pantagruele leggendo le belle croniche de’ suoi antenati, trovò che Goffredo di Lusignano, detto Goffredo dal gran dente, nonno del cugino secondo della sorella maggiore della zia del genero dello zio della nuora di sua suocera, era sepolto a Maillezais: onde un giorno prese campos per visitarlo come uomo dabbene ch’egli era.
E partendo da Poitiers con alcuni compagni, passarono per Ligugé, dove visitarono il nobile abate Ardillon; poi per Lusignano, Sansay, Celles, Colonge, Fontenay - le - Conte, dove salutarono il dotto Tiraqueau: e di lì arrivarono a Maillezais, dove egli visitò il sepolcro del detto Goffredo dal gran dente. Ebbe un po’ di paura vedendo la sua statua tombale, ché ha l’aspetto come d’uomo furioso che sta sguainando la daga. E chiestane la causa, i canonici del luogo gli dissero che altra causa non v’era se non che pictoribus atque poetis etc.; vale a dire che i pittori e i poeti hanno libertà di dipingere a loro piacere ciò che vogliono. Ma egli non si contentò di quella risposta e disse: “Non è così dipinto senza ragione, e dubito che, morto, gli abbian fatto qualche torto di cui domanda vendetta ai parenti. Farò un’inchiesta a fondo e agirò come si deve “.
Poi ritornò, ma non già a Poitiers: volle visitare le altre università di Francia: passando a La Rochelle si mise in mare e andò a Bordeaux, dove non trovo grande esercizio se non di chiattaioli che giocavano all’uvetta sulla spiaggia. Quindi andò a Tolosa ove imparò assai bene a ballare e a tirar di scherma collo spadone a due mani com’è uso degli studenti di quella università; ma non vi restò quando vide facevano bruciar i loro rettori vivi come arringhe salate e disse: “A Dio non piaccia che io muoia così, che sono per mia natura abbastanza assetato senza scaldarmi di più”.
Andò poi a Montpellier, dove apprezzò gli eccellenti vini di Mirevaux e l’allegra compagnia; pensò di studiarvi medicina, ma poi considerò che la condizione di medico era fastidiosa e malinconica e che i medici puzzavan di clistere come vecchi diavoli. Volle studiar legge, ma vedendo che di legisti là non v’erano che tre tignosi e un pelato, si partì da Montpellier. Lungo il cammino costrusse il ponte di Gard e l’anfiteatro di Nimes in meno di tre ore e sembra tuttavia opera più divina che umana; venne poi ad Avignone e non eran passati tre giorni che s’innamorò: poiché le donne vi giocan volentieri a stringichiappe, essendo città papale.
Ciò vedendo il suo pedagogo, chiamato Epistemone, lo ritirò di là e lo condusse a Valenza nel Delfinato; ma Pantagruele vide che non vi si studiava molto e che i bricconi della città picchiavano gli studenti. Ne fu indispettito. Una bella domenica che tutta la gente ballava in pubblico, uno studente volle entrare nel ballo, ma i detti bricconi non lo permisero. Ciò vedendo Pantagruele diede loro la caccia fino alle rive del Rodano e voleva farveli annegare: ma essi si nascosero sotto terra come le talpe, per una buona mezza lega sotto il letto del Rodano. Il sotterraneo si vede tuttora. Quindi si partì e in tre passi e un salto giunse ad Angers, dove stava benissimo e vi sarebbe rimasto un certo tempo se non l’avesse cacciato via la peste.
Così venne a Bourges dove studiò lungo tempo con molto profitto iscrivendosi alla facoltà di legge. Diceva talora che i libri di legge gli sembravano una bella veste d’oro, trionfale e preziosa a meraviglia che fosse ricamata di merda.
“Poiché, diceva egli, non vi sono al mondo libri tanto belli e adorni ed eleganti come i testi delle Pandette, ma il loro ricamo, vale a dire il commento d’Accursio è così lurido, infame e fetente quanto può essere sozza immondizia”.
Partendo di là se ne venne a Orlèans dove trovò studenti campagnoli in quantità che gli fecero buona accoglienza e in breve apprese con loro a giocare al pallone talché ne divenne maestro. Infatti gli studenti del luogo ne fanno esercizio continuo e lo conducevano talora alle isole per divertirsi al gioco di spinginnanzi. E quanto al rompersi la testa a studiare, né punto né poco, perché aveva paura gli s’indebolisse la vista. Tanto più che uno dei rettori diceva spesso nelle sue lezioni che nulla è tanto contrario alla vista quanto il male agli occhi.
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