N’ebbe inoltre altri dieci o dodici di ricambio e sette per la posta. E tutti quanti li metteva a dormire coricati vicino a sé.

Un giorno capitò a visitare suo padre, con gran corteo e pompa, il signore di Paninsac. Proprio lo stesso giorno erano venuti a trovarlo anche il duca di Sbafagratis e il conte Masticavento.

In fede mia, il castello risultò un po’ stretto per tanta gente, specie le scuderie: allora il maggiordomo e il maresciallo degli alloggi del detto signore di Paninsac, per sapere se in qualche altro angolo della casa vi fossero stalle disponibili, si rivolsero a Gargantua ancor fanciullo, considerando che i bambini volentieri spiattellano tutto, e gli domandarono, in confidenza, dove erano le scuderie dei grandi cavalli.

Gargantua li condusse salendo la grande scalea del castello e passando per la seconda sala, in una grande galleria per dove entrarono in un torrione. Mentre salivano un’altra scalinata, il maresciallo disse al maggiordomo:

- Questo ragazzo ci mena pel naso: le scuderie non sono mai alla sommità delle case.

- Adagio, disse il maggiordomo, io conosco posti, a Lione, alla Baumette, a Chinon e altrove, nei quali le Scuderie stanno al sommo della casa, e può darsi che ci sia un’uscita posteriore che metta al montatoio; ma per maggior sicurezza ora glielo chiedo.

- Dove ci conducete, carino mio? domandò a Gargantua.

- Alla stalla dei miei grandi cavalli, ci siamo quasi, non mancano che questi gradini.

Poi, facendoli passare per un altro salone, li condusse alla sua camera e, aprendo la porta:

- Ecco, disse, le scuderie che chiedete: ecco qui il mio ginnetto, il mio ungherese, il mio lavedano, il mio trottatore.

E mettendo loro sulle spalle una grossa leva:

- Vi regalerò, disse, questo frisone; mi viene da Francoforte, ma sarà vostro; è un gran buon cavalletto e di gran resistenza. Con un terzuolo, una mezza dozzina di cani spagnuoli e un paio di levrieri, eccovi fatti re e padroni delle pernici e delle lepri per tutto questo inverno.

- Per San Giovanni! dissero essi, siamo capitati bene! Abbiamo preso un bel granchio.

- Non è vero, diss’egli: granchi non ce n’è stati qui dentro da tre giorni.

Indovinate un po’ ora se era più il caso di nascondersi per la vergogna o di ridere per la facezia.

E mentr’essi scendevano tutti confusi egli domandò:

- Volete un’albiera?

- Cos’è?

- Cinque stronzi da farvi una musoliera, rispose

- Per oggi, osservò il maggiordomo, se ci mettono arrosto, non rischiamo di bruciare, poiché siamo conditi in tutte le salse, se non erro. Tu ci hai scornato, carino mio, un giorno o l’altro ti vedrò papa.

- È probabile, diss’egli; ma allora voi sarete papilione e questo grazioso pappalardo sarà un pappagallo perfetto.

- Vero, vero, disse il maresciallo.

- Ma, disse Gargantua, indovinate quanti punti d’ago vi sono nella camicia di mia madre.

- Sedici, rispose il maresciallo.

- Non è parola di vangelo, affermò Gargantua, poiché ce n’è davanti e di dietro, li contaste troppo male.

- Quando? chiese il maresciallo.

- Quando il vostro naso, disse Gargantua, servì di cannella per spillare un moggio di merda, e la vostra gola servì d’imbuto per travarsarla in altro recipiente, essendo le doghe sconnesse.

- Corpo di Dio! disse il maggiordomo, abbiamo incontrato qui un bel burlone. Dio vi salvi dai malanni, signor chiacchierino, tanto avete lo scilinguagnolo sciolto!

Così discendendo in gran fretta sotto la volta delle scale lasciarono cadere la grossa leva di cui l’aveva cariccati, onde Gargantua:

- Voi siete pessimi cavalieri, diavolo! Il vostro cortaldo vi manca proprio al momento del bisogno. Se vi occorresse andar di qui a Cahusac che preferireste: cavalcare un’ochetta o menare una troia al guinzaglio?

- Preferirei bere, disse il maresciallo.

Così dicendo, entrarono nella sala terrena ov’era raccolta tutta la brigata e raccontando loro la nuova avventura, li fecero ridere come un branco di mosche.

 

CAPITOLO XIII.

 

Come qualmente Grangola s’accorse dell’intelligenza meravigliosa di Gargantua per l’invenzione d’un forbiculo.

 

Sul finir dei cinque anni, Grangola, di ritorno dalla disfatta inflitta ai Canariani, venne a trovare suo figlio Gargantua. E ne fu tutto lieto come poteva essere un tal padre rivedendo un tal figlio.

Lo baciava, lo abbracciava e non cessava di interrogarlo su diverse cose, bamboleggiando con discorsi puerili. E bevve con lui e le sue governanti alle quali, tra l’altro, domandava insistentemente, se l’avessero tenuto lavato e pulito. Gargantua rispose che aveva a ciò provveduto egli stesso, in guisa che in tutto il territorio non v’era bimbo più netto di lui.

- In che modo? chiese Grangola.

- Ho inventato, rispose Gargantua, con lunghi e diligenti esperimenti, un modo di forbirmi il culo, che è il più signorile, il più eccellente, il più spedito che mai si vedesse.

- Quale? chiese Grangola.

- Ora ve lo dico rispose Gargantua. Una volta mi pulii col cache nez di velluto di una delle damigelle e lo trovai buono per la morbidezza della seta che mi dava una voluttà ineffabile al fondamento; un’altra volta con un loro cappuccio e fu lo stesso; un altra volta con una sciarpa da collo; un’altra volta con le orecchiette del cappuccio, di raso rosso; ma il ricamo in oro di tante piccole sfere di merda che v’erano applicate, mi scorticarono tutto il di dietro; che il fuoco di Sant’Antonio possa bruciare il budello culare dell’orefice che lo fece e della damigella che lo portò!

Il male passò forbendomi con un berretto da paggio, bene impennacchiato alla svizzera.

Poi, cacando dietro un cespuglio, trovai un gatto marzolino e me ne servii per forbirmi, ma quello con l’unghie mi ulcerò tutto il perineo.

Guarii l’indomani forbendomi coi guanti di mia madre, ben profumati di malzoino.

In seguito mi forbii colla salvia, col finocchio, coll’aneto, colla maggiorana, colle rose, colle foglie di zucca, di cavolo, di bietola, di vite, d’altea, di verbasco (il rossetto del culo), di lattuga, di spinaci - questi furono di gran giovamento alla mia gamba - poi di mercorella, di persicaria, d’ortica, di conzolida; ma queste mi produssero il cacasangue, come dicono i Lombardi, del quale guarii forbendomi colla mia braghetta.

Poi mi forbii colle lenzuola, colla coperta, colle tendine, con un cuscino, con un tappeto usuale, con uno verde, con uno straccio, con un tovagliolo, con un fazzoletto, con un accappatoio. E n’ebbi da tutti piacere più che i rognosi sotto la striglia.

- Ma insomma, disse Grangola, di tanti forbiculi quale ti parve il migliore?

- Un momento, disse Gargantua, non tarderete a saperne il tu autem. Mi forbii ancora col fieno, la paglia, la stoppa, la borra, la lana, la carta. Ma

 

Chi con carta il cul deterge,

Sui coglion la merda asperge.

 

- Che! esclamò Grangola, tu rimi già, ti sei dunque strofinato alla bottiglia, coglioncino mio?

- Certo, mio re, rispose Gargantua, e rimo anche meglio e rimo tanto che spesso nel rimar m’inreumo. Ascoltate un po’ ciò che la vostra latrina canta ai cacatori:

 

Cacone,

Diarrone,

Petone,

Stercoso,

Il lardo

Ti sfugge,

Si strugge,

Ha in me

Riposo.

Schifoso,

Merdoso,

Goccioso,

Di Sant’Antonio ti bruci il martir,

Se tutti

Gl’impuri

Tuoi buchi

Non turi,

E non forbisci avanti di partir.

 

Ne volete ancora?

- Sì, per Bacco, rispose Grangola.

- E allora, rispose Gargantua, ecco qua:

 

RONDÒ.

 

Cacando l’altro ier comodamente,

La gabella pagai che al culo devo.

Non fu l’odore tal quale credevo,

E ne rimasi tutto puzzolente.

Oh, se m’avesse alcun cortesemente

Condotto la Gentile che attendevo

Cacando.

 

A lei col mio buon mestolo imbrandito

Il buco dell’urina avrei condito,

Mentr’ella avrebbe col suo roseo dito

Il buco della merda a me forbito,

Cacando.

 

Ed ora andate a dire che sono un buono a nulla. Oh per la merda! Mica li ho fatti io questi versi, ma udendoli recitare dalla nobil matrona che vedete qui, li ho conservati nel ripostiglio della mia memoria.

- Torniamo, disse Grangola, al nostro argomento.

- Quale? Cacare? chiese Gargantua.

- Ma no, rispose Grangola, forbire il culo.

- Siete disposto, chiese Gargantua, a pagare un buon barile di vin bretone se vi metto nel sacco in questa materia?

- Volentieri, rispose Grangola.

- Non è necessario forbir culo, disse Gargantua, se non sia sporco: sporco esser non può se non s’è cacato; conviene dunque primum cacare, e poi forbirsi il culo.

- Oh quanto senno, figliolo mio! esclamò Grangola. Uno di questi giorni ti fo promuovere dottore alla Sorbona ché, per Dio, hai più saviezza che anni. Ma seguita ora, ti prego, l’argomento forbiculativo. E per la mia barba, prometto che non un barile, ma sessanta botti ti dono, di quel buon vin bretone, intendo, che veramente non cresce in Bretagna, ma nella buona terra di Verron.

- Provai poscia, continuò Gargantua, a forbirmi con una parrucca, con un origliere, con una pantofola, con un carniere, con un paniere - Oh l’ingrato forbiculo codesto! - poi coi cappelli. Notate che i cappelli, taluni son lisci, altri pelosi, altri vellutati, altri di seta, altri di raso. Migliori di tutti son quelli col pelo, che astergono in modo perfetto, la materia fecale. Poi mi forbii con una gallina, con un gallo, con un pollastro, con pelle di vitello, con una lepre, con un piccione, con un marangone, con una borsa d’avvocato, con una barbuta, con una cuffia, con un logoro. Ma concludendo, dico e sostengo che non v’ha forbiculo migliore d’un papero di copiosa pelurie, tenendogli però la testa fra le gambe. Lo affermo sull’onor mio, credetemi, voi vi sentite una voluttà mirifica all’orifizio del culo sia per la dolcezza di quella pelurie sia pel tepore del papero che facilmente comunicandosi al budello anale ed agli altri intestini, arriva fino alla regione del cuore e del cervello. Oh, non è a credere che la beatitudine degli eroi e semidei che se la godono nei Campi Elisi, derivi dal loro asfodelo, o dall’ambrosia e del nettare come dicono le nostre vecchierelle. La loro beatitudine viene, a mio avviso, dal forbirsi il culo con un’ochetta. Così la pensa anche mastro Giovanni di Scozia.

 

CAPITOLO XIV.

 

Come qualmente Gargantua fu istruito da un sofista nelle lettere latine.

 

All’intender questi discorsi il buon uomo Grangola fu rapito d’ammirazione per l’assennatezza e la meravigliosa intelligenza del suo figliolo Gargantua e disse alle governanti:

- Filippo, re di Macedonia, riconobbe l’accortezza del figlio Alessandro dal modo di domare destramente un cavallo. Quel cavallo era sì terribile e sfrenato che nessuno osava montarlo: a tutti i cavalcatori dava gran riscossoni e a chi faceva rompere il collo, a chi le gambe, a chi la testa, a chi le mascelle. Ciò considerando Alessandro nell’ippodromo (dove si facevano movere e volteggiare i cavalli) s’accorse che la furia di quello non veniva se non dallo spavento della sua ombra.