Ne rimasi colpita in modo particolare in una delle cave più basse che chiamano la Cava Rossa. Si tratta di un anfiteatro circolare scavato nella terra color carminio, con qualche ulivo maestoso, sovrastato dalle candide pareti di débris marmoreo e l’entrata tenuta sotto controllo da enormi blocchi grezzi. Su un lato, dovunque è sgocciolata l’acqua, questi blocchi sono coperti da una specie di reticolo di cristallo arancione o se si preferisce da un lichene, sull’altro prevalgono il tono e il colore carnicino, fra il rosa e il dorato, a paragone del quale i nudi del Giorgione e la Niobe di Subiaco sembrano pallidi e freddi. Sopra la fenditura della cava dalla terra color rosso acceso, un’altra cava seminascosta dagli olivi e di sotto, immensi, quasi verticali ravaneti di materiali di scarto candidi e rosati che franano senza posa con fragore negli stagni della valle. Era giù per una di queste cascate di detriti che gli uomini s’apprestavano a lanciare un colossale blocco di marmo. Questo stava per essere sollevato su rulli costituiti da tronchi puliti di castagno in una specie di esiguo piazzale sul ciglio della cava, con poche capanne di frasche e attorno alcune strane seghe a mano, simili a quelle degli obelischi. Una dozzina di uomini, alcuni davvero belli e armoniosi nei movimenti, stavano sollevando il blocco con i paranchi, cantando come i marinai, mentre lo spingevano e lo facevano scivolare. Alla fine prese l’aìre, simile a un’imbarcazione che venga varata sui rulli, fino al limite della piattaforma, in mezzo agli uomini che urlavano correndo. Poi i pezzi di legno, tutti meno uno, vennero sfilati e il blocco fu sollevato con le leve sul punto dov’era. Assicuratosi che fosse libero da ogni parte, il caposquadra dette il segnale e il blocco fu lasciato cadere. Precipitò giù per la ripida cascata, alta qualche centinaio di piedi, sollevando nella corsa la polvere di detriti di marmo fino a restare avvolto da quella che sembrava una nuvola di fumo che lo seguì per tutta la corsa. Il fianco della collina ebbe un sussulto, il blocco era arrivato in fondo. «Come fumava!» osservò il caposquadra.
Non sembra che le cave del Serra e del Vezza fossero note agli antichi, i quali cavavano il marmo, sin dai tempi di Augusto, nelle altre vallate più vicine al golfo di La Spezia, di Luni, o, come si dice oggi, di Carrara. Michelangelo sarebbe stato il primo ad accorgersi che i fiorentini possedevano nel loro territorio (quelle che chiama montagne di Pietrasanta) un marmo altrettanto bello di quello che si poteva ottenere dai marchesi della Lunigiana. La conseguenza fu, come si sa, che egli venne impiegato per anni a costruire strade e ad aprire cave per Clemente VII. Si dice che cavasse marmo anche dal Monte Altissimo e, chissà, che avesse raggiunto la magnifica Tacca Bianca sulla sommità. Il fabbro della cava, ai piedi del Monte Altissimo, con il quale feci una lunga chiacchierata sotto i castagni, mi informò che i nostri ospitali amici francesi, gli Henreaux, avevano cominciato ad attaccare la meravigliosa Tacca Bianca nel 1870, e che dei tentativi erano stati compiuti tanti e tanti anni fa da «tal Buonarroti», ma che forse si trattava solo del racconto di una vecchia, di una favola. Fosse come fosse, malgrado le lamentele che si trovano nelle sue lettere, non posso fare a meno di avvertire che i grandi picchi marmorei e le strette gole dovettero essere luoghi consoni a Michelangelo molto più delle anticamere vaticane. E vorrei dimenticare di cuore tutte le angherie di bottega e gli intrighi e pensare che la sua vera vita fosse stata lassù, a scrutare le tempeste fumiganti fra i crepacci o, attraverso le file di monti, le navi che aprivano le vele nel mare al tramonto, lontano, lontano, degno successore del misterioso indovino Aronta di Dante, il quale
Ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora onde a guardar le stelle
e ’l mar non li era la veduta tronca.
Senza dubbio, viste dalle colline di Firenze o dal pontile, le montagne di marmo sembrano avere ammaliato l’immaginazione di Michelangelo. Anche se non dipinse mai delle montagne reali nei suoi sfondi, ne colse tuttavia l’atteggiamento e, per così dire, la gestualità: il riposo stanco di alcune, il piegarsi innaturale di altre sul gomito o sulla spalla, il girarsi del collo e il torcersi della schiena e dei lombi, l’intera tragedia primeva dei giganti di marmo, del loro sforzo, del trionfo e del fallimento; e riprese tutto questo nei suoi profeti, nelle sibille e nelle tragiche allegorie di donne e di uomini.
Questo è forse – chi può dirlo? – il dono più grande che queste montagne di marmo e questo Monte Altissimo che si leva davanti a me con i suoi pinnacoli simili a una cattedrale consunta dal vento, hanno fatto all’arte. Perché, ahimè, il marmo, il marmo più bello, più puro, quasi al pari di quello greco, è venuto alla luce troppo tardi. Quando non potevano ricorrere a qualche frammento di colonna antica, Niccolò e Giovanni Pisano e Jacobo della Quercia avevano a disposizione soltanto del marmo venato, maculato, soggetto a sfaldarsi; non sembra che lo stesso Michelangelo abbia fatto ricorso alla migliore qualità di marmo di queste valli, non comunque al marmo della Tacca Bianca. Questo venne riservato ai moderni saloni e alle accademie. Intanto ci sono degli uomini appesi con le corde ai dirupi che stanno tagliando dei blocchi dalla superficie perpendicolare della montagna. Quanto a me, mentre odo il debole ticchettio di invisibili scalpelli dall’altra parte del dirupo e il crepitio del marmo, sento che le opere di scultura moderna, tutta quest’arte desolata ed inerte, mi riserveranno nel futuro un qualcosa di vivido e meraviglioso, qualcosa che consiste nel marmo in cui sono scolpite, nel ricordo dell’aroma d’erbe seccate dal sole, del gorgoglìo della sorgente ai piedi dell’Altissimo e della vista dell’aquila che gira in cerchio sui bianchi dirupi spettrali.
Gli epitaffi di Detwang
Mi è sempre piaciuto visitare i cimiteri, ma non per motivi sentimentali né, spero, per morbosità. Infondendo terrore solo perché significa addio, la morte non alletta i miei pensieri, o non li turba più di quanto non facciano gli altri dignitosi, per quanto sgradevoli, momenti della vita. La mia predilezione per i cimiteri, quindi, non dipende dal fatto che i loro ospiti sono morti, ma piuttosto che siano stati vivi. La storia infatti non rappresenta una soddisfacente introduzione alle generazioni passate. Essa tratta esclusivamente di persone di rango e ci lascia con quel genere di sentimenti che in taluni scritti ci comunica un’intelligenza sensibile; ben coltivata, senza dubbio, ma un po’ troppo stantia. È improbabile che possa aver pranzato con Dante, o essere stata intima amica della regina Elisabetta.
1 comment