La sua stessa identità personale è rimasta nascosta per secoli dietro un apocrifo, Simone Memmi, dal quale solo di recente, escludendo un mediocre allievo, Lippo Memmi, la scuola critica del Morelli l’ha tratto fuori. La sua Annunciazione è una delle più raffinate e belle pitture degli Uffizi. La galleria e il seminario di Pisa hanno un certo numero di tavolette con dei santi fulgidi e delicati oltre ogni dire; sulle pareti della sala consiliare di Siena c’è un affresco rovinato con la Vergine in trono fra angeli e santi la quale sembra andare e venire con la luce e con la capacità individuale d’intenderla, incerta e seducente visione di celestiale splendore. Ma le più importanti opere sopravvissute di questo maestro si trovano ad Assisi e il ricordo di S. Francesco e la realtà di quei dirupi di rosee rocce sbriciolate dovrebbero costituire, non per ragioni storiche ma per un piacere poetico e artistico, il motivo per cui ci si reca in quella città. La strana chiesa inferiore di S. Francesco protegge con le sue volte ribassate alcune delle più importanti opere d’arte: gli affreschi di Giotto, per esempio, e dei più qualificati giotteschi o dei suoi immediati predecessori, la profezia e la promessa dell’arte rinascimentale. Nell’opera di Simone Martini invece – nella cappella con le storie di S. Martino e nella fascia con i santi attorno all’altare maggiore – non ci sono né profezia né promessa, ma solo perfetta compiutezza. Comunque la vogliamo descrivere, si tratta di un misto di antiche, tenaci raffinatezze, di una bellezza fattasi astratta in una sottile ieratica Costantinopoli, di splendori dell’estremo Oriente giunti a noi attraverso gli smalti persiani e i damaschi siriani, elementi morti e dispersi, rivitalizzati e fusi insieme dalla fiamma dell’occidente cavalleresco. Questa arte è espressione di un genio individuale o un fortuito caso storico? In un senso o nell’altro, credo che quest’arte di Simone Martini – un’arte indifferente tanto all’anatomia, quanto alla prospettiva e alla solidità e incurante di ogni espressione drammatica – sia quel genere d’arte che possiamo definire estrema, compiuta. Sebbene sia venuta più tardi, credo che corrisponda alla poesia più aristocratica e artificiosa, ai metafisici dell’amore del primo medioevo, ai trovatori, ai mistici neoplatonici e ai compositori di sonetti petrarcheschi. È forse l’unico fiore perfetto del vero medievalismo, anteriore alla rinascita del cristianesimo apostolico e al ritorno del buon senso pagano: un medievalismo in bilico, come gli eroi dell’epos francese e tedesco, fra Europa e Oriente. Una realizzazione perfetta, per quanto possa apparire contraddittoria, segnata dall’immaturità della primavera appena uscita dall’inverno e destinata a non diventare mai estate.
Essa s’addice alla medievale città di Siena quale mi è apparsa da ultimo, mentre sorgeva con le sue mura rosate e le torri sulle vigne ancora prive di linfa, con il primo verdeggiare del grano e i fiori di ciliegio delle sue aride colline.
Fra le montagne di marmo
Questo è il cuore delle montagne di marmo, di quei picchi e di quei dirupi che delimitano le piane erbose di Lucca e di Pisa come un gruppo di giganti reclini sui gomiti, a tavola, i quali, dai ponti di Firenze e dalle alture sopra Siena si delineano così discontinui, quasi fossero una corona di spettri, così tenui e immateriali che solo le sagome aguzze e fiammeggianti li distinguono dalle nubi tempestose. Mi trovo seduta sotto radi castagni ingialliti sul fianco della collina, sopra il centro della cava, che sa di balsami secchi e di mirra. Sono in alto, così in alto che, se mi volto attorno, lo sguardo vaga per una serie di costoni che sprofondano non nelle valli, ma giù nel mare. E proprio dalla parte opposta, di fronte, ripido come una casa che sovrasti il passante per strada, si leva l’imponente Monte Altissimo, stagliato come un pezzo di cristallo, puro marmo dai picchi alla base. Nudo marmo che assume un tenue color lilla dove l’ha patinato il tempo e che si tinge a strisce alterne di un ancor più tenue cinnamomo, marmo sul quale il mio amico scalatore e due cavatori sembrano capocchie di spillo.
Si stanno arrampicando su per la cava più alta, la famosa Tacca Bianca. La si vede da miglia e miglia di distanza simile a una grande chiazza di neve il cui profilo dentellato si staglia contro il cielo: lo strato del marmo più puro e cristallino, il nucleo interiore della montagna, non scavato come le altre cave dalla mano dell’uomo, ma lasciato indifeso sotto l’usura incessante del sole, del gelo e delle tempeste. Lassù, sopra e sotto gli stretti ripiani della strada, infilano cunei di ferro nella roccia, attraverso i quali posano o lanciano tavole per mezzo di corde, e il fianco della montagna viene tagliato a blocchi dai cavatori che gli stanno appesi di fronte. Se sollevo lo sguardo, vedo innanzi a me la grande Tacca Bianca, candida, sfuocata nel sole accecante. E da tutta l’immensa montagna, mescolati alla nitida voce della sorgente in basso, giungono il tenue ticchettio dello scalpello e di tanto in tanto il fragore di una valanga di bianchi detriti che si rovesciano da un ripiano all’altro.
Le cave del Monte Massimo sono soltanto le più elevate e le più belle delle tante altre che si trovano nelle valli gemelle di Serravezza. Esse incombono ovunque sui fianchi della montagna, sopra i boschi autunnali di castagni e le macchie di faggi, semplici chiazze simili a neve su in alto; più in basso grandi incavi, meravigliose sbocconcellature di scisto marmoreo, terra d’intenso scarlatto, torrenti di squamoso débris simili a cascate di crisantemi fra fitti oliveti. Due torrenti, gelidi e bianchi di polvere di marmo, serpeggiano per la duplice valle e s’aprono la strada con la loro acqua bassa e tranquilla fra i pioppi ingialliti verso le sabbie. E nella loro corsa azionano delle segherie che macinano polvere di quarzo mentre tagliano a lastre i blocchi di marmo.
Le strade sono coperte di un alto strato di polvere di marmo e hanno enormi carrarecce formate dalle file di bovi, talora fino a quattro paia, che trasportano grandi lastre e blocchi grezzi. Giunti a destinazione, alla segheria o al deposito, i conduttori scendono dal loro posto fra le corna enormi dei bovi e calzano torno torno il blocco con leve d’acciaio, cantando mentre si muovono. Il blocco gira lentamente su se stesso, rimane in bilico sull’orlo del carro, oscilla, si rovescia e casca nella poltiglia di polvere di marmo, si solleva e resta immobile sul fianco.
L’attività assolutamente primitiva del cavare e del trasportare il marmo è molto bella e interessante. Non ci sono due blocchi che sembrano uguali, e il modo in cui si muovono, come se fossero vivi, non è dovuto alla forza bruta, ma ad un abile tocco dallo straordinario senso dell’equilibrio. Questo sembra infondere vita anche agli uomini, impegnati con cose che hanno volontà.
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