Tirlibaum! Un meraviglioso e divertente mistero svizzero, un albero della cuccagna dalla cui cima pendevano le salsicce e i pan di zenzero che venivano colpiti dalle balestre di alcuni dei giganti i cui spiriti infestano il luogo. Ma oltre ai fantasmi, come ho detto, la tedesca Friburgo ha la sua legittima popolazione: questi cittadini teutonici amano indugiare ovunque, nelle strade ripide e nelle piazze sghembe, intenti naturalmente alle loro varie attività. Ma la loro residenza fissa, là dove il comune viaggiatore deve cercarli, è di solito sulla colonna che sormonta la vasca ottagonale ornata di sculture e i quattro sottili zampilli delle fontane. C’è l’incantevole moglie di un cittadino con la mantellina, appollaiata sulla Fontana del Buon Samaritano; un Salvatico dei Boschi dalla capigliatura grumosa e il mantello di pelliccia soprannominato scioccamente San Giovanni; un Ercole teutonico o, se si preferisce, il tessitore Bottom «in vena d’Ercole»; ci sono uno o due draghi buoni e alcuni mostri; un suonatore di zampogna e alcuni cavalieri con le armature.
La maggior parte sono gradassi e millantatori. Ma uno è il vero armigero che protegge la città. Di solito sosta (quando l’immaginazione non l’incontra mentre vaga in alcune valli solitarie oltre la città per sfidare il Dragone, o la Morte e il Peccato) nella parte più remota della Friburgo tedesca. Una piazzetta irregolare, che trae il nome dal vecchio Auberge de l’Ange, appena oltre il ponte coperto, una piazzetta rustica, non pavimentata con quell’unica antica osteria e un paio di decrepite case di legno con i tetti simili a tricorni ben calzati sui muri: tutto ciò si trova entro le mura cittadine che si inerpicano con le torri a spegnimoccolo tra l’erba verde, gli abeti pendenti e le betulle dei sovrastanti aspri pendii, e dietro c’è una porta secondaria, contrassegnata da una cappellina con guglie e una stretta valle selvaggia stretta tra le colline boscose. Là sulla nuda terra, circondata da trogoli di legno e da lavatoi, si leva il cavaliere sulla sua colonna corinzia. Forse un tempo era di pietra, ma i quattro secoli trascorsi e le frequenti tempeste alpine hanno trasformato la sua corazza a piastre e la veste di maglia e il cimiero con la visiera alzata in metallo arrugginito e rossastro, e dal suo fianco pende una spada di ferro e dalla sua lancia ondeggia un rigido pennone dall’indubbio tintinnio del metallo. Ha una lunga barba, e lo sguardo fisso e sereno, sicuro e affidabile. Non so proprio chi sia.
Nella Friburgo tedesca, come in tutte le città che gli incisori della Germania del sud ci hanno mostrato nelle loro opere (i grandi maestri e quelli più modesti), la Morte, lo scheletro con la clessidra, è sempre in agguato, tanto che viene considerata uno dei principali abitanti del luogo; cupa, dall’umore privo di tatto, senza dubbio, come sempre appare la Morte tedesca, ma non per questo scortese. Posso affermarlo dalla piccola sua proprietà esclusiva, dall’«acro» che si scelse nella città di Friburgo. Si trova giù al livello del fiume che turbina sotto i ponti, scuro per le concerie, con la Halle o Rathaus (ora abbandonato), dai molti abbaini, le mansarde e gli stemmi bianchi e neri, che si leva su un lato, e una sorta di mercato del bestiame coperto d’erba, dove i bambini dondolano con la testa in giù dalle transenne di legno che lo circondano. L’altura, con le torri delle chiese e della cattedrale e la città ammassata, sorge su quel lato del fiume e proprio sopra, da questa parte, si leva la nuda parete di roccia, macchiata qua e là del più tenero verde e orlata da abeti e betulle, con in cima una piccola cappella. Qui c’è l’antico cimiterino, immerso nel verde, con le rondini che animano il fiume frullando senza posa sulle acque e un bel Cristo in croce, pietoso e solenne, che sembra proteggere l’intero territorio da sotto un tettuccio di legno.
Vagammo su per i pendii scoscesi di quella forra straordinaria, così simile ad un giocattolo, e oltre la pianura ondeggiante sopra le mura e le torri della città. Era un giorno piovoso che nascondeva il panorama e lasciava che i grandi viali di limetta e i lontani grappoli di abeti delimitassero la vista. Ma sembrava giusto che questa cara, antica e inverosimile città, queste romantiche rocce e questi burroni nei quali sembra assurdo credere, dovessero essere separati dalla nebbia dal resto del mondo con il quale essi paiono non aver niente in comune.
Di nuovo la Francia
Con il passare degli anni sono felice di notare che sempre più spesso mi trovo a muovermi su una porzione molto limitata e a me familiare della superficie terrestre e che non provo nessun calo, bensì semmai un incremento, di quella particolare sensibilità che fa cogliere la differenza fra i luoghi, anzi che provo ancora un senso di meraviglia nel passare da un luogo o da un paese ad un altro. Il non possedere un simile sentimento, o averlo atrofizzato, corrisponde a una grandissima perdita. Per ogni essere umano degno di rispetto, penso che qualsiasi tipo di sradicamento debba comportare qualcosa di malinconico e di vagamente avvilente e, pur mettendo da parte il piacere, la dignità individuale sembra richiedere che, se si deve vagare per i luoghi e muoversi rapidamente attraverso paesi verso i quali non si hanno obblighi di alcun genere, si debba perlomeno essere consapevoli della loro esistenza e intrattenere con essi dei rapporti silenziosi e del tutto impersonali di fantasia e di emozioni. Vuol dire qualcosa dopotutto trovarsi all’improvviso alla presenza di una così grande personalità qual è un’intera nazione, o solo un’intera provincia, o distretto ricco del proprio passato, sia che questo risulti impresso nelle forme delle chiese e delle case, o nell’andamento delle valli e delle colline.
Di nuovo la Francia! Provo la stessa sensazione ogni volta che sbarco, anche solo dopo l’assenza di un paio di mesi. Penso di provarla anche dopo l’assenza di due giorni. Posso capire la commozione dei nostri bisnonni e delle nostre bisnonne quando scendevano dalla nave a Calais o a Boulogne, per salire sulla carrozza stracarica di bagagli o su un più modesto calesse. Quel veicolo li avrebbe portati senza soste al Sud, quelle strade riarse li avrebbero condotti attraverso le Alpi, avrebbero fatto loro percorrere le coste dei mari meridionali per arrivare alla meta, se tale era, proprio di fronte all’Africa. La Francia! Il continente! Sensazioni impossibili da analizzare, sebbene in parte possano essere spiegate; poiché questi nomi, come la parola «bagnato», o «dolce», o «freddo» rappresentano impressioni specifiche che non possono assolutamente essere ricondotte ad altre.
Non l’avevo mai avvertito in maniera così profonda, come in quel primo mattino di luglio a Dieppe. Era l’alba e la Francia sembrava appena creata e inoltre, nell’ora a venire, l’avrei sentita interamente mia, escludendo persino i suoi abitanti immersi nel sonno. Era quasi giorno, ma ancora il cielo era un po’ grigio. Le strade erano completamente vuote e tutte le imposte chiuse, ad eccezione di qualche gatto furtivo e dei cagnacci spazzini. Si poteva persino udire, così come percepire, la brezza del mare e anche il porto era privo di vita.
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