Gli zoccoli dell’unica donna di Dieppe già sveglia risuonavano ad eco come a mezzanotte. Ma anche ella sparì e rimasi da sola con la Francia.

Quanto era profondamente diversa dall’Inghilterra! La Grande Rue veramente bella grazie alla semplice irregolarità delle case, all’altezza dei tetti spioventi e alla grande varietà di finestre, di soffitte e di porte; per di più, tutto in quel luogo assumeva quel tono bianco sporco (chiamiamolo magari, poiché ci piace, un vago color perla) che è così francese, che si armonizza in maniera adorabile con il delicato grigio e l’azzurro ardesia del cielo, che s’intona come colore alla delicatezza delle linee delle colline e delle valli. Bianco e nero, grigio, ardesia, colori che risaltano, certamente, con il rosso brillante e l’arancione dei garofani e dei nasturzi presenti qua e là sui balconi, allo stesso modo in cui il vestito grigio e i capelli biondo cenere di una Infanta del Velásquez vengono messi in evidenza dai minuscoli nastri scarlatti e dalla piccola bocca vermiglia. Giù per le vie laterali, immagini fuggevoli di torri e di archi rampanti della cattedrale, di portici e tetti scoscesi ad abbaino e di padiglioni su qualche altra chiesa. Ma sentivo di dover giungere al punto in cui la città finisce, verso la silenziosa collina ancora semifortificata con le torri a pepaiola e con i resti di delicate finestre a traforo del XV secolo e che riportava alla mente storie dello splendido Philippe Le Cat di Mme Darmesteter. Giunse un suono di tromba dal castello, i piccoli piou-piou dalle zampette rosse cominciarono ad agitarsi.

Trovai la via per giungere alla cattedrale e notai mentre passavo un negozio, ancora chiuso naturalmente, Au grand St Pierre ès Liens. Quanto ci portano lontano dall’Inghilterra queste insegne dei negozi, questa adorazione delle parole, anche se si tratta solo di Gagnepetit e dei vari Renommées, della fama di Pain d’Epices, di Layettes o di Chaussures! Quanto è diversa dall’Inghilterra questa piccola cattedrale (costruita, senza dubbio, da re inglesi) che infatti non avrebbe dovuto essere miseramente arrugginita ma delicatamente incisa, in bianco e grigio, dal tempo e infatti anche le gargolle, i lunghi cani pronti a lanciarsi, i lupi, i monaci, non avrebbero dovuto essere moderni! Questa leggiadra piccola e fiammeggiante cattedrale, completamente a forma di fiore con la corolla e lo stelo, le pietre scolpite e poi incise dai secoli, vista sotto il pallido e tenero cielo del mattino è un’immagine che non potrò facilmente dimenticare.

Nel frattempo, pochi e in momenti diversi l’uno dall’altro, cominciavano ad aprire i negozi; i panettieri e le donne che attingevano l’acqua ad attraversare le strade; le bancarelle a sollevare le tende. Il porto con le navi ancora senza fumo e addormentate era vuoto, e l’acqua verde e l’antistante montagna di gesso erano ancora avvolte dalla nebbia sonnolenta. Salii su un treno vuoto e continuai il viaggio in una Francia tuttora addormentata.

Poche ore dopo stavo viaggiando lungo le strade bianche del Vexin, delimitate non da siepi, ma da grandi ciuffi di timo sfiorito, menta e ghirlande impolverate di vitalba; da grandi declivi d’avena e distese di grano maturo, da piccoli boschi cespugliosi sotto il freddo cielo azzurro e le mobili nuvole color ardesia. Nessuna casa lungo la via, nessun viottolo, nessun carro e nemmeno l’ombra di un passante, solo ad intervalli, lungo queste splendide strade, cartelli segnaletici con curiosi nomi antichi: Théribus, Villotreau, Jouy-sons-Thelle, Beaumont-les-Nonains. Una terra desolata, quasi brutta, ma oh il piacere delle alture piatte spazzate dal vento, di quell’aria leggera che soffia attraverso l’intero continente, resa secca e mitigata dal sole.

Il giorno seguente la mia amica mi condusse a vedere alcuni villaggi che si trovano intorno alla sua armoniosa dimora stile Luigi XVI di Montchevreuil-en-Vexin. Villaggi con piccole e umili case senza fiori, ma con chiese dai tetti d’ardesia grandi come granai e con campanili chiusi da imposte, e, per la maggior parte, da vetrate del XVII secolo che sfidano tutti i gerani, le flossidi e le speronelle del più puro cobalto dei giardini inglesi.

E il giorno dopo andammo a vedere la vicina Beauvais. Devo confessare che la sua cattedrale mi è rimasta impressa nella memoria come una pura irreale visione. Vista da lontano sembra – questo enorme coro incompiuto – come se fosse costruita su un rialzo del terreno nel mezzo della città, una sorta di Arca di Noè sull’Ararat, come Ruskin l’ha descritta nel suo Luce nell’Ovest. Ed è una assoluta sorpresa il fatto che sorga al di sopra del livello delle strade e che l’ipotetica collina sia invece la costruzione stessa con le cappelle aggettanti e che la supposta chiesa sia la lanterna dell’edificio. Eravamo appena entrati quando sopraggiunse un violento temporale; immersi nella più profonda oscurità si era consci solo dell’imperiosa imposta dell’arco, dell’irraggiungibile altezza e delle possenti lastre di vetro oscuro, punteggiate di rubino e di giacinto. La pioggia cadeva a torrenti, i lampi penetravano attraverso le vetrate, al di là degli archi il fragore assordante del tuono sembrava trasformarsi nell’accordo di un organo gigantesco fra gli echi di questo luogo ultraterreno. Lasciai la cattedrale mentre la tempesta rumoreggiava ancora, avendo intuito che era stato un editto celeste ad ostacolare la conclusione della cattedrale di Beauvais.

Il giorno seguente ero a Parigi. Che delicatezza e che splendore! Gli alberi dei viali erano ancora di un verde brillante e le bandiere pendevano ovunque; la vita durava fino a notte fonda, all’aria aperta quasi meridionale; l’ordinaria illuminazione di Place de la Concorde la faceva apparire da lontano come il palazzo di Aladino; il fiume, con le sue luci rosse e verdi che si riflettevano tra i grandi alberi delle banchine, ed il sibilo dei vaporetti illuminati, davano l’impressione di una grande fête de nuit.

Ma anche più incantevole era Parigi di mattina presto, una mattina toccata dal fresco autunno, mentre mi dirigevo lungo i marciapiedi, ahimè!, alla Gare de Lyon. Una mattina fresca e rimessa a nuovo; l’aria ancora brumosa e tutti gli oggetti, i pioppi gocciolanti e i tetti color ardesia che scintillavano, indistinti e vaghi dopo la frescura della notte. Stavano spruzzando l’acqua sui marciapiedi, cominciavano ad aprirsi le lunghe bancarelle di libri lungo le rive mentre la brezza stava salendo dal fiume per rinfrescare il giorno imminente. Ma ahimè, avrei dovuto trascorrere quella giornata nei preparativi per lasciare di nuovo la Francia.

Il leone di San Marco
e l’ammiraglio Morosini

Questa volta a Venezia ho sofferto di un senso di disorientamento (come in un negozio di bric-à-brac per turisti) e per l’assenza di ciò che si richiede ad una città storica, il genius loci. Se si è interessati davvero ai luoghi (e la passione per i luoghi è molto forte e singolare) si vuol sentire quello che la vita di quel particolare luogo si è sforzata di dare attraverso secoli inquieti, quella che è stata, per esprimersi in modo pedantesco, la formula della sua evoluzione. Soltanto quello vuole questa formula, incomprensibile e oscura se espressa a parole, ma fatta propria attraverso un centinaio di dettagli e, se possibile, simbolizzata, ma non troppo chiaramente, da qualche persona, o monumento, o momentaneo aspetto della natura.

A Venezia, a questo compito adempie naturalmente il Leone di San Marco. Eccolo sulla cima della colonna, attento, truce, la coda rigida e lo sguardo vuoto e terribile. Ma cosa vuol significare? Cosa ha a che fare con questa languida e troppo amata città? Scoprirlo vuol dire comprendere Venezia e vice-versa. Sotto strati di cose belle, ma anche senza senso e detestabili, che i secoli hanno ammucchiato ai piedi della sua colonna, si potrebbe alla fine trovare la vera Venezia, la Venezia del Leone. Ma mi sentivo abbastanza lontana da tutto questo mentre vagavo tra il prezioso mobilio e gli antichi abiti del museo comunale.