Tutta questa evidente inferiorità fa comunque di loro ciò che le Alpi non possono essere, montagne abitate e montagne dove, vivendo una vita comune, si può venire a contatto, quotidianamente, ora dopo ora, con le piacevoli caratteristiche dei luoghi di montagna: la solitudine, il silenzio e il senso di novità, l’eterno dramma delle nuvole e dei venti e gli improvvisi temporali. Si può essere non in via eccezionale, ma sempre, in solidale contatto con le loro forme. Ho scritto questa ultima frase particolarmente convinta. Poiché questi cari, accessibili Appennini mi hanno insegnato che le montagne sono sempre in continua attività e molto spesso fanno qualcosa per noi. In primo luogo, non sono mai prive di movimento. Persino quando, muovendoci, impediamo loro di chiudersi o dischiudersi facendo innalzare le cime, girare le pareti di roccia come cancelli sui cardini e lasciando precipitare le colline più basse, invisibili, entro le valli; persino quando non sono in grado di svelarci la loro splendida attrattiva topografica, non divengono mai immobili quando noi lo restiamo. Le loro gole, ogni volta che guardiamo in basso, sembrano raccogliersi e contorcersi, risucchiando i nostri pensieri come vortici. I loro profili, d’altra parte, e le aggettanze dei loro speroni si tirano su (mentre lo sguardo segue le loro curve) e, come erano soliti dire i nostri derisi antenati, spesso si innalzano, s’impennano come un’onda o un cavallo, facendoci fare dei profondi respiri di infinito piacere mentre li osserviamo. Essi si impennano, si rovesciano e corrono via; si uniscono e cominciano almeno a marciare e a danzare, se non, come ci assicura il Salmista, a saltare come giovani arieti ebbri di gioia. E quando viene la notte si coricano, come nel magnifico bozzetto di Watt e, mentre il buio aumenta e rimangono solo vaghi contorni, diventano inevitabilmente quieti, facendoci sentire, quando anche noi ci corichiamo, come se fossimo avvolti tra le loro ombrose pieghe azzurre.

Tutte le montagne lo fanno, ma soprattutto, potendo noi viverci in maniera familiare, i cari Appennini, le montagne che ci danno i ghiacci ed il carbone, come sembra aver intuito Shelley quando scrisse la breve poesia che finisce (con un’iperbole che tutti quelli che hanno assistito all’evento possono capire) «E gli Appennini vagano con la tempesta».

La scala ridotta ha reso accessibili gli Appennini non solo, come avviene per le Alpi, a pochi scalatori, o, al limite, ad una manciata di pastori durante le brevi settimane estive, ma a una popolazione stanziale per tutto l’anno, a quella poca gente che li ha fatti propri. L’eccessiva angustia delle valli ha costretto gli abitanti a cercare l’aria e il sole e la possibilità di dissodamento sugli alti e fuggevoli declivi e sui crinali. Dopo aver percorso strade sperdute, incise sui fianchi delle montagne proprio sopra ai fiumi strozzati, e dopo aver risalito un sentiero simile a un corso d’acqua, per miglia, a volte, di foreste di castagni anche più solitarie, ci si stupisce di ritrovarsi all’improvviso in mezzo a vigneti e a campi di grano, tra olivi e cipressi, in un villaggio, a volte persino in una piccola città, con strade lastricate con cura e solide case di pietra decorate da stemmi e, una volta arrivati, percepire altri luoghi simili, invisibili dalla valle, ammassati come una cinta muraria su un’altura, o pendenti come un lungo e nero grappolo su di un precipizio.

Così nascosti alla vista, gli Appennini toscani possiedono una considerevole popolazione indispensabile per la cura di questi boschi che sono veri orti, dove ogni castagno richiede lo scortecciamento, la potatura e la pulizia ed ogni frutto spinoso viene raccolto, uno per uno, tra la fitta boscaglia e l’erica lungo il dirupo scosceso della gola, privo di sentieri. La raccolta delle castagne, insieme alla coltivazione del grano e della vigna nei luoghi adatti, con la pastorizia nelle zone più elevate ed il commercio del carbone e del ghiaccio di cui si è già parlato, hanno popolato gli Appennini toscani di gente che lavora sodo e che è piuttosto florida; e certi avvenimenti storici, e anche, spero, la presenza di queste pacate, benché austere montagne, hanno dato alla gente una rara perfezione linguistica e una poco meno perfetta raffinatezza di modi e di sentimenti. La poesia che essi hanno prodotto, e che ancor oggi qualche volta compongono, è nota attraverso il piacevolissimo volume del Tigri, gli squisiti album di disegni della Alexander, le canzoni di Gordigiani. In particolare lo è attraverso il “Rispetto” che, con il suo intreccio elaborato di rime e di pensieri, rappresenta senza dubbio una reliquia della poesia cortese del primo medioevo, della corte siciliana di Federico II, dei provenzali quasi antesignani di Dante, ma con il fascino aggiunto di una infinita spontaneità e freschezza.

È forse questa poesia degli Appennini un esempio di casuale sopravvivenza dovuto all’inaccessibilità (fino ai nostri giorni) di questi villaggi che si trovano ad alte quote? O si può indulgere alla antica e affascinante credenza secondo la quale questa razza di contadini ha composto canzoni perché, nei bastioni montani dove dimora, ogni cosa, i picchi arsi dal sole e i declivi coperti da verdi foreste, il torrente che saltella e le nuvole in perenne tumulto, sembrano cantare gioiosi la bellezza della vita e far sentire anche a noi, mentre aspiriamo profonde sorsate di aria pura, il desiderio di cantare, perlomeno nello spirito?

Un’altra circostanza che potrebbe rendere questa gente animata da spirito poetico, è la straordinaria ampiezza dei panorami, che è la caratteristica di questi Appennini e che ricorda l’onnipresente senso geografico che dell’Italia ebbe Dante. Essi si sviluppano infatti attraverso tutta l’Italia, simili ad una serie di tetti appuntiti dalle cui cime, torri e sporgenze, si può vedere tutto ciò che transita nei sentieri più ampi e negli spazi aperti del fondo valle. Né simili panorami vengono offerti soltanto dalle maggiori altezze. Non posso dimenticare una passeggiata con i miei amici di casa Cini, passeggiata che, tra l’ora del tè e la cena, mi rivelò quelli che sembravano essere tutti i reami della terra.

Pian piano, mentre salivamo attraverso i boschi, le grandi montagne emergevano (sino ad allora erano rimaste seminascoste dagli alti declivi boscosi) biancastre nell’intenso azzurro del cielo, le più alte cime verso Modena e abbastanza ravvicinate da mostrare la meravigliosa modellatura della nuda roccia, e poi gli splendidi scogli a forma di fiamma del marmo di Carrara. All’improvviso un grande poggio scomparve dal primo piano e rivelò la valle dell’Arno con luminose striature in direzione di Pistoia, di Prato e di Firenze e i monti lontani di origine vulcanica che fanno da contorno alla campagna romana. La collina su cui eravamo, con qualche faggio stentoreo e pallida erba, avrebbe potuto essere una delle alture della Scozia. Ma guarda intorno! Grandi pallidi giganti seduti in cerchio, nuvole fumose che salgono verso di loro dalle colline più basse cancellate dal sole, lo spartiacque d’Italia dal quale nascono l’Arno e il Tevere e anche gli affluenti del Po. E a sud-ovest, più alta di tutti (ad eccezione degli alti picchi di Carrara) una tenue, tenue, luminosa piattezza, il mare, spezzata in un punto da un’isola contro il tramonto, la Gorgona? O forse l’Elba?

Una simile vista costituisce uno strano stimolo per l’immaginazione; la fantasia è guidata dagli occhi, la distanza viene cancellata, ai pensieri è permesso vagare non tra le memorie, ma tra cose reali. I miei amici di San Marcello mi dissero, e potevo assolutamente credere alle loro parole (poiché ero in grado di percepire lo scintillio delle dorature della cattedrale di Firenze), che i pastori di lassù, tra i faggi accarezzati dal vento e i ginepri gelati dalla neve, di notte guardano in basso verso il lucore biancastro di Firenze, dei lumi a gas e dell’elettricità; giovani che, con tutta probabilità, non erano mai stati più lontano di Pistoia e per i quali San Marcello è la capitale dell’universo.

Stava diventando buio quando scendemmo attraverso i boschi. Le montagne pian piano scomparivano, le alte colline boscose giacevano ripiegate come nel sonno contro il cielo pallido con le prime stelle. Le foglie morte dei castagni scricchiolavano sotto i piedi ed il silenzio era rotto soltanto dal canto del torrente e dalla campana del paese. Insieme all’aria fresca della notte meridionale sale verso le colline l’odore di carbonaie, di legno combusto, di foglie bagnate e di zolle di erba; un odore inconfondibile, dolce-amaro e inebriante, come il vino che bevono le creature della foresta. Avevamo l’impressione di sapere, dopo questa passeggiata, quanta parte della nostra vita sia realmente vissuta, e quanta, ahimè!, sia soltanto annusata. Gli Appennini possono dare sensazioni come queste.

San Gerione di Colonia

Dopo aver arrancato da una chiesa all’altra sui crudeli ciottoli di Colonia («e il selciato azzanna con pietre assassine» canta il poeta), prendendo inconsciamente nota degli odori come faceva Coleridge, alla fine del pomeriggio mi sentii colpita, e quasi rapita, dall’antica santità del luogo. Neanche Ravenna e Lucca possiedono un numero così elevato di chiese costruite nello stesso periodo e simili nella struttura, in grado di fondersi nell’immaginazione e nel ricordo in un’unica impressione. Una città che sembrava ridursi a una solenne navata bizantina, a un grandioso colonnato, a un nartece scuro e murato, a un’abside a catino scintillante d’oro: alla lettera, come la definisce Heine, «Das grosse heilige Köln».

Con l’unica eccezione della cattedrale (la cattedrale che in origine era un comune gotico e che si è trasformata in un brutto gotico da quando è stata portata a termine), queste chiese risalgono tutte a quei vaghi periodi (ai quali è difficile assegnare perfino una data approssimativa) che vanno dal VI al XII secolo e che per la nostra mancanza di luce, piuttosto che per qualche loro manifesta barbarie, assegnamo in maniera pittoresca a un’«epoca buia».