Epoca, in ogni caso, di chiese effettivamente molto buie; di ininterrotte mura di immenso spessore, di soffitti bassi, più spesso piatti; di arcate ribassate nelle navate e nel triforio; di finestre piccole e rade; di cripte sotterranee e di escrescenze buie di cappelle e porticati. Chiese che sono tutto il contrario di quella circoscritta piazza del mercato che chiamiamo cattedrale gotica, con i suoi acri di terreno e di cielo e l’intera popolazione della città ingabbiata dalle vetrate e dai contrafforti. Queste invece sono piccole, essenzialmente monastiche, destinate a pochi iniziati, una semplice entrata delimitata da una sbarra per gli estranei senza meta; e soprattutto sono chiese create per custodire qualche reliquia e meditare su di essa. In verità la bella forma, l’incrocio simmetrico della navata quadrata con l’abside circolare, e della linea dritta del pilastro della Grecia con la volta romana e la cupola, è così adatta a questo scopo che i più graziosi reliquiari esistenti – quello a cupola, per esempio, di South Kensington – sono copie di queste basiliche renane ridotte alle dimensioni di uno scrigno, con colonne e tegole d’oro e muri di smalto azzurro e verde. Reliquiari veri e propri, oggetti non per esseri viventi, ma per santi morti o per parti di santi; lo si percepisce per tutto il tempo della visita insieme alla rivelazione momentanea di quello che in anni di fede significava una reliquia.
Lo si percepisce ancora di più perché Colonia, grazie alla presenza di un gran numero di damigelle al seguito di Sant’Orsola, ebbe la fortuna di raccogliere tantissime reliquie; e in particolare lo si intuisce dopo la visita al Tesoro della chiesa di Sant’Orsola. È una cappella a volta la cui parte superiore è, letteralmente, coperta in verticale e in orizzontale da ossa di santi sistemate secondo uno schema elaborato, come se fossero fasci di paglia; mentre su ripiani tutto intorno si trovano enormi quantità di busti di legno e d’argento, soprattutto di donne, contenenti ognuno un teschio vero, mentre su altri scaffali ci sono file di bellissimi cappucci di stoffa d’argento e d’oro, incastonati di perle, entro ognuno dei quali digrigna un teschio.
In questo luogo si capisce che reliquie come queste non erano legate a particolari sentimenti, come i riccioli dell’innamorata o le lettere dei grandi uomini defunti; poiché il sentimento, per quanto forte negli individui, non è qualcosa che appartiene alle masse; mentre ci vogliono interessi pratici per spingere tanta gente a collezionare reliquie come queste, e a donare l’oro, le gemme, le perline, e il tempo e il lavoro per sistemarle. Le reliquie dovrebbero essere piuttosto immaginate come oggetti di uso fuori dell’ordinario, capaci di combinare i vantaggi di una conclamata medicina dalle infallibili proprietà con quelli di munizioni belliche la cui potenza non conosce rivali. Questo teschio, con il suo cappellino da bambina in filigrana d’argento, o quella mano ossuta, racchiusa in un guanto d’oro ingioiellato, o qualcheduna di queste piuttosto macabre vaghezze avvolte nella bambagia e classificate da didascalie in caratteri minuti, possono curare la peste o perlomeno le febbri, portare pioggia o sole e persino mettere in rotta interi eserciti. Oggetti come questi sono degni di essere conservati, collezionati, comperati, rubati (come i veneziani hanno certamente rubato il corpo di S. Marco, e, sono convinta, Barbarossa quelli dei Re Magi dal sarcofago di Milano). Per questo costruiamo solide dimore per contenerli, e per questo eleviamo edifici belli e solenni sopra di essi, perché, oltre a risultare utili per i nostri vantaggi materiali, ci riempiono di pensieri nobili e gentili e fanno bene alle nostre anime, qui come altrove.
Mi frullavano questi pensieri in testa mentre vagavo per Colonia, di basilica in basilica: quella di Sant’Orsola, dei Santi Apostoli, di Santa Maria del Capitolo, di Santa Cecilia e non so quale altra. Era stata una giornata piovosa ed era pomeriggio tardi, per cui il deplorevole fatto che queste chiese fossero state in gran parte restaurate divenne sempre meno evidente. Il freddo senso del nuovo scompariva, la navata si riempiva a poco a poco di oscurità; illuminato di lato da una luce invisibile, un bianco altare, per esempio, si innalzava grazioso e solenne nella corta abside bizantina, stagliandosi contro mosaici e capitelli di cui si sapeva soltanto che erano dorati e brillanti.
Non so esprimere il piacere che provai quando, alla fine dei miei giri, mi imbattei in una chiesa che non era stata mai restaurata, molto mal ridotta dall’uso, in quel momento colma di fedeli che pregavano cantando le litanie! Alla luce fioca delle candele si vedevano scene curiosamente incongrue: grandi dipinti sullo stile di Rubens con battaglie avvolte dal fumo di cannone che commemoravano la vittoria sugli eretici svedesi nella guerra dei Trent’anni, e sul lato opposto una Vergine bizantina annerita, con l’aureola dorata e le pieghe del panneggio anch’esse dorate che splendevano dietro una fila di lumi. Sulla chiesa gravava un vago odore, oltre che d’incenso, di fiori secchi, invece dell’onnipresente afrore germanico di formaggio stagionato e di birra; e dall’esile fila di uomini e donne inginocchiati si innalzavano le risposte solenni, conclusa ognuna da una modulazione arcaica dell’organo. Sarebbe potuto essere quello il momento della costruzione della chiesa; anzi, vi si poteva cogliere la solennità infinita dei secoli che da allora si erano accumulati, ciascuno portando con sé la propria parte di splendore o di toccante ciarpame. Terminata la funzione, mi volsi verso il mio vicino e gli chiesi il nome della chiesa. Mi rispose che era la chiesa di San Gerione.
Dava una certa soddisfazione pensare che ogni persona poteva diventare santa, e perché non Gerione? Il luogo in cui se n’era sentito parlare per l’ultima volta, come di colui che fa da ascensore da un piano all’altro dell’inferno, suscitava qualche sospetto e Dante gli si rivolge con espressioni malevole, per non dire nulla degli artigli e della coda di serpente; ma il poeta, si sa, dovette patire terribili sofferenze nella discesa, e di conseguenza gli sarebbe stato piuttosto difficile essere gradevole. Per di più dovette ammettere che Gerione aveva «la faccia d’uom giusto», il che è sempre qualcosa che inclina al bene, anche nell’incipiente santità. Eppure...
Oltrepassai la chiesa tra strette vie male illuminate, dove le lampade formavano piccoli aloni gialli e vagavo, meditando, verso la riva del fiume. A Colonia, il Reno è largo quanto il Tamigi nella zona portuale, con grandi e ampi moli, ed è sovrastato dal campanile massiccio della città. Non c’era molto traffico, solo qualche vaporetto stava finendo di scaricare; ma gli uffici marittimi, i fornitori navali e così via, le stesse iscrizioni in tutte le lingue e le pompe con la scritta «acqua fresca per marinai» davano la sensazione che il Reno fosse una delle più grandi arterie del mondo. Sopraggiunse la sera, le navi cominciarono a mostrare luci verdi e rosse, la città a diventare una cupa massa scura con i soli campanili chiari che emergevano contro il cielo verde pallido. Mi sporsi contro un parapetto e guardai i neri vortici dell’acqua e le macchie di luce sulla riva opposta.
All’improvviso ebbi un sussulto, almeno dentro di me. Gerione! Capii in quel momento la canonizzazione di Gerione: era stato costui il benefattore della città. I miei occhi avevano seguito in maniera meccanica i movimenti del battello a vapore che attraversava avanti e indietro il fiume, una vaga sagoma nera con l’occhio di un rosso acceso ed un profilo simile a quello di un uccello che nuota, con il tendone e il fumaiolo. Era stata questa l’attività commerciale di Gerione nel medioevo, prima che Dante l’incontrasse, quando fungeva da traghettatore all’inferno.
Nelle notti tempestose d’inverno, quando nessun barcaiolo se la sarebbe sentita di affrontare il fiume, egli faceva come San Cristoforo con i buoni cittadini di Colonia, portandoli sani e salvi da una sponda all’altra.
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