Ma una notte quel ficcanaso di un fraticello che faceva la spia, come dice Dürer, al vero San Cristoforo, uscì con la lanterna e rivelò la sagoma inconfondibile, con la coda da serpente e gli artigli, del santo mostro che stava adempiendo a una tale utile impresa, l’impresa, forse, a cui adempiono le vital lies di Ibsen (poiché Dante lo identifica con l’inganno) trasportando la gente attraverso l’oscurità e il vortice della vita.

Di lì a poco ritornai, malgrado l’oscurità, nella chiesa di Gerione e solo il pensiero dell’espressione di sorpresa del sacrestano mi trattenne dal suonare il campanello, a quell’ora tarda, e di chiedergli per cortesia di mostrarmi le ossa e, se era possibile, la coda e gli artigli di San Gerione.

In Piemonte

È abbastanza freddo su questo versante delle Alpi, sebbene sia solo la metà di settembre e non abbia piovuto da mesi. I campi e i prati in declivio sono delle vere e proprie esche e le vigne – le famose vigne dell’Astigiano – formano strisce scure sulle pallide colline bruciate. Il paesaggio sembra invecchiato, ridotto all’osso, rovinato dalla siccità. Ma la sera e la mattina – in verità, per quasi tutto il giorno – sotto un cielo offuscato di pallido azzurro, ogni cosa è pervasa da un tipo di grazia alla Piero della Francesca fatta di lievi tinte color tortora e di delicate, ondulate linee seghettate. E poi, attraverso la foschia, a volte si delinea, immensamente alto e evanescente, il grande anfiteatro delle Alpi.

Ci rechiamo ad ammirare la loro apparizione, quasi sempre al tramonto, sulla terrazza della villa, alla fine del viale di limetta che porta alla grande dimora a contrafforti stile Luigi XIII. La casa appartiene a gente che unisce i due nomi più significativi del risorgimento italiano, quello dello statista che ha creato la nuova nazione e quello del fiero e sprezzante drammaturgo che per primo ne affermò l’esistenza. Ogni aneddoto e quasi ogni nome che emergono nelle conversazioni a tavola suggeriscono particolari di quel periodo eroico di storia recente che, per colmo di sfortuna, è sprofondato in una così squallida, burocratica desolazione. Ma la casa stessa, il castello, nel senso francese del termine, di S. Martino, e i luoghi intorno ci narrano le più remote storie del vecchio Piemonte, prima che dell’Italia non si fosse profilata nemmeno l’idea.

Il vecchio Piemonte che, se per metà già italiano, di certo per l’altra metà era francese. In astratto, oggigiorno, la commistione di due nazionalità così ostili è quasi inconcepibile, ma ciò perché si pensa alla Francia democratica, ben definita, comunque centralizzata, nata dalla Rivoluzione. Durante l’Ancien régime la transizione è graduale e impercettibile; non si avverte nessun cambiamento quando Sterne attraversa le Alpi e la vita di Rousseau sembra quasi la stessa su un versante e sull’altro delle Alpi, mentre il bizzarro carattere savoiardo si diffonde da entrambi i versanti, forse perché, come suggerisce Taine, è il carattere dell’Ancien régime. Parlando di Rousseau, ciò che mi fa sentire questa parte di Piemonte, e questa dimora in particolare, come un’immagine del vecchio mondo francese, è il fatto che sulla collina opposta si erge un altro grande, bianco château, Govone, dalla moderna forma italianizzata, di proprietà della famiglia presso la quale, ahimè!, Jean Jacques era stato un lacchè del tutto indesiderabile. L’Abbé de Gouvon, come lo chiama, era la persona, se mi ricordo con esattezza, che gli dette alcune nozioni di matematica e gli offrì in dono la «Fontaine de Hiéron», il piccolo giocattolo scientifico con il quale pensava di iniziare la sua fortuna.

Ma torniamo a S. Martino. Ovviamente, per molti aspetti è una villa italiana che si leva a sommo della collina a terrazze. Ma è fiancheggiata da torri quadrate ed ha l’aspetto inconfondibile dello château francese stile Luigi XIII. E non fu forse costruita durante la reggenza di quella Duchessa di Savoia, Madama Reale, come la chiamavano, la singolare figlia di Enrico IV che regnò romanticamente tra intrighi di gesuiti e cospirazioni amorose? Anche le stanze sono di gusto francese, più delicate negli stucchi delle ville italiane e delle stanze dei palazzi del diciassettesimo e del diciottesimo secolo, con lunghe finestre francesi e con il pavimento di parquet invece che di marmo. È naturale che i suoi gentili e ospitali proprietari si esprimano, perfino con la servitù, alternativamente in francese e in italiano: non il francese degli stranieri, ma il vero francese, differente per una certa grazia e vaghezza dalla lingua stringata della Francia moderna; il francese che sento sempre, quello dell’Ancien régime.

Anche le tradizioni sono per alcuni aspetti l’esatto contrario di quelle italiane. Sin dai giorni dei Tarquini, i veri italiani hanno sempre trattato con sdegno i re, considerandoli come elementi venuti da fuori, avventurieri senza il becco di un quattrino; il loro sovrano ideale era il Principe di Machiavelli che restava un avventuriero militare, l’astuto e magnifico tiranno venuto dal nulla; nel migliore dei casi, nei sogni di Dante, un remotissimo e umbratile imperatore germanico, strettamente elettivo e per nulla feudale. Ma qui in Piemonte hanno avuto la lunga successione dei legittimi ereditari Duchi di Savoia e la devozione cavalleresca alla monarchia che, fino alla rivoluzione, sembra essere stata una parte così essenziale, spesso così patetica, del carattere francese. Questo sentimento feudale, così estraneo alle tradizioni italiane, è ben esemplificato dalla storia dei non troppo remoti antenati di un mio amico, il conte Catalano, che assunse il loro nome, e dal curioso motto che in maniera dolorosa portò nella loro famiglia. Tort ne dure: l’ingiustizia non dura a lungo, motto scritto nel cartiglio attorno all’aquila araldica. Nel possente castello di Magliano, che si erge semidiruto in alto sulla vallata, quel motto, con il Collare dell’Ordine dell’Annunziata, riappare sugli stucchi delle bianche stanze ampie e vuote. Il conte Catalano in questione giace sepolto nella cappella con un onorevole epitaffio. Ma egli morì miseramente in prigione, forse avvelenato o di crepacuore, gli venne confiscata la proprietà, gli venne strappato dal collo l’Ordine dell’Annunziata e lui stesso fu degradato come traditore in una delle guerre minori del XVII secolo. Infatti il duca di quell’epoca, avendo perdute alcune fortezze per incompetenza, s’era salvato l’onore accusando il suo vecchio generale di averle vendute al nemico. Negli anni a seguire, con l’avvento di un altro duca di Savoia, il figlio del conte Catalano tornò dall’esilio e ottenne di aprire un’inchiesta sul triste caso del proprio padre sfortunato. Si dimostrò che non c’era stato nessun tradimento, il Collare dell’Annunziata fu deposto sulla tomba del povero soldato morto e tutto venne sistemato con il dono di un motto commemorativo.