Si è tentati di ribellarsi a questo comportamento quasi feudale con il quale si vorrebbe rimediare alle colpe dei principi; ma, ahimè, la democrazia francese dei nostri giorni non mostra ancora i segni di questa magnanimità da misero Ancien régime; e sarà capace di ripetere, in casi non dissimili da quelli del conte Catalano, Tort ne dure?
Come ho detto, tutto questo è nel complesso tipicamente francese. Ma il paese è anche intensamente italiano. Ne ho avuto forte la sensazione ieri, quando siamo andati a vedere il piccolo castello di La Cisterna del duca d’Aosta. Si corre zigzagando senza fine tra i declivi di friabili e sabbiosi vigneti, già color ruggine e giallo e con un riflesso di avvizzito lillà. Sulla cima della collina e sui bastioni immensamente alti di bel laterizio rosso si erge la bianca villa quadrata, con le colonne e con i cipressi, con la corte del castello e le grandi torri feudali. Un grande precipizio verde scende ripido dall’altro lato, invaso nella luce del pomeriggio da nugoli di mosche simili a fiamme provenienti dalle botti del vino. Si passa da una stanza all’altra, tutte immense, abbandonate, con un esiguo mobilio del XVIII secolo, finché non si arriva ad una stretta zona, adibita a giardino, sui bastioni, un piccolo appezzamento dimenticato: povere viti, alberi da frutto avvizziti, siepi di bosso inaridite, un profumo diffuso di pesche lasciate ad essiccare sui rami, un busto abbandonato di fauno sulla balaustra spezzata che guarda le vaghe e distanti colline dove si intravedono altre ville cadenti e i miseri villaggetti di collina, bruciati d’estate ed innevati d’inverno. Questa è veramente l’Italia con la sua patetica povertà materiale. Ma è anche l’Italia con quelle splendide vivificanti qualità che rendono l’animo più luminoso e la vita più semplice e più degna: un’aria straordinariamente luminosa e leggera e in lontananza evanescenti serti di catene di montagne. In questo desolato e remoto giardinetto sotto le Alpi rivedo con un brivido di piacere le belle e significative cose del Sud, i grandi alberi di alloro in onore di Apollo e i melograni di Persefone coperti di frutta che si spacca, cremisi e scarlatta.
A sera ritornammo nel piacevole château Luigi XIII dall’aspetto francese. Il tramonto era giunto, simile al mosaico o all’oro della pittura antica, dietro le torri e le guglie e le case ammucchiate di una piccola città sulla collina. Poi, a poco a poco, le grandi masse isolate delle Alpi, il Monte Rosa, il Matterthor, il Monviso erano apparse per pochi secondi azzurre contro il pallido cielo della sera, e il canto dei grilli s’era levato nell’oscurità, con il profumo dell’erba fresca e delle foglie di pioppo proveniente dagli invisibili fiumi della valle. L’Italia, non si può sbagliare.
L’arazzo di Bayeux
Che cosa strana è il sentimento nazionale, o piuttosto ciò che di norma passa per tale. C’erano cinque o sei turisti, oltre me e la mia amica ebrea, in quel piccolo museo di Bayeux dove è appeso l’arazzo, dove noi tutti avvertivamo un’emozione patriottica e nel quale tutti noi davamo interpretazioni diverse e sbagliate. I ciclisti francesi, su suggerimento delle guide ufficiali, esprimevano grande soddisfazione, senza alcuna sorpresa, su ciò che ritenevano una sorta di revanche organizzata in anticipo nei confronti di Waterloo.
Scorrendo le guide Murray, i puri anglosassoni o i celti scozzesi di indiscutibili origini mostravano un silenzioso piacere per la vittoria britannica. Nessuna consapevolezza, dall’una all’altra parte, di ciò che ogni libro di storia dimostra, cioè della consanguineità di questi conquistatori francesi o inglesi con la lontana gente della saga di Volsunga, con i loro Sigfrido e le loro Brunilde. Chi scrive queste righe, sebbene sia attaccata alla convinzione di avere antenati normanni, provava un vago risentimento per la conquista intesa come una aggressione piratesca dell’Inghilterra; e la mia amica ebrea, i cui antenati furono mercanti a Toledo e a Saragozza fino al tardo medioevo, si identificava con questi conquistatori normanni perché erano French come lei. La morale di tutto questo è che la razza è niente e la lingua è tutto, poiché il sangue porta solo somiglianze fisiche che sono molto semplici ed individuali, mentre la parola esprime il pensiero, la tradizione, la legge e il pregiudizio che sono complessi ed universali.
L’arazzo invece, fonte di tale contraddittoria soddisfazione patriottica, è davvero un bel lavoro. Mi ero dimenticata, naturalmente, del facsimile di South Kensington, e provai un senso di sorpresa nel trovarlo abbastanza stretto ma di una lunghezza incredibile, iarde e iarde, di cui ogni pezzo poteva venire disteso su una cornice molto piccola e riposto in un angolo quando diventava troppo buio per lavorarci. Esso emana una piacevole sensazione domestica nel suo non essere un arazzo a telaio (quella misteriosa creazione che sembra essere nata già fatta), ma il ricamo su un panno di lino di quello che sembra filo di lana verde, marrone, rosso, giallo e nero, senza sfondo; e questo aspetto domestico fa sì che si sia maggiormente portati a credere ai fatti storici che vuole affermare. Le figure appaiono meravigliosamente espressive, soprattutto perché nell’intera serie non c’è cenno anatomico. Le teste per esempio mancano sempre di un pezzo. È un esempio ammirevole del modo in cui la gente che percepisce veramente il movimento, come i bambini o gli ignoranti, riesce invariabilmente a renderlo: il movimento nei cavalli, per esempio, che una critica eclettica e sopraffina si compiacerebbe di paragonare a quello di Degas.
C’è l’intera epica dolente e gloriosa con Aroldo che presta giuramento. È curioso come queste donne ricamatrici abbiano dato ad Aroldo un aspetto mansueto, in contrasto con la forza e la determinazione di Guglielmo (lo chiamano così). Anche i rudi sassoni dall’aspetto vagamente piratesco, avvolti negli abiti vichinghi e con i lunghi baffi, e la superba tenue degli alti e eretti normanni, sempre con l’armatura di ferro e la visiera dell’elmo calata sul naso, severi prussiani dell’epoca. C’è anche la santa ingenuità del barbuto re Edoardo seduto sul trono tra le sue piccole chiese. E poi i cavalli! Si spingono in avanti, scalciano, caracollano sfrenatamente, s’impennano, annusano, rispondono al comando della mano e dello sperone, i meravigliosi cavalli, rossi, verdi e neri, con le criniere multicolori. E le barche, mosse dai remi, o a vele spiegate con a bordo i cavalieri e i piccoli cavalli! Un altro aspetto che mi colpì in modo particolare è il fatto che (ad eccezione di questa sensazione di movimento) lo stile dei ricami e di tutto ciò che essi rappresentano è completamente bizantino. Ciò lascia supporre che questi ipotetici inglesi e francesi potrebbero essere greci dei tempi di Giustiniano; essi siedono tra architetture simili a quelle delle basiliche di Ravenna, mettono sul trono Edoardo, Aroldo e Guglielmo simili a consoli in tunica, in clamide e in abiti imperiali; e si siedono a cena come gli Apostoli nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo. Francesi? Inglesi? Uomini del medioevo? Sicuramente no, bensì romani inselvatichiti.
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