E qui, come in ogni altro luogo, l’antichità classica emerge per affermare che non è ancora morta e defunta. In verità qualche volta ci si sente portati a chiedere, osservando le opere medievali, se l’antichità abbia mai avuto fine e se Roma abbia cessato di governare il mondo.

Dopo aver visto l’arazzo, vagammo per l’uggiosa cittadina di Bayeux e ci soffermammo a guardare le meravigliose torri della cattedrale. Qui per lo meno l’antichità non ha niente da rivelare e il medioevo, se ce n’è stato uno, è ancora evidente. Queste torri sono castelli perfetti, ampi alla base come piccole chiese, sostenute per tutta l’altezza da contrafforti, con le stanze dei guardiani e le torrette. E l’occhio, nell’inseguire le nuvole che navigano (apparentemente vicine) al di sopra del grande campanile, sale lungo le superfici irregolari e poi si leva su per le aggettanze vertiginose, simili a qualche montagna fortificata.

Piovve per l’intera giornata a Bayeux, ma mentre ci apprestavamo a fare ritorno, il tempo migliorò sopra il mare calmo e sopra le pallide onde dei campi di grano, ed il cielo divenne gremito di rondini quasi fossero moscerini, tante e poi tante nell’aria nitida, piccole macchie nere, svolazzanti che emettevano strida. Mentre il silenzio della sera cominciava ad avvolgerci con il tintinnio delle campane dei cavalli, mi ritornarono in mente l’arazzo, Aroldo e Guglielmo. Sicuramente uno dei principali esiti della Conquista fu che ci allontanò dalla Scandinavia, dalla vaghe anarchie teutoniche, ancorando l’Inghilterra al continente e alla civiltà, rendendoci europei e per metà latini. Mezzo latini? Sicuramente di più! Si pensi all’Inghilterra provenzale e francese di Enrico II, di Chaucer, di Froissart, meno britannica della nostra. La Conquista ci dette anche la nostra bella lingua, così ricca perché espressione della natura di due razze, la dovizia dei sinonimi, delle delicate distinzioni, soprattutto la nostra totale libertà nella grammatica. E con questa mescolanza di lingue ci permise di assimilare ancora una volta la bellezza e la sensibilità della forma e del sentimento latino, dandoci Spenser e Shakespeare e Milton, ed ancora Shelley, Rossetti e Swinburne, meravigliosi ibridi del nord e del sud. E mentre donava tutto questo alla nazione sottomessa, la Conquista fu una terribile fonte di sciagure per la Francia, introducendo l’Inghilterra nei suoi stessi organi vitali, distruggendo ogni legame con la successione normanna e angioina, facendo appassire lo splendido e generoso medioevo con le miserie e la barbarie di infinite guerre difensive; accelerando la centralizzazione di un paese smembrato, predestinandolo (chi lo sa!) all’Ancien régime e alla Rivoluzione.

Tutti questi pensieri mi vagavano pigramente in testa, interrotti a tratti dalla curiosa visione del povero vecchio Edoardo il Confessore in trono, impotente tra le sue chiese giocattolo, e di Aroldo e Guglielmo al galoppo, piccoli manichini infantili su cavalli giocattolo dai colori rosso e verde dell’arazzo.

I laghi di Mantova

In un’abbagliante giornata di giugno furono i laghi, la delizia dell’acqua e del falasco che vidi dal treno, a spingermi per la prima volta a scendere a Mantova, e anche questa estate il loro pensiero mi ci ha portato di nuovo. Circondano la città da tre lati, formati come sono dal Mincio nel suo percorso dal lago di Garda al Po, laghi poco profondi che si riversano sulla grande pianura lombarda. Sono limpidi, increspati e orlati di canne, cosparsi di gigli d’acqua come isolotti e vi ondeggiano le più lunghe e verdi erbe palustri. Qua e là si scorge una vela bruna che arriva da Venezia, i bambini fanno il bagno sotto le torri del Castello, in una strettoia c’è un lungo ponte di pietra coperto dove le acque scorrono fra le ruote dei mulini e dove s’intravedono ambienti freddi e scuri che sanno di frumento.

La città mantiene molte tracce dell’antico splendore, sebbene, da quando i fastosi Gonzaga furono costretti a cedere il Ducato all’Austria, sia stata spogliata più di ogni altra dei suoi dipinti, tanto da arredare tutte le gallerie d’Europa. Ci sono molte belle ed eleganti dimore tardo rinascimentali sostenute da raffinate colonne ed anche incantevoli decorazioni in terracotta all’aperto, nelle finestre e nei campanili. Al di sopra delle bancarelle di frutta e dei venditori di secchi di legno, di oggetti di terracotta e di arnesi da pesca e di reti (che ricordano la presenza dei laghi), nella Piazza delle Erbe c’è un orologio pittoresco con una Madonna in trono ed in Piazza Virgilio ci sono due nobili palazzi con belle e superbe merlature ghibelline. Tutti gli edifici hanno assunto un colore bianco slavato per l’umidità e i tetti e le torri sono di un pallido rosa, quasi sbiadito, in contrasto con il cielo sempre acquoreo e azzurro.

Ma ciò che colpisce a Mantova è l’incredibile combinazione, il fantastico duetto del palazzo e del lago. Naturalmente si visita prima la parte antica, il castello di mattoni rossi dei Marchesi di un tempo in una delle cui grandi torri quadrate ci sono i meravigliosi affreschi del Mantegna: affascinanti cupidi, simili a soffici nuvole trasformate in puttini che giocano nel più bel cielo azzurro tra ghirlande di ortaggi, di aranci e di limoni che formano degli archi trionfali con i Marchesi di Mantova e tutti i giovani spavaldi Gonzaga. L’intera decorazione, dove predominano l’azzurro, il bianco e il verde smaltato, è delicata seppure fredda nel suo splendore, ma di certo è la più integralmente godibile rispetto alla gran parte delle opere del Mantegna. Tuttavia le finestre della torre incorniciano qualcosa di più bello e delizioso: uno dei laghi! Le acque di pallido azzurro orlate di canne verdi, i pioppi e i salici della retrostante pianura, la vaghezza bluastra delle Alpi e il tutto unito dal lungo ponte del castello con le torri di mattoni color geranio chiaro.

Si deve passare attraverso immensi cortili per arrivare da quest’ala fortificata al resto del Palazzo, o Corte Nuova, come viene chiamato. Queste aree sono state trasformate in piazze pubbliche e l’ultima volta che le ho viste, un giorno di mercato, erano affollate da carri che scaricavano cesti di seta e ovunque nei portici erano ammassati bozzoli gialli e verdastri. Il palazzo era pervaso dal nauseante odore dei bachi da seta che pareva accordarsi, per consonanza, con il suo secolare sfacelo. Infatti di tutti i palazzi in rovina che ho visitato in Italia, questo di Mantova è nel peggiore stato che si possa immaginare. All’inizio è questa l’unica sensazione che si prova. Ma a poco a poco, mentre ci si aggira per miglia e miglia di solenne desolazione, si scopre che, a differenza di altri luoghi in simile stato, esso ti si imprime nella mente. Infatti queste stanze senza fine e questi studioli, alcuni, come quelli di Isabella d’Este (che contenevano le allegorie del Mantegna, del Perugino e del Costa, e il Trionfo della castità e così via, ora al Louvre), raffinati e pregevoli, o volgarmente modernizzati sotto Maria Teresa per qualche festa da ballo o per qualche ricevimento, o di fatto lasciati andare in rovina e deteriorare, riempiti di umide scartoffie, o di recente usati come magazzini per foraggio e come caserme. Tutto questo immenso labirinto, che trova il proprio simbolo nel bizzarro labirinto d’oro e azzurro su uno dei soffitti, è nell’insieme la cosa più bella e fantastica lasciata in eredità dall’Italia di Shakespeare.

L’arte che rimane (a proposito, in una sala diruta ho trovato le cornici di stucco vuote del Trionfo di Giulio Cesare!) è spesso goffa e scadente come gli elaborati medaglioni e i soffitti di Giulio Romano e del Primaticcio; ma si sente che una volta essa si rifaceva al romanzo mitologico dell’Ariosto e del Tasso con cui era perfettamente in sintonia, mentre ora un altro tipo di romanzo si accompagna alla sua desolazione.

Desolazione, desolazione! E ovunque, dalle stanze con i segni zodiacali in rovina e gli amori degli dèi e le danze delle Muse, e attraverso giardini pensili soffocati dall’erbacce e decaduti ad un livello più basso, appaiono le acque azzurre del lago e le sponde verdi e lontane che creano un’atmosfera da fiaba.