I bastioni di Augusta sono la giusta dimora per il Feiertag del Faust. Ma un Faust meno scorbutico, meno medievale; un Faust dalle maniere raffinate e spontanee, alla Van Dyck, vestito di nero, il tipico dignitoso cittadino di questa città dalle vie larghe e pulite, le fontane di bronzo con le figure mitologiche, le case con i timpani, affrescate e decorate a stucco, secondo la voga dell’Italia alla quale siamo legati da rapporti commerciali.
Seduta sulla panchina nel Graben, con l’animo lieto perché avevo ritrovato la Germania che ho sempre amato, ebbi la consapevolezza del fatto che questa Germania, di cui si dice che rimanga così poco entro le frontiere dell’Impero, s’estende sicura molto al di là di esse: ben lontana dal non saperlo, ne avevo avuto un’intima conoscenza per anni. Gran parte della Svizzera è in realtà territorio della Germania. La cara cittadina di Thun, dove ho trascorso molti anni dell’infanzia, non è altro che una microscopica e misera Augusta, mentre Bale è un po’ più moderna e Lucerna, ma in particolare Friburgo, sono città più romantiche. Il fatto mi si era affacciato alla mente in maniera abbastanza strana e assurda quando fiutai in queste strade dalle case a timpano l’indefinibile odore dei portici e delle terrazze di Thun: un vago odore di drogheria, di birra stantia e di legno vecchio che mi era molto familiare in Svizzera e che avevo ritrovato anche nell’Engadina. Perché l’Engadina, malgrado la lingua, non è altro che la Germania medievale; quelle case Samaden dai tetti spioventi, le volute di ferro battuto e tutto il resto sono tipiche di questo versante delle Alpi; e lo sono anche le chiese con i campanili a cipolla, coperti di graziose tegole o di metallo verdastro. Le incisioni su legno di Dürer, la musica della Passione di Bach, l’umorismo di Jean Paul, il romanticismo di Wilhelm Meister, le lettere della famiglia Mozart sono tutti ugualmente tipici di questi luoghi; di tutti quei luoghi, penso, nei quali gli odori tipici delle drogherie, della birra e del legno vecchio indicano la presenza della Germania meridionale.
Forse ciò che unisce questi luoghi, non tutti alpini, è proprio la relativa vicinanza delle Alpi. Qui ad Augusta, nella verde uniforme pianura, si intravede a distanza in fondo alle vie, nel vuoto fra le torri, la neve appena caduta. I tetti incredibilmente scoscesi delle case e delle chiese sembrano raccontare delle tremende tempeste che violente precipitano giù dalle montagne; e i canaletti dei mulini nelle strade secondarie, con i loro alti edifici di legno, scorrono bianchi e densi, come se fossero usciti da un ghiacciaio. Agio e prosperità, pascoli floridi, alberi frondosi e case per starsene caldi; ma venti e nevi e cime di montagne non solo per rasserenare e rendere corroborante l’aria, ma per portare un tocco di poesia e di romanzesco nell’anima opulenta della città.
A tutto ciò si deve aggiungere una certa devozione, che è essenzialmente un tradizionale comportamento tedesco di mettere in pratica la religione, non in occasioni ufficiali, o festive o comandate, come fanno gli inglesi, gli italiani e i francesi, ma come una necessità intima e quieta. Nella cattedrale, durante la funzione del pomeriggio, i fedeli seduti erano troppo assorti per notare la presenza di uno straniero, e le contadine con fazzoletti simili a turbanti e file di bottoni d’argento vagavano indisturbate mormorando le loro preghiere, tenendo i rosari tra le mani, le dita distese le une contro le altre. In un’altra chiesa c’erano ancora gli addobbi di una cerimonia, alberelli di betulla appoggiati contro le colonne e infilati in secchi di legno, e corone e festoni che pendevano lungo le pareti. Un’improvvisa folata d’aria aveva sparpagliato i rami secchi riempiendo la chiesa del profumo dell’abete, delle foreste e degli alberi di Natale. Le foreste e gli alberi di Natale, i due simboli del sentimento e della fantasia tedesca, sono in fondo la stessa cosa e rappresentano il quasi selvaggio sentimento romanzesco e in pari tempo la fantasia infantile. Era giusto che mi ricordassi di loro ad Augusta, e prima di lasciare questa cara e antica città e di tuffarmi nell’altra Germania – quella che non amo – lasciatemi ricordare una misteriosa e consueta professione praticata da alcuni dei suoi abitanti, uomini e donne, ma in particolare dalle donne. La ostentano su certe insegne che sono ricorrenti come quelle decorate da spade e grappoli d’uva dorata sopra le porte delle taverne, presenti in particolare nel nucleo ristretto della città chiamata Fuggerei. La professione è quella di Hochzeits-und-Leiche Bitterin.
Preferisco la forma femminile e mi chiedo se in uno degli innumerevoli racconti di Jean Paul ci sia la nonna o la zia zitella di qualche bella e romantica creatura del 1790 che in Augusta praticava la professione di «Organizzatrice di Matrimoni e di Funerali».
La Settimana Santa in Toscana
Di quelle due settimane fastidiose trascorse ad Arezzo durante la Settimana Santa, con il vento che soffiava dalle nevi del Falterona, mi è rimasta una sensazione di incantevole devozione che offusca persino il ricordo degli affreschi di Piero della Francesca. Nell’abbandonare quelle stradine lastricate, tetre e piene di desolazione per infilarsi nelle chiese con una folla silenziosa e imbacuccata che usciva ed entrava a sciami, si aveva l’impressione immediata di ritrovarsi a guardare dentro un’anima, là dove s’era sempre notato un corpo piuttosto sordido.
Le chiese erano sfolgoranti, perché quella era la sera dell’illuminazione del Santo Sepolcro. Una luccicante piramide di ceri color argento e oro pallido era stata deposta su uno degli altari, mentre sul pavimento della chiesa, davanti ai gradini dell’altare, attorno ad un misterioso oggetto dorato, simile a una culla, erano sistemati i piccoli giardini. Piccoli giardini di Adone, se giudicati da un punto di vista storico, trasmessi al mondo cristiano dal paganesimo, e poi per tutti i secoli dopo la nascita del Cristo; dappertutto luci e sepolcri, piante di senape e di crescione, vasi di grano in germoglio; ma non per questo si perdeva il senso religioso, al contrario si poteva risalire a forme di devozione a lungo dimenticate. Mi chiedo allora se anche il paganesimo accettava riverente tra i suoi splendori i doni dei poveri di borsa e degli umili di spirito. Qui ad Arezzo, sotto le splendide e solenni luminarie dell’altare, c’erano file di luci che brillavano più intensamente agli occhi dello spirito; per l’occasione erano state prese a prestito lucerne d’ottone usate in cucina, dal fusto lungo, con appesi gli smoccolatoi, e moderne ma volgari lampade a petrolio di porcellana, oltre a lumi da notte con su appiccicata l’etichetta con il nome e l’indirizzo; un prestito al venerato Santo Sepolcro che implicava un brancolare a tentoni su per scale buie e l’andare a letto con l’aiuto di un fiammifero. Allo stesso modo, si intravedevano povere e minute viole del pensiero e gerani in bracieri di terracotta smanicati, perfino in barattoli di marmellata vuoti con ancora l’etichetta.
Nel duomo, quella mattina, in occasione della «lavanda dei piedi», avevo provato la stessa sensazione di piacevole religiosità. Sono un’appassionata di processioni religiose e ne ho viste tante, sin dall’infanzia, ai giorni delle fastose messe pontificie di Pio IX. Ma è solo in Toscana e soprattutto in campagna e in zone impoverite come Arezzo, che ho avvertito la soddisfazione solenne che promana da queste feste liturgiche che accomunano i ricchi e i poveri, senza alcuna forma di ostentazione e di lusso smodato. Le persone cui venivano lavati i piedi erano realmente povere, una panca piena di miserabili in età molto avanzata, ospiti di reclusori, ma vestiti con eleganza di una tunica bianca di qualche confraternita, sulla quale uno di loro aveva un distintivo di madreperla. Parecchi erano ciechi e molti così malandati che dovevano essere aiutati a raggiungere il loro posto su per i gradini dell’altare. Sedevano lì del tutto impassibili, i vecchi piedi su un morbido tappetino di un rosso sbiadito, in attesa che i preti nei loro addobbi sontuosi – i piviali color prugna, verde susina ed oro – porgessero a ognuno di loro un sorso di vinsanto giallastro, e che il vescovo si spogliasse della mitra e della sua splendida dalmatica che lo rendeva simile a un pavone e si inginocchiasse per lavare loro i piedi. Mentre aspettavano, i parroci di Arezzo avanzavano in fila indiana (tra loro c’erano venerandi monaci con tanto di barba) tutti in cappe d’oro, e benedivano solennemente un’argentea caraffa piena d’olio posta sull’altar maggiore, propagando oltre la sommità il segno della Croce, come fanno i bambini quando buttano i baci: quello stesso olio destinato a ungere il morente, uguale per il ricco e per il povero. Intanto la folla dei contadini e degli umili cittadini ciabattava in silenzio per la navata, si inginocchiava e si alzava ripetutamente, paga di contemplare tanto splendore con il consueto rispetto.
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