L’impressione culminante di questo genere di rappresentazione non è stata comunque ad Arezzo, ma sulle colline vicino a Firenze durante la processione del Cristo morto del Venerdì Santo. Il sole era tramontato poco prima che si arrivasse in Val d’Ema, il cui corso serpeggiante era delineato vagamente da filari di pioppi in germoglio, e il grano verde e i fiori degli alberi da frutto avevano assunto un risalto spettrale con il vanire della luce nei fondovalle. Eravamo in ritardo. La processione si era mossa dalla chiesetta sulla collina e solo l’aureola della Madonna, scorta da dietro, era ancora visibile, un sottile cerchio d’argento contro l’azzurro della sera. Era nostra intenzione d’incontrarla a metà del suo itinerario attraverso i campi. Ci arrampicammo lungo il fosso e aspettammo tra i pioppi, sul lato opposto del ponte che avrebbe dovuto attraversare. La processione emerse dalla collina e scese verso di noi, lontani mobili punti di luce attraverso la valle, accompagnata dal suono smorzato dei tamburi al ritmo della marcia funebre. E quando la banda cessò, fu accompagnata da un inno strano ed arcaico, cantato dalle voci gutturali degli uomini. Poi le prime torce apparvero sul ponte, proiettando riflessi rossi sull’acqua e spargendo una pioggia dorata di scintille mentre venivano smoccolate contro il parapetto. In mezzo a questa luce fumosa, i cavalli fluivano sul ponte con uomini in mantelle scarlatte ed elmi romani su cui si riflettevano le luci, e appena dopo, tra le file degli spettatori che fiancheggiavano la strada (i più lontani, una linea rossa di facce vagamente illuminate, i più vicini una semplice linea scura), sopraggiunse l’incerto vacillare del baldacchino sull’invisibile figura del Cristo morto. Ora la processione avrebbe attraversato il villaggio per cui, avendo deciso di incontrarla faccia a faccia, tornammo indietro arrampicandoci di nuovo attraverso i campi fino alla chiesa. Negli scorci delle strade del villaggio, si potevano vedere parti delle facciate delle case che improvvise si illuminavano al passaggio delle torce e delle candele; e grandi ruote di fiaccole ogni volta che una torcia veniva smoccolata contro il muro. E nelle pause tra i tamburi e la marcia e lo strano inno, le voci della gente che vendeva in piazza le nocciole e i biscotti. La processione cominciò a salire su per la collina verso la chiesa dove l’aspettavamo: le rosse mantelle dei soldati romani, le tuniche bianche delle confraternite si avvicinavano nella luce fumigante, poi fu la volta del baldacchino scuro, dondolante, che s’allargava e si restringeva mentre ondeggiava, finché abbiamo potuto scorgere, tra le file delle candele, la livida figura distesa con le braccia inerti e abbandonate. In fondo sulla collina, nel frattempo, mentre i tamburi cessavano e il malinconico canto di voci gutturali riprendeva, riapparve la Madonna, portata dalle donne con il capo coperto di veli scuri, una figura avvolta nel velo nero, l’aureola argentata contro il cielo. La processione entrò in chiesa, le torce, una dopo l’altra, vennero spente davanti alla porta tra una pioggia di scintille; i soldati romani e la banda aspettarono fuori, con un clangore finale dei cembali e l’alto rombo dei tamburi. Ora che s’era fatto scuro, si potevano notare, lungo la strada che la processione aveva percorsa, le fattorie e le case coloniche illuminate, palazzi di Aladino, punti di luce gialla nei campi scuri, sotto una volta celeste trapunta di stelle brillanti. Mentre ritornavamo in macchina verso casa, si levò la luna inondando ogni cosa di una pallida soffusa luce azzurrognola, i cipressi e le case bianche...

Per quante migliaia di anni la processione si è snodata attraverso la valle? Di certo, molto tempo prima della nascita di Cristo, al tempo di Pale e di Vertumno e chi sa di quale gentile divinità dei campi, prima dei giorni di Roma e d’Etruria.

In Turenna. La campagna

È con un piacere dal sapore piuttosto particolare che mi ritrovo nella campagna della Loira. Questo sud mite e razionale, privo delle effettive, ineffabili attrazioni e del fascino prepotente del vero sud, è accessibile sia al sentimento che alla fantasia quotidiana della gente del nord: ecco la Turenna soavemente saggia, dalle linee delicate delle colline assolate, né troppo basse né troppo ripide, dai fiumi freschi accompagnati dai pioppi e dalla fine pietra grigia, elegantemente incisa nei cornicioni e nelle torrette e pervasa da una soffusa incipriatura dagli incantevoli colori tenui che rende i tramonti argentei piuttosto che dorati.

Questa felice terra non coltiva niente destinato allo spirito come tale: né foreste di abeti, né distese di erica, né ciuffi di cipressi; niente che non sia inteso, prima o poi, per la tavola, come il grano, le viti, i meloni e la bella frutta rampicante; ma forse è per questo motivo che possiede, al più alto grado, quel singolare genio francese che riesce a cambiare in una specie di poesia i pigri e sensuali bisogni della vita.

Provai lo stesso sentimento ieri, quando i miei amici della Commanderie mi accompagnarono da certe persone vicino a Vouvray, nel tardo pomeriggio, lungo la grande Loira, con la sabbia dorata e i giallastri coteaux che circondano gli argentei tetti di ardesia. Sedemmo in un giardino vecchio stile a terrazze, pieno di fiori, sopra il grande fiume; c’erano due vecchi, cortesi signori dall’aspetto incantevole che tenevano viva la conversazione; ci offrirono dello squisito vino bianco, una torta simile al pane e delle susine verdi, spaccate per quanto erano mature.

È impossibile parlare in modo adeguato della Turenna, ricordarne il sapore (è stato davvero l’intuito a farmi descrivere il suo incanto con la parola «sapore»), senza elencare le cose da mangiare e da bere. Confesso che negli altri paesi non rivolgo grande importanza al mangiare che considero solo come uno degli inevitabili fastidi della vita; ma in Turenna ci penso sempre, lo sento come un fattore preminente della vita. Ha diritto ad essere tale, perché, come ho detto, questa terra ha trasformato i pasti in poesia. Il déjeuner à la fourchette all’osteria di Saumur era una componente essenziale dell’incanto della vecchia città, come le discrete portes-cochères di Balzac, sommerse di rampicanti, e la graziosa casa con le torrette costruita dal re René per la figlia. Mi ricordo, e mi ricorderò sempre, delle belle lunghe pagnotte di pane, simili a biondi cactus, di cui possiamo sbocconcellare pezzi enormi, così come di ogni altra cosa, a Langeais. E anche lo Château de St. Avry, che concentra tutta l’originale espressione poetica di quella parte della Loira in un solo sorso – un sorso in una conchiglia d’argento da assaggiatore – del Vin de Chinon invecchiato dieci anni.

Il nome di St. Avry non è quello vero; l’ho inventato di proposito, perché se altre persone nutrissero una diversa idea del luogo, non vorrei nemmeno saperlo. La mia personale avventura in quel luogo è stata come una pagina, ma una di quelle di grande piacevolezza, di The Sentimental Journey, con la differenza – e ciò avrebbe sorpreso Yorick – che invece di giungere elegantemente in calesse, arrivai a St. Avry spingendo in salita la bicicletta.

Avvenne nell’agosto di due anni fa, in un pomeriggio di immenso e generoso calore del sud, con le strade polverose che odoravano di clematide ormai sfiorita e bruciata dal sole.