Ero stata attratta dalle torri e dalle mura dirute di St. Avry, seminascoste tra i frutteti, e anche dal fatto che era stato l’ambiente in cui si era svolta l’azione di uno dei più monotoni, ancorché noti, romanzi storici. Il castello era stato trasformato in una fattoria, ma una fattoria in cui gli abitanti sembravano sprofondati nel sonno, tutti tranne un cane che, pur abbaiando, non mi aveva impedito di entrare. Finalmente, tra le viti a terrazze e i peschi a spalliera, apparve un contadino che dimostrava apertamente il suo malumore. Comunque al primo sguardo capii subito che si trattava di un caso di retorica. Mi piacciono i francesi perché amano la retorica e quando sono in Francia riesco a diventare io stessa retorica. In meno di un minuto il contadino si era ammorbidito, in meno di due era diventato cortese ed espansivo; in meno di cinque ci ritrovammo tra le mele e le pere che si stavano maturando sulle stuoie, i mantici sulfurei e le damigiane nel vano circolare della torre del castello, gareggiando l’uno con l’altro in eloquenza e distinzione di modi. Va a merito di una nazione il fatto di coltivare queste qualità non solamente per se stessa, ma di derivarle, al solo contatto, dagli altri; da parte mia, in tali occasioni, mi sento sempre invasa da un sincero orgoglio e ai complimenti gallici rispondo dicendo che anch’io sono nata in Francia, prevedendo l’inevitabile commento (in quel momento perfettamente giusto) secondo il quale devo essere naturalmente francese nel cuore.

La torre rotonda è tutto ciò che rimane integro del castello di St. Avry che Richelieu, come si dice nel romanzo storico che ho già citato, fece distruggere dopo la famosa congiura. Il contadino mi mostrò anche la magnifica vista della Loira fiancheggiata dai pioppi, con Tours che luccicava in lontananza e, volgendosi in diverse direzioni, mi indicò le torri di Luynes e Langeais. Mi accorsi che conosceva strane storie sulla rovina degli châteaux della Turenna, di cui così pochi (di fatto penso solo uno) sono rimasti di proprietà delle famiglie originali. Suo padre, un grande mugnaio, aveva l’abitudine di comperare gli arazzi antichi per coprire i muli e per farci le tende per i braccianti durante la vendemmia; gli antichi arazzi portati fuori dagli châteaux reali! Quanto poi agli arazzi di Chambord, era una storia complicata, degna di Balzac! In questo modo giungemmo a parlare di agricoltura e di enologia, e poiché intuì che avevo una certa competenza in quest’ultima (abbastanza almeno da impedirmi di chiedere come un mio amico, «in quale fase va aggiunta l’acqua?»), insistette per farmi visitare la cantina. Mentre ci stavamo avviando, apparve tra l’erba e i fiori d’autunno una donna dall’aspetto dignitoso, con in capo un cappellino da sole e un cestino sottobraccio, che l’uomo mi fece l’onore di presentare. «Mia moglie», disse, «è una delle donne più laboriose che ci siano», con evidente imbarazzo per il suo silenzioso inchino e per l’unico dito che riusciva a tendermi poiché aveva raccolto le patate. «È una delle donne dall’aspetto più distinto che abbia incontrato», risposi, mentre ella si allontanava, sperando che lui apprezzasse la grande fortuna che gli era capitata. Ma il suo spirito volubile gli aveva già fatto cambiare argomento e si era immerso in un’eloquente filippica sulla decadenza della Francia, sui grandi svantaggi della suddivisione della proprietà, sulla crescita dell’Egoismo Borghese e sullo spopolamento delle campagne; in tutto ciò non ero riuscita a capire se egli si rammaricasse della situazione come patriota, o ne godesse nell’intimo come un Esprit eclairé. «Nous disparaîtrons, madame; nous disparaîtrons sûrement», concluse con cupa soddisfazione; né da parte mia alcun gesto di disapprovazione come «Oh, mais, monsieur» avrebbe potuto farlo abdicare alla lucidità del suo ragionamento o all’eloquenza sulle sue riflessioni. «Ma», gli dissi, «riflettete, monsieur, sul fatto che l’Europa non può fare a meno del popolo francese; altrimenti, se voi tutti sparite, le nazioni europee morirebbero di ennui».

«Ah, pour cela, madame, je ne garantirais pas le contraire», ammise, raggiante, mentre girava la chiave nella porta della cantina. La cantina era nelle viscere, tanto per dire, di una delle torri bruciate da un incendio, circondata da piante e da ghirlande di clematide, un luogo, in quel giorno di agosto, impregnato della più fresca e fragrante oscurità. Mi porse una piatta tazza d’argento, simile ad un cucchiaio, ma abbastanza concava da contenere più o meno due sorsi e mi invitò a gustare la sua vendemmia mentre me la mostrava. Il suo entusiasmo aumentava con le parole, finché alla fine volle farmi assaggiare il più delizioso vino del paese, il vero Vin de Chinon, invecchiato dieci anni.

«Ed ora potete dire», affermò il contadino di St. Avry, «di aver gustato il vino più buono di tutta la Turenna, se non della Francia. E di aver avuto il migliore benvenuto da queste parti» aggiunse, quando lo ringraziai caldamente preparandomi alla partenza, «perché la visita di un’intelligenza così colta ed illuminata come la vostra rompe la monotonia e alza il tono della mia vita campagnola».

Poiché avevo capito che voleva essere lui a dire l’ultima parola e la più cortese, e che non sarei stata davvero capace di gareggiare con lui in cortesia ed eleganza di espressione, lo ringraziai à l’anglaise, presi la bicicletta e partii nella direzione del vitreo fiume Cher, oltre al quale giace, tra i vigneti più assolati e i giardini di meloni, l’ospitale Commanderie.

Questa fu la mia avventura a St. Avry, circa due anni fa. L’impressione che ebbi della campagna della Loira resta invariata nella mia memoria; e pochi giorni dopo, essa mi venne incontro personificandosi, mentre vagavo tra questi alti vigneti, i campi di zucche e le casette basse dal tetto grigio, ornate di fiori che esalavano un caldo e polveroso odore di clematide, tra l’arida malva e il quadrifoglio che si stava inaridendo. Incontrai un vecchio, molto simile ad un satiro vestito in modo appropriato, con un serbatoio di solfato di rame e una siringa per le viti; i suoi ordinati vestiti di cotone e la sua stessa vecchia persona erano completamente coperti di uno straordinario verderame bluastro: un bronzeo genius loci della prospera, vecchia Turenna.

In Turenna. I castelli della Loira

C’è un altro aspetto della Turrenna e della campagna della Loira, oltre l’affascinante e comune dolcezza di cui ho parlato. Il passato di questa delicata e prospera regione è, come per la Francia, melanconico e raccapricciante. Ad eccezione del salone in rovina del castello di Chinon, che a mala pena si distingue dai giallognoli dirupi coperti di vigneti, dove per la prima volta Giovanna d’Arco incontrò il delfino, non mi viene in mente nessun castello o palazzo storico di cui valga la pena custodire le memorie. Tuttavia non sono sicura dell’autenticità della terribile fortezza di Loches, dove le torri, a forma di prua di nave, spuntano fuori dal magnifico giardino di roseo malvone e di albicocchi e di viti, con delicati garofanini selvatici cresciuti a mazzetti tra il lastricato. È bene, anche se occasionalmente, dissipare le proprie illusioni sul passato, scuoterne la polvere dai piedi e respirare con piacere in questo decoroso e monotono presente.