Forse ho sbagliato fin dalla mia infanzia, rifiutando di visitare le storiche prigioni di Venezia, di Ferrara, di Mont Saint-Michel e di altri luoghi; e ora sono contenta di scoprire, quasi accidentalmente, quelle di Loches.
Prigioni orribili, simili a grotte, con feritoie senza vista; lo sventurato e malvagio Duca di Milano scarabocchiava disegni puerili ed enormi iscrizioni che stringono ancora il cuore: «Celui qui n’est pas content» e così via. Peggiori ancora erano le prigioni dove venivano rinchiusi certi vescovi ribelli, con buche che erano state ricavate nella gialla arenaria simili ad altari e a stazioni del calvario; tragiche buche scavate per arrampicarsi verso finestre senza vista. Sul pianerottolo di assi nella parte esterna c’erano delle grate di legno che, si dice, fossero gabbie umane su disegno di La Balue. Appena lasciato il castello, si inizia ad errare attraverso la cara ed antica città, ornata di fiori ed alberi da frutta, soffocando di orrore e d’indignazione per la folle crudeltà di quei giorni lontani. Perché prigioni simili non sono un elaborato espediente per la tortura, ma il casuale risultato di mera e ottusa indifferenza. In luoghi come questi furono gettate persone che andavano incontro alla paralisi e al disfacimento per un motivo non più giusto di quello che spinge un bambino a gettar via un rospo mezzo schiacciato o una cavalletta: creature viventi trattate come verdure di scarto e senza tenere presente, verrebbe da pensare, che possa esistere in loro la capacità di soffrire. Di recente a Loches, aprendo un passaggio sotto il castello, in un fossato privo d’acqua, è stato rinvenuto un libro spaginato e mezzo marcito, un volume, scritto in italiano, di Paolo Giovio, le Vitae. Ne fui intensamente commossa: questo messaggio che raccontava della più profonda infelicità proveniva forse dal paese di mia adozione; dallo splendido, malvagio, ma delicato e umano rinascimento italiano. Quelle pagine rappresentavano con ogni probabilità l’unica consolazione di uno degli infelici reclusi di quella prigione sotterranea, pagine che gli furono crudelmente strappate di mano e gettate via sotto gli occhi.
Di certo oggi siamo migliori, pensavo, qualsiasi cosa si possa dire, e presi a respirare meglio quando il treno con un lungo fischio cominciò a muoversi lungo l’Indre accompagnato dal falasco. E in altre situazioni siamo di sicuro molto più fantasiosi dei nostri antenati. Essi seppero creare forme estetiche più eleganti delle nostre e in qualche modo, negli angeli e nei santi, ebbero più tenere ispirazioni artistiche. Ma apparentemente non hanno saputo immaginare le sofferenze della gente; e ci è voluto il più alto sforzo poetico del più grande poeta medievale per far rivivere il tragico destino di Ugolino con una lucidità simile a quella che Laurence Sterne ha riservato, nel nostro moderno diciottesimo secolo, al destino dello storno in gabbia.
Ci sono stati troppi orrori per trarre un completo immaginario conforto lungo le sponde della Loira e sulle rive dei suoi dolci affluenti, l’Indre, la Vienne e la Cher. L’incantevole e originale architettura dei più antichi châteaux, anzi delle piccole fattorie e gentilhommières, la loro scultura sobria e delicata simile ai primi radi boccioli di un pruno invernale, tutto questo non ha nulla a che fare con le storie malvagie sulle quali tanto insistevano le guide e le portinaie. La mostruosa e ibrida massa di Blois (parlo naturalmente della parte rinascimentale) con le spaventose file di orribili gargolle sopra il classico colonnato, con quel labirinto di stanzette, basse e soffocanti, nelle cui credenze si dice con insistenza che fossero conservati i veleni di Caterina dei Medici e dell’assassino dei Guisa, questo terribile castello di Blois sembra l’unico monumento adatto a rappresentare la crudele Francia dei Valois, la cui malvagità non fu mai purificata, come invece quella dell’Italia, dall’aria aperta e dalla luce del sole, dal forte impulso dell’energia umana e dal calore generoso del genio. Esso conserva, tra gli altri oggetti ripugnanti, un quadro col Matrimonio di Joyeuse: un ballo in una stanza stretta e bassa, dove dame affettate con il guardinfante danzano con i beniamini di Enrico III in volgari sbuffi di calze e di maniche, con barbe e cappelli alla Mefistofele, un sabbath adatto alla decorazione in pietra scolpita Brocken. Perfino l’incantevole castello di Amboise, che si erge così fantastico sopra un ampio tratto della Loira, è pieno di memorie che neanche la brezza dei pioppi lungo il fiume e il profumo dei fiori di tiglio essiccati al sole e la mielata clematide sanno addolcire. Nel castello di Amboise, in una cripta sotto l’incantevole cappella di St. Hubert che si protende come una spinosa gargolla gotica dal muro maestro del castello, è conservata una statua chiamata La noyée che potrebbe rappresentare il genio malvagio della Loira. Il fiume la rigettò durante un’inondazione e la gente di campagna crede che rappresenti una donna annegata. Ma in realtà è solo una di quelle terribili effigi nude che Goujon, Pilon e altri grandi scultori francesi del tempo hanno avuto la crudeltà e l’empietà di eseguire. Magari fosse stata rigettata nella Loira perché venisse completamente sfigurata dalle pietre alluvionali e con lei gran parte del Passato di questo bel Paese, ahimè! di tutta la Francia per essere travolto nel nulla.
Sostituiamo in ogni caso a questo passato che sarebbe stato meglio che non fosse mai esistito, un passato – l’unico giusto – ricavato per mezzo della fantasia dalle piacevoli allusioni e dalle improbabili suggestioni dei mattoni e della calcina. Non solo i mattoni e la calcina, ma anche la grigia e graziosa ardesia, leggera come una piuma, che copre gli aguzzi tetti, e il piombo argenteo e ritorto sul dorso del tetto e sui pinnacoli. Infatti sto parlando ora del castello di Azay-le-Rideau che, grazie al cielo, non ha una storia da trasmettere e niente su cui valga la pena di soffermarsi. La domenica, quando andammo a visitarlo, era chiuso e apparentemente privo di abitanti. Sotto i grandi filari vicino alla porta stava alzando le tende un circo e dei soldatini con le calze rosse pescavano nell’acqua alta del fossato. «Se si potesse entrare» notò la mia amica poetessa, «potremmo prendere il tè del pomeriggio servito da mani invisibili; e la bestia si precipiterebbe fuori e pretenderebbe di sposare qualcuna, se ci fosse qualcuna che si accingesse a cogliere un geranio». Perché Azay-le-Rideau è davvero un castello da fiaba, o almeno un castello per Celia e Rosalinda prima (o dopo) che furono fuggite nella foresta di Arden.
Un castello feudale, questo, con torri e fossati, ma con le finestre e i torrioni ricoperti di raffinate sculture fiorentine e ornato tutto intorno da minuscole statue dai motivi gotici, ma simili a quelle che si trovano sul piedistallo del Perseo del Cellini. La sua forma è il trionfo dell’irregolarità, angoli ottusi e angoli acuti e ovunque curvature improvvise e torri dove non dovrebbero essere, riflesse in forme ancora più irregolari e dai toni poco più argentei sulle acque del fossato, e tetti che pendono chissà dove. Quei tetti sono in realtà il culmine del tutto: danno l’ultimo tocco o, per meglio dire, l’ultima parola a tutto quello che già è incantevolmente improbabile.
1 comment